L’iPhone e il re pallido
di Giuseppe Zucco
Dalla viva voce di Alessandro Baricco alle colonne del Venerdì di Repubblica: Fondare una scuola, aprire un teatro, inventare un certo modo di fare televisione sono operazioni più simili all’arte che all’artigianato. L’iPhone, che è la risultante di molte cose, vi è certamente più vicino [all’arte] che non Infinite Jest di Foster Wallace. Ok, diciamo pure che resto colpito da tale affermazione, ma colpito come una martellata sul dito più piccolo e indifeso. Metto il mignolo in bocca, e aspetto che il dolore si sciolga. Il dolore del tutto particolare e contemporaneo proviene dal fatto che per un attimo immagino che tale affermazione abbia senso e ragionevolezza e sia capace di registrare i limiti e la complessità del mondo, anche se non è vero. Il dolore da mignolo in bocca alle nove del mattino mentre mi soffermo su uno dei periodici più diffusi e influenti sul frastagliato territorio nazionale è quello di chi immagina che tale affermazione rilasciata da uno degli scrittori italiani più letti e amati sia tutto sommato anche abbastanza facile e abbordabile e condivisibile dalla maggioranza dei lettori, affermazione che non sposta alcuna intelligenza e che non mette nessuno in discussione. Dolore o, ancora meglio, piccolo fulmineo spasmo interiore che riporta nell’alto dei cieli la stella polare di una massima di David Foster Wallace, cioè che per essere onesti, e fare e/o dire e/o scrivere la cosa giusta, bisognerebbe sempre far parlare la Parte Di Te Che Ama invece che La Parte Di Te Che Vuole Essere Amata in seguito ad affermazioni facili e abbordabili e condivisibili in seno a una maggioranza di persone che ha già fatto di te un idolo a cui prestare attenzione e che indubbiamente a monte già pensa come te, di comune accordo, finendo per rafforzare non solo il carico indotto di amorevole attenzione che La Parte Dello Scrittore Che Vuole Essere Amato già di per sé richiede e pretende di attirare, ma in questo caso anche i luoghi comuni e le opzioni più scontate dell’opinione pubblica. Piccolo spasmo interiore che si disinteressa completamente della polemica e dell’opinione pubblica e che duplica e triplica nei giorni seguenti la sua portata proprio per come tale affermazio-ne ha ingiallito la figura di David Foster Wallace, a tutto discapito del suo lavoro e della sua generosità, del suo sforzo costante di fare il massaggio cardiaco ad ogni particella della nostra umanità che per disattenzione e pigrizia finirebbe per avvizzire, la cura e l’attenzione verso il prossimo in particolare, lo fatica quotidiana di capire cosa ci lega al nostro prossimo nonostante questo ci tagli la strada con il Suv o abbia un lunghissimo imbarazzante riporto o rida col risucchio in fondo alla parabola di un raccontino razzista o riveda la nostra dichiarazione dei redditi con i lineamenti ispessiti dalla più atroce noia mai comparsa in natura. Poi penso al walkman. Penso al vhs. Per ripulirmi dal wrestling, l’iPhone con il ginocchio schiacciato sullo sterno di Infinite Jest, ripenso al walkman, al vhs, a tutta la tecnologia sfornata sotto l’impulso di un incredibile intelligentissimo lavorio umano, il design o la fattura o i microchip della tecnologia che è stata espulsa una volta per tutte dall’orizzonte della nostra esistenza, o che è stata ridimensionata o rivista e corretta in ulteriori formati, i quali non potranno nulla contro l’usura del tempo e i plug-in della conoscenza e le rivoluzioni scientifiche. Se l’iPhone ci insegna qualcosa, è la convergenza e l’interconnessione, il fatto che ognuno di noi sia un piccolo grande nodo da cui passa e si raccorda il mondo. Ma questo già lo sapevamo. È pratica comune riconoscerlo nelle nostre avventure quotidiane regolate dalle app e dal touchscreen. È il medium il messaggio, diceva Marshall McLuhan, e questo non fa che sciogliere il dolore dopo tutti questi giorni. La letteratura, la vera letteratura, è un’altra cosa. Tra le tante, non si usura, non viene superata, sprigiona fantasmi incubi tenerezze anche dopo secoli, riconfigura il passato e il presente e il futuro, ci rende meno soli, ci mette in contatto con tutti ed ogni cosa, dirama il potere dell’empatia, ripopola la desertificazione a macchie della consapevolezza, allarga i limiti del nostro linguaggio che in fondo sono i limiti del nostro mondo, ma non ci consola né ci salva, questo lo sapeva benissimo anche uno tra i migliori scrittori che io abbia mai conosciuto. Finito Il re pallido, prima o poi riprenderò in mano Infinite Jest. Riposa in pace, David.
Questo testo fa parte di una rubrica bisettimanale, Hashtag, ed è stato pubblicato su Vicolo Cannery (http://www.vicolocannery.it/)
Che la predica venga dal pulpito di Baricco non meraviglia. Del resto lui fa letteratura di consumo, usa e getta (io però non la uso, mi limito a ri-gettarla). Perciò, sia che la sua esternazione fosse pronunciata con sotteso sarcasmo (siamo benevoli), sia che ci “creda” “davvero”, non è strano che riduca il mondo, e i grandi scrittori, al metro della sua mediocrità.
Baricco, per favore, vattene, vattene! Mettiti un melone in bocca. Mettiti la testa nel water. Mettiti tutto quello che vuoi in ogni posto che vuoi. Però STA’ ZITTO, per amor del cielo!
baricco è perfettamente contiguo/connivente/consustanziale e consenziente alla banalità mediatica da cui è stato allevato e rimpolpato
Mi associo al commento che precede. “Fondare una scuola” dice Baricco, che guarda caso ne ha fondata una. Come dire io faccio arte, mica uno sfigato come Wallace (perché, diciamoci la verità, Baricco somiglia un po’ al giovane sottosegretario, no?)
Può interessare la lettera che, in merito a quelle affermazioni, Antonio Moresco aveva indirizzato a Baricco un paio di mesi fa. Ecco qui: http://www.ilprimoamore.com/blog/?p=204
però, quando baricco parla e scrive dei libri degli altri, ha pochi rivali: se non fossero bastati picwick e totem e certe parti di barnum 1 e 2, c’è il suo canone intitolato ‘una certa idea di mondo’la domenica nell’inserto culturale(absit inuria verbis) di repubblica: un higbrow che sa come spiegare ai lowbrow piaceri e tormenti della lettura.
Bella la lettera di risposta di Moresco, già opportunamente segnalata da Teo Lorini. Quanto a Baricco, è strano: lui quando parla dei libri altrui sa essere davvero bravo, ma INFINITE JEST proprio non lo sopporta; una volta, non ricordo più in quale occasione, lo liquidò come un libro “tipicamente americano” (nella qual espressione il sarcasmo zampillava copioso…)
zucco
A me IL RE PALLIDO è sembrato, per lunghi tratti, davvero superbo; un Foster Wallace in grande forma. E pensare che diffido dei libri postumi.
Se questa è arte
http://www.nytimes.com/2012/01/26/business/ieconomy-apples-ipad-and-the-human-costs-for-workers-in-china.html?_r=4&pagewanted=1&hp
Baricco doveva restarsene a fare televisione.
@ linnio accorroni
grazie: anche perché mi permetti di sgomberare il campo da una serie di equivoci.
questo post voleva semplicemente essere una contestazione sentimentale ad una dichiarazione di baricco, non l’innesco per lo sgancio selvaggio di bombe al veleno su uno scrittore.
provo sempre una certa pena quando leggo commenti stizziti e stringati nei confronti di uno scrittore. visto che c’è tutto lo spazio, auspicherei che al commento stizzito, di pancia, seguisse poi una trattazione razionale, di testa, sul perché quel dato scrittore non convince o risulta del tutto indigesto. non dico sempre, ogni tanto. giusto per non dare libero sfogo solo alla viscere.
poi, se devo dirla proprio tutta, mi addolora il modo molto à la page di assestare schiaffi schiaffini schiaffoni a baricco. per una ragione biografica. in un’epoca pre-internet, quando era difficile se non impossibile risalire ai libri importanti, soprattutto per un ragazzino come me che viveva nelle estreme periferie della regione calabria, periferie dove era già tanto trovare librerie fornite di classici ottocenteschi e/o primonovecenteschi, i lunghi articoli appassiona(n)ti di baricco sulla repubblica, o gli altrettanto lunghi monologhi in alcune trasmissioni televisive, pickwick o totem, erano una boccata di ossigeno culturale, e devo a lui la scoperta e il successivo confronto con carver, steinbeck, conrad, philip roth, hemingway, celine, mccarthy, gadda, joyce, i primi nomi che mi vengono in mente.
i suoi libri possono piacere o non piacere, quanto di più legittimo, ma non è questo il punto. per me è doveroso ricordare, e riconoscere, il lungo lavoro di divulgazione appassionata che ha condotto in tutti questi anni.
@ enrico macioci
quando affronti i libri di foster wallace, non è che semplicemente leggi, ma fatichi, lavori, sudi. la lettura dei suoi libri è un’impresa tale e quale alla loro scrittura. una specie di scalata: un’impresa impervia e miracolosa e toccante. per questo, anche a distanza di anni, ti rimane tutto così impresso, le immagini, i tentacoli delle frasi, l’iperrealtà delle descrizioni, le ossessioni e le ossessioni delle ossessioni, il riverbero cosmico dell’empatia. quest’ultimo libro non fa eccezione.
Concordo con Zucco parola per parola. Lggere DFW è un’esperienza profonda, che coinvolge diversi livelli d’attenzione; è una lettura stratificata, una ricerca.
L’affermazione di Baricco, dispiace per lui, non dequalifica Infinite Jest, come sembra, ma qualifica lui stesso. Fa capire che non si sente, alla fine, uno scrittore. Uno scrittore come DFW, per dirla tutta. Preferisce le opere collettive, costruire telefoni, fondare scuole – il cinema non l’ha messo perché gli è venuto male, forse. Non voglio parlare male di Baricco anche perché i suoi primi libri li lessi con piacere, anche i Barnum, e i nuovi barbari secondo me è un saggio molto acuto. Da troppo tempo però trovo che la sua scrittura si sia avviluppata su stessa, una signorina che si guarda allo specchio e spera di rimanere giovane per sempre, ha studiato quelle tre mossette per sedurre chi la guarda e continua a ripeterle come un disco rotto. A questo punto appare chiaro l’accanimento contro uno scrittore del genere di DFW del quale, mi perdoni Zucco, la lettura dei suoi libri, seppur faticosa, non equivale di certo a scriverli. Non è perché abbiamo imparato ad andare in bicicletta l’abbiamo inventata.
P.S.
Non vorrei essere pedante con questa cosa, ma “Il re pallido” non è un libro postumo di DFW, è scrittura di DFW assemblata dal suo editor. Continuo ad avere la presunzione di pensare che se DFW avesse voluto fare uscire il libro l’avrebbe fatto.
@ Giuseppe Zucco:
hai scritto del lungo lavoro di divulgazione di Baricco.
Appunto: doveva continuare con cose come Pickwick o con gli articoli divulgativi.
Poi ha cominciato a scrivere. Poi ora non gli va più bene e se ne esce con questa sua dell’ iPhone.
Potremmo contestargli che l’origine dell’arte è semplicemente un artigianato e che alla base della civiltà letteraria occidentale c’è il tessitore o il fabbro di parole. Cioè l’artigianato verbale, che può essere fruito a più livelli e non è chiuso in un pesante elitarismo.
Perché dovremmo erigere a categoria critica il commento di uno scrittorello che non è riuscito più a vendere come prima e non è riuscito a farsi piacere dalle élites -e dunque guarda rancoroso a tutti e due i poli, alto e basso, della scrittura?
Su Baricco ho feroci perplessità, per ragioni che potremmo definire professionali, sin dal tempo della sua cosiddetta “Iliade”.
Il fatto che si stia perdendo tempo a discutere di una sua esternazione di dubbio odore mi sembra eccessivo.
Altre parole non ci appulcro.
Personalmente, ritengo sia stato sottovalutato il saggio di Baricco sui “nuovi barbari”. Non mi sembra venga molto letto e citato. Eppure è non solo acuto, ma illuminante sul mondo verso cui stiamo andando. Non mi pare, poi, che Baricco quel mondo lo difenda o ne voglia far parte fino a crogiolarvisi: semplicemente lo coglie, lo descrive nel suo attuale delinearsi, con intuizioni importanti.
Non sono un amante delle attività di Baricco, non lo sono nemmeno di Wallace.
Tuttavia non mi pare il caso di fare un discorso sulla differenza che intercorre fra le pratiche di scrittura di uno e dell’altro (giusto per evitare impietosi confronti).
Ciò che mi sfugge è la centratura delle esternazioni di Baricco e le mire sottese a questa colata che, cementiziamente, va a “depositarsi” su uno degli autori di maggior interesse degli ultimi vent’anni (oltretutto potremmo tacciare il “nostro” di essere un poco impolite sulla scelta di un autore ormai reso muto dal trascorrere degli eventi, ma non diamogli soddisfazioni).
Si tratta, fondamentalmente, di legittimazione ottenuta tramite delegittimazione.
Peccato che non avvenga con l’utilizzo delle giuste misure.
Resto qui in attesa di uno stacco ulteriore: dalla “divulgazione appassionata” alle “mutazioni antropologiche”, da Ovidio (pardon, Omero) alle morfòsi nel passaggio portrait-landscape (causato dalla rotazione del dispositivo di cui sopra), credo che l’ultima Thule di questa palingenesi del letterario sia soltanto la rivalutazione dell’attività dei platelminti a scapito di x (dove x sta per “soggetto/oggetto passibile di deprezzamento, obiettivo di subdole rosicate ex post, estratto a sorte”).
Nessuna categoria critica da spendere, in questo caso, per Baricco: solo crisi e rigenerazioni industriali, abbruttimenti da design, rash intellettual-cutanei scambiati per occasioni di battage e nient’altro concesso, nemmeno un po’ di prurito.
invidia?
A margine, segnalo che sulla rivista studio c’e’ un ottimo articolo di cristiano de majo che analizza con grande perspicacia la narrativa di baricco a partire dal suo ultimo libro.