MEMORIE DELL’OLOCAUSTO “… è una bellissima aurora!“
Birkenau-Auschwitz 27 gennaio 1945
VIKTOR ULLMAN V. Variazioni
SONATA N.7 22 Agosto 1944
scritta nel ⇨ Campo di Concentramento di Terezin
Or volge l’anno che, consunta, smemorata a tratti, mia madre se n’è andata. La smemoratezza dei vecchi non ha oblio, né dimenticanza: è piena di visioni. La memoria si adegua. Si ricompongono brandelli, si cuciono al presente tasselli di passato, si vela con il non esser più se stessi il se stesso che svanisce, quel che non si vuol riconoscere come proprio del decadere del corpo e della lucidità, e si chiamano a raccolta per la veglia le ombre. Nell’ultima notte inquieta dell’ospedale, crocefissa ai suoi aghi e fili, aveva tanta sete, e con quella sua così lombarda e civile indignazione, quella che le faceva dire noi che abbiano fatto la Resistenza, come fosse un ordine etico invisibile, protestava, la voce ancora alta e ferma. Dottori… infermiere… a un essere umano si dà almeno un goccio d’acqua! Mi dicono Con una garza inumidita solo piccole gocce, mi raccomando. Un nulla per la bocca arsa, ma l’unico gesto di sollievo della sofferenza che si potesse con sollievo fare. Il sollievo breve fra una goccia e l’altra. Aveva molto freddo. Mi chiamava… mamma… Zia Alice… stai qui… dammi la mano… Ero là.
Alice Ventura Battaglia, la zia che l’ha allevata e l’ha iscritta alla scuola di Ballo della Scala e poi non è più tornata dal Campo di Concentramento Femminile di Ravensbrück. Morta di consunzione, caricando sabbia sui vagoncini di ferro. Cenere per la palude, per la terribile colpa di aver prestato la sua tessera annonaria alla moglie incinta di un partigiano, per la delazione di chi, allora, per 5000 Lire vendeva anime agli aguzzini. E come avrà vissuto, poi, con l’indegno segreto? Benissimo e assolto.
Le ho sempre tenuto le mani. Che belle carezze… che mani calde hai zia Alice… Le scaldo le mani. Belle e morbide dei port de bras aggraziati.
– Zia Alice portami un ago.
– Un ago?
– E del filo… molto filo…
– Che cosa devi cucire?
– Dobbiamo cucire, vieni, tutta questa tela bianca…
La vedi quanta tela zia Alice?
Dobbiamo cucirla.
Tutta.
Aiutami a infilare l’ago…
Poi in questa visione di candore e di punti vicini e regolari si è assopita e se ne andata.
Per lei, per essere stata io, nipote e figlia, madre e zia di mia madre, per quei pochi attimi, come fosse tornata l’amata zia perduta, aspettata invano per anni dopo la fine della guerra, per la zia Alice, mai più ritornata, per tutti quelli che hanno sopportato e sopportano questo dolore dell’Olocausto, che pare si trasmetta per una profonda inspiegabile genetica dei sentimenti per generazioni, per questa via matrilineare di sofferenza, son qui anche quest’anno a cucire, ad annodare parole e storie. E sono storie di donne, di adolescenti, di bambine, che, non lo si dimentichi, la popolazione effettiva e attiva dell’universo dei Lager era fatta da persone molto giovani, in età da essere carne da lavoro, sopravvissute spesso solo per la forza residua rimasta di questa gioventù. Le donne anziane, le madri con i bambini in braccio, o per mano, nella spietata selezione all’arrivo dei trasporti venivano subito scartate e destinate all’eliminazione, o soccombevano prestissimo alla durezza delle condizioni di vita e di lavoro. La maggior parte dei bambini venivano eliminati subito, a meno che non fossero destinati a sperimentazioni mediche, soprattutto i gemelli. Alcuni, nella sezione femminile del campo di Birkenau, che erano stati lasciati con le madri, vennero trovati ancora vivi alla liberazione del campo. Braccini con il numero tatuato e occhi di una tristezza senza fondo.
Leggendo il libro che raccoglie le testimonianze di tre donne sopravvissute ad Auschwitz Come una rana d’inverno di Daniela Padoan BOMPIANI [2004], si chiarisce molto della sostanziale differenza fra l’esperienza femminile e quella maschile dei Campi. All’inizio della sua testimonianza Giuliana Tedeschi dice:
Sono convinta che fisicamente le donne abbiano subito traumi molto superiori a quelli sopportati dagli uomini. Provi a riflettere su una cosa banale, come il fatto di arrivare lì, ad Auschwitz, e perdere subito tutti i capelli, sentire quella macchinetta fredda che le solca il cranio. Credo che un uomo non ne possa rimanere altrettanto scosso. Per me è stato un dramma vedere i capelli in terra. E la nudità poi… Adesso le persone si denudano con molta più facilità, ma allora non era così. Noi ne soffrivamo profondamente. Quando ci hanno stipato nel locale delle docce, tutte nude, non ce n’era una che non tremasse all’idea di trovarsi in quello stato di fronte ad altre donne, figuriamoci poi quando passavano gli ufficiali tedeschi…
Un’altro rovello per le donne, per la madri, era la divisione delle famiglie all’arrivo. La separazione dai figli, che sicuramente per un uomo è qualcosa di meno profondamente e visceralmente doloroso, era uno strappo difficile da sopportare.
Ma, insieme a queste maggiori fragilità e vulnerabilità, Giuliana Tedeschi identifica nelle donne una particolare attitudine alla solidarietà reciproca e all’aiuto, alla capacità di comunicare, al bisogno di parlare, che ha fatto sì che, al contrario degli uomini, che allora, per educazione erano sicuramente più chiusi, meno portati a svelare la natura dei loro sentimenti con i compagni, anche in un contesto simile esse trovassero maggiore forza di resistere. Un resistere che era anche un appello alle proprie risorse interiori e intelletuali
Soprattutto la musica. Proprio quando lavoravamo alle cave di sabbia, mentre i sorveglianti per un attimo non badavano a noi, disseppellivamo dalla memoria un’aria, una sonata, o le pure voci di Bach. Avevamo la sensazione che tutto dovesse essere scavato a fatica dal nostro interno, proprio come con la pala scavavamo la terra, ma riscoprire in noi quella risonanza di un vita precedente ci dava un’esaltazione commossa. Erano dei concerti irreali, di cui fu testimone solo il grigio cielo di Polonia.
[…]
Sentivamo il bisogno di estraniarci in quel modo, rifugiandoci nella cultura. Era quello che ci teneva vive. La cultura è un’estrema risorsa, perché ti fa vivere.
A Giuliana Tedeschi, morta il 26 giugno 2010, a 96 anni, e che rilasciò questa sua testimonianza preziosa nel 2003, fra i molti commossi sentimenti che hanno animato la stesura di questo scritto, va davvero un pensiero di gratitudine. Soprattutto perché per le donne fu difficile parlare e testimoniare la loro esperienza al ritorno. E il farlo in pubblico, nelle scuole, con le interviste, con la scrittura fu una decisione difficile e coraggiosa, che ogni volta rinnovava e riportava vive e devastanti le esperienze vissute. Ma senza la quale ora tutto sarebbe ancora di più dimenticato e rimosso. Per anni parlarono solo gli uomini e le donne tennero tutto dentro di sé. Cercarono attraverso la ricostruzione della loro vita, la famiglia, i figli, un recupero e un riscatto.
Così successe a Nonna Lisowskaja [1925 – 2006], russa e non ebrea, le cui memorie sono uscite in America nel 2009, per sua espressa volontà solo due anni dopo la sua morte, e che nascose a suo marito, Henry Bannister, sposato dopo essere emigrata in America nel dopoguerra, e a tutta la sua famiglia il suo tragico passato per quasi cinquant’anni. Lavorando in segreto alla trascrizione e traduzione dei suoi ricordi e dei suoi diari, cominciati all’età di nove anni e scritti in almeno sei lingue, dal russo, allo yiddish, al tedesco.
Una vicenda che dalla nativa Ukraina attraverso mezzo continente e quasi un intero secolo di storia arriva a noi attraverso le sue parole di ragazza, viva e vicina. Come accade per il diario di Anna Frank. Ma mentre le parole di Anna vengono troncate il giorno della scoperta del nascondiglio e dell’arresto. Nonna racconta a fasi alterne tutta la sua storia.
La testimonianza di queste ragazze degli anni quaranta con il loro diario, con tutto il senso e il valore, ora perduto, di segretezza e insieme di confidenza che aveva tenere un diario, penna e carta, ha, anche dal punto di vista letterario, un valore unico, proprio come cosa scritta per non essere letta.
Ne ho tradotto solo una piccola parte, le fatidiche 500 words consentite come massima citazione dalla rigida legge americana sul copyright, ma con un click è facile avere, per esigua cifra, l’intero ebook e viaggiare fra i suoi ricordi della vita di prima, in una magica Grande Madre Russia fra cosacchi, tempeste di neve, samovar fumanti, Natali incantati da Babushka, la mitica nonna materna, comitive di cugini su slitte con i campanelli, corse sui pattini da ghiaccio, profumi di giardini dei ciliegi e biscotti di zenzero e vaniglia, nell’alone della sua calda e colta e sfortunata famiglia. Fino ad arrivare al nascere del regime stalinista e poi all’invasione nazista della Russia con tutte le loro, purtroppo condivise, atrocità, antisemitismo compreso.
Il 7 Agosto 1942, da Konstantinowka in Ukraina sul treno che trasporta lei e la madre Anna in campo di lavoro in Germania, come operaie, schiave e prigioniere, dopo l’invasione nazista della Russia, Nonna Lisowskaja, allora appena diciassettenne, scrive le sue impressioni nel suo diario, che porta sempre con se nascosto in sacchetto di stoffa, legato in in vita sotto i vestiti.
1935 ultimo ritratto di famiglia
Anatoly, Nonna, la madre Anna e il padre Yevgeny Lisowsky
DMITRIJ DMITRIEVIĈ ŠOSTAKOVIĈ
V. Largo dal QUARTETTO N.8 in Do minore per archi [1960]
dedicato “alle vittime del fascismo e della guerra”
non potendo egli dire e dello stalinismo
The Secret Holocaust Diaries: The Untold Story of Nonna Bannister
di Nonna Lisowskaja Bannister
con Denise George e Carolyn Tomlin
[2009] Tyndale House Publishers, Inc.
da IL TRENO VERSO L’AGONIA
Capitolo primo
Imbarco sul treno
Mio Dio – non è proprio come ci immaginavamo che fosse questo viaggio! Siamo stipati come sardine in un barattolo nei vagoni bestiame del treno. Ci sono soldati tedeschi con i fucili con noi e la mamma è spaventata. (Io lo so che lei lo è.) La mamma s’illude ancora che noi si possa scendere dal treno e dimenticare il nostro bagaglio e andarcene a casa.
Giù c’è la nonna a circa venti passi, ci guarda così scioccata e sgomenta – sta piangendo – con le lacrime che le scorrono sul viso, mentre ci fa un cenno di saluto con la mano. In qualche modo io sento che non la rivedremo mai più. Il treno comincia a muoversi, mamma e io guardiamo la Nonna, finché non scompare alla vista. Alle ore 16:00 (4:00 p.m.) ognuno nel nostro vagone è molto quieto e nessuno sta parlando. Alcuni stanno piangendo sommessamente – e io sono felice di avere il mio diario e due matite.
Mi sono rifugiata nell’angolo più lontano possibile, così era come se avessi una stanza per scrivere. Ora la porta del nostro vagone è aperta, ma io posso sentire dei rumori sopra il tetto. I soldati tedeschi si sono piazzati in cima al treno, e stanno parlando e cantando. Credo che stiano bevendo – mi sembrano ubriachi.
È quasi mezzanotte – la luna è così grande – noi stiamo attraversando grandi campi. Ho bisogno di andare più vicino alla porta per respirare un po’ d’aria fresca. Come mi avvicino alla porta aperta, vedo un paio di gambe con degli stivali neri a penzoloni proprio sopra la porta, poi una faccia si sporge in giù e il soldato grida, “Ciao, bella!” e io scappo via molto velocemente dalla porta. La mamma mi tira più vicino a lei, e sento che sto per addormentarmi.
L’8 Agosto 1942 annota;
Quando ci svegliamo, possiamo guardare l’orizzonte e vedere il sole che sorge dai bordi dei più grandi campi che io abbia mai visto – è una bellissima aurora! Dove siamo? Quanto siamo vicini a Kiev? Il treno sta rallentando come se ci dovessimo fermare.
Il 10 Agosto 1942 di fronte al tramonto che scorre via insieme al paesaggio al passare del treno, ci lascia questo denso e triste “addio”:
Non dimenticherò mai la vista dell’ultimo tramonto mentre stavamo lasciando Kiev. Il sole sembrava una enorme palla di fuoco rosso e arancione, e stava scendendo lentamente contro l’orizzonte alla fine dei campi senza fine. Era quasi come se il sole stesse dicendo, “Addio, cara, non ci rincontreremo mai più su questo suolo!” In piedi vicino alla porta del vagone continuai a guardare il sole finché non scomparve completamente. Poi mi sentii improvvisamente molto triste e sola. Era un “addio” che mi fece percepire che una parte di me era morta. Molti tramonti e aurore ci furono da allora in poi, ma mai nessuno così bello come il tramonto che vidi a Kiev.
Ora so che stiamo per essere condotti in Polonia, e la mamma sta cominciando ad architettare piani per scappare quando faremo la prima fermata in Polonia. La prossima fermata dovrebbe essere per il pasto. Noi strisceremo sotto il vagone e aspetteremo che tutti siano risaliti, poi usciremo rapidamente e correremo verso il bosco. La mamma sta progettando.
Traduzione di Orsola Puecher [da qui]
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Gli episodi raccontati nei vari brevi capitoli sono scritti benissimo, con una capacità di visione, d’introspezione emotiva e narrativa davvero rara. Per uno strana necessità spazio temporale Nonna, a volte, mescola alle parole scritte nel passato il suo sguardo retrospettivo su di esse al momento della trascrizione. Ma sono brevi momenti di meditazione che nulla tolgono all’insieme della testimonianza.
L’infanzia fatata, che sta lì a far da contrappunto salvifico alle varie tragedie, si interseca con episodi che vanno dalla partenza per l’Università del fratello, che Nonna non rivedrà mai più, all’uccisione del padre che si era nascosto in cantina all’arrivo dei Tedeschi, a cui dopo la cattura furono strappati gli occhi e che a questo sopravvisse solo pochi giorni, alla successiva decisione della madre di accettare l’offerta dei Tedeschi che mascheravano una vera e propria deportazione in massa di schiavi con il miraggio di un fantomatico lavoro in Germania.
Convogli di ebrei russi rastrellati e di lavoratori schiavi viaggiavano insieme verso un comune destino, che a poco a poco si delinea nella sua realtà nel racconto di Nonna.
Dopo vari impieghi in fabbriche tedesche Nonna e la madre Anna trovano lavoro in un ospedale. Ma Anna per aver aiutato degli ebrei viene arrestata dalla Gestapo e finisce prima a Ravensbrück e poi a Flossemburg. Nonna si ammala di febbre reumatica con gravi complicazioni cardiache e si aggrava dopo le notizie sul destino della madre. In una lettera dal campo di Flossemburg ci sono le sue ultime parole per la figlia e quelle di una compagna che racconta che Anna, che era musicista, pianista e violinista, costretta dai nazisti a suonare per gli ufficiali nell’orchestra del campo, quando si rifiuta per via di una ferita a un braccio, causata da un caduta, non viene creduta e per punizione le vengono spezzate le braccia e le dita, con il seguito di una dolorosa e probabilmente irreversibile cancrena. La guerra finalmente finisce. Nonna dopo essere stata a lungo fra la vita e la morte, riesce a guarire, e cerca dovunque la madre, nei campi profughi, ma senza esito. Così, sfuggendo all’obbligo di tornare in Unione Sovietica, riesce a emigrare in America, dove si rifarà una nuova vita, felice e serena, nascondendo a tutti il suo segreto di inguaribile dolore.
In onore di queste giovani scrittrici e delle loro memoria trascrivo questo pezzo del diario di Anna Frank che parla leggera, vivace e profonda del tragico destino della sua penna stilografica, come una premonizione.
JAMES WHITBOURN Kyrie da Annelies 2005
Chamber Choir con Steve Duke, sax soprano
da IL DIARIO DI ANNA FRANK.
Cara Kitty,
ho un bel titolo per questo capitolo:
“Ode alla mia stilografica
in memoriam”
La mia stilografica fu sempre per me un prezioso possesso: l’apprezzavo molto, soprattutto per la sua grossa punta, perché io so scrivere bene soltanto se il pennino della stilografica ha la punta grossa. La mia penna ha una vita assai lunga e interessante, che ora ti racconterò in breve.
Quando compii nove anni, essa mi arrivò avvolta di ovatta in un pacchettino, come “campione senza valore”, da Aquisgrana, dove abitava mia nonna, la buona donatrice. Ero a letto coll’influenza, mentre il vento di febbraio soffiava attorno alla casa. La gloriosa penna era in un astuccio di cuoio rosso e fu subito mostrata a tutte le amiche. Io, Anna Frank, fiera proprietaria di una penna stilografica.
Quando ebbi dieci anni, potei portare la penna a scuola e la signorina mi permise di servirmene per scrivere. Quando ebbi undici anni dovetti riporre il mio tesoro, perché la signorina della sesta classe non ammetteva che penna e calamaio. Quando ne compii dodici e andai al Liceo ebraico, la mia stilografica si ebbe per maggior onore un nuovo astuccio in cui c’era posto anche per una matita e per di più munito di chiusura lampo. A tredici me la portai nell’alloggio segreto, dove percorre con me le innumeri pagine del diario. Ora sono arrivata a quattordici, ed è l’ultimo anno che la mia penna ha passato con me…
Fu un venerdì pomeriggio dopo le cinque: io venivo dalla mia cameretta e volevo andarmi a sedere al tavolino per scrivere, ma fui rudemente spinta da parte e dovetti cedere il posto a Margot e al babbo che volevano fare i loro esercizi di latino. La stilografica rimase inutilizzata sul tavolo, mentre la sua proprietaria si accontentò sospirando di un angolino del tavolo e si mise a strofinare fagioli. “Strofinare fagioli” qui significa ripulire i fagioli ammuffiti. Alle cinque e tre quarti scopai il pavimento, raccolsi lo sporco e i fagioli marci in un giornale gettai tutto nella stufa. Ne venne fuori un’enorme fiammata, e io fui contentissima di avere in tal modo ravvivato la stufa che pareva già quasi spenta. Tutto era di nuovo tranquillo, i latinisti avevano finito e io andai a sedermi al tavolo per cominciare, finalmente, a scrivere; ma la mia stilografica era irreperibile. La cercai dappertutto, la cercarono Margot, mamma, papà e Dussel, ma la penna era scomparsa senza lasciar traccia. «Forse è andata a finire nella stufa coi fagioli» insinuò Margot. «Ma no, assolutamente no» risposi io. La sera, però, la penna non era ancora ricomparsa e allora ci persuademmo tutti che era bruciata, tanto più che la celluloide è infiammabilissima.
Ed effettivamente i nostri tristi sospetti furono confermati la mattina seguente, quando papà nel ripulire la stufa trovò fra le ceneri il fermaglio metallico. Ma del pennino d’oro non si trovò traccia. «Certamente dev’essersi cotto rimanendo appiccicato ad una mattonella» disse il babbo.
M’è rimasta una consolazione, sebbene assai magra: la mia stilografica è stata cremata, proprio come vorrei io, a suo tempo.
La tua Anna.
[Traduzione di Arrigo Vita]
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
P. Levi “Se questo è un uomo” 1947
[ alla mia mamma Rosita Lupi Puecher che questo libro molto amava ]
[annoto le cifre dei giorni sui polsi
per non dimenticare come si può morire]
…
grazie.
Cara Orsola, da leggere, guardare, ascoltare. Molto bello tutto malgrado la tragedia, ed eleva.(Non sapevo di tua madre. Mi dispiace molto. Sono felice e onorata di avere chiacchierato lungamente al telefono con lei, una bellissima sera.)
Questo è un articolo sulla memoria, più che sulla giornata della memoria.
La narrazione pubblica della memoria, che in realtà nasce come esorcismo politico e volontà di oblio (facciamo chiasso finché la gente non è stufa), viene cancellata dalla narrazione privata (autentica) della memoria. La madre morente vive un azzeramento cognitivo della distanza con gli eventi vissuti e la memoria della perdita diventa attuale. La memoria storica delle mostruosità del bioregime, che cercò infine di occultare le prove, è diventata, per feroce contrappasso sulle vittime, più che sui carnefici, memoria biologica.
Per questo non siamo di fronte al solito “pezzo da giornata della memoria”. Perché altrimenti il racconto ci direbbe poco. La lezione, allora, qui, non è il vecchio motto dell’errore passato ripetuto da chi il passato non lo conosce. Semmai è la permanenza dell’orrore passato, che non avrebbe mai dovuto essere, perché anche l’utopico avvento definitivo della libertà e della giustizia (ideale ben lungi dal realizzarsi) non redimerebbe le sofferenze di quelli che morirono nell’oscurità. Quelle morti e quelle sofferenze restano, non come memorie, ma come presenze, dàimones benevoli e fraterni, a guardia del cammino che conduce all’orrore: l’uomo può ignorare e gridare e uccidere i morti di nuovo, ma sarà peggio per lui.
un commento da incorniciare.
C’è comunque da riflettere su una civiltà che è tuttora ostaggio del ricatto nucleare e vive a valle del mito dei suoi orrori, senza eracli o tèsei a riscattarli.
Grazie di questo articolo, Orsola. Fa male, ma la sua necessità è la sua bellezza.
Non c’è modo migliore per celebrare il Giorno della Memoria che questo propoosto da Orsola. Doloroso come una ferita sempre aperta, ma bello e necessario. Grazie. Un abbraccio di cuore, dal profondo.
La notte dei pestaggi
a Bolzaneto il lager dei Gom(gruppo operativo mobile)
Grazie Orsola,
molto toccante e bello, come tutto ciò che scrivi e che ho il privilegio di leggere. Oggi ho visto la cerimonia con il presidente Napolitano: mi è parsa molto toccante ma non credo che basti andare ad Auschwitz. Io ho maturato un vero e profondo odio verso i mazifascisti a dieci anni, leggendo il Diario di Anna Frank. Poi occorre leggere le fasi del processo Dreyfuss (e siamo alla fine dell’800) i libri di Schnitzler e quelli di George Mosse per apprendere che una follia così mastodontica purtroppo è stata possibile grazie alla cattiva coscienza sedimentata nell’animo dei bravi cattolici e dei cittadini comuni. Nessuno ha fatto mai un censimento delle case occupate dai piccolo borghesi cattolici subito dopo la deportazione degli ebrei!!!!Il film “La chiave di Sara”getta luce su questo particolare dimenticato , di cui mi pare fu vittima anche Le Clezio: gli ebrei tornarono in pochissimi a casa ma quei pochi la trovarono occupata da altra gente, magari la stessa che aveva fatto la spia presso i gendarmi. E’ davvero vergognoso, nella giornata della Memoria ci si dovrebbe occupare anche degli atti notarili: l’innocuo vecchietto dlella porta accanto potrebbe essere un collaborazionista, è agghiacciante ma è così e forse noi i conti con questi individui spregevoli ancora non li abbiamo fatti. Ti abbraccio
Mariateresa da Bari
grazie
c
Tema terribile trattato con sensibilissima grazia. Toccante.
Per un po’, mi hai fatto sentire nuda e senza capelli.
E di nuovo figlia.
Come sempre, grazie
Anna