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L’ingresso è gelido, le piccole ore notturne della casa si dispongono simmetriche nello spazio vuoto.

di Mariasole Ariot

 

L’ingresso è gelido, le piccole ore notturne della casa si dispongono simmetriche nello spazio vuoto. Una donna mi consegna un foglio, “lo firmerai domani”, dice sottovoce, e continua a sorridere, sorride come si sorride alla madre di un figlio morto: è la contenzione mascherata da accudimento.
Al risveglio non una terra che frana sotto i piedi ma il mio volto che frana sotto i piedi dello strato più profondo della terra. Questo tempo che non passa è un ramo nero e secco, bruciato da un sole osceno, divorato dalle larve.

[un uomo entra nella stanza, abbassa i pantaloni, piscia per terra, io piango]

Aperto il ramo, spezzate le giunture, i piccoli vermi bianchi annodano e si snodano afferrando il loro niente.
E quel niente senza nome ha il cuore  di una donna che tace da tre giorni, di tre giorni in tre giorni si addormenta e si risveglia, rannicchia le giunture come fossero oggetti, rende le ginocchia soprammobili perché se ne prendano cura i parenti. Il resto va in frantumi, lei dorme e lo farà per un tempo che qui dentro non conosce la distinzione tra i mai e i sempre.

Mi presterebbe un po’ di dentifricio?
No.
Non ce l’ha?

Sì, ma è nuovo.

I suoi capelli bianchi sono polvere che cade dall’alto, mentre parla non mi guarda, non ci sono occhi se non quello di un padre che dal basso sorveglia. Non ci sono uteri, contenitori, non ci sono aperture, non ci sono porte, ci sono muri.

Lui dice: lei ha più bisogno di muri che di persone. E noi le daremo i muri.

Fuori nell’atrio c’è un ragazzo di ventisei anni, il corpo rigido e incurvato alla ricerca di un sapore. Alimenta rabbia in un movimento frenetico che sale verso il cortile interno e scende verso il basso interno: perché tutto qui è interno, nulla che si affaccia al fuori, nulla è fuori, tutto è fuori di me. Si avvicina, urla, si sfrega tra le gambe fino a scorticarsi, dice sono pieno di donne e si tortura l’organo per non produrre polline.
Ma le donne non ci saranno, e lui vagherà giorno e notte gridando prima al giorno e poi alla notte la sua irriconoscenza. Vira a destra e a sinistra con ritmo jazz, scarta i corpi degli altri come fossero pietre laviche e ancora bollenti, con quaranta sigarette si fotte i polmoni all’alba, con le successive annulla ogni sentiero.

Si ferma, mi guarda, biascica: sai perché sono qui? Perché ho tirato il cazzo fuori, perché gli altri sono fuori, medici di merda, sei un medico?
No.
Meglio. Allora tappati gli occhi, ragazzina, perché da quando sono qui, io non ho più occhi.

L’unico dalla voce limpida ha la pelle ambrata, nato a Santo Domingo, i resti di una lavanda gastrica. Dice a ripetizione: ho un figlio, una donna, un figlio, il dono delle gambe, queste gambe lunghe, salto triplo e fuori di qui. La mia donna è bellissima, sono qui per un errore, non come gli altri.

Ma l’errore si estende a macchia d’olio.

I miei unici figli sono oggi queste mani inondate di iodio, fasciate per nascondere la putrefazione. Le ferite non coprono né urlano, le visite accendono. E quello che mi manca è il delicato. Il pensiero mobile che come silenzio avvolge l’indecenza e protegge dall’ovvio.

L’uomo che veglia su di me porta un libro viola, questa carta e questa penna,  il volto di Francis Bacon nella casa bianca e nera dilata gli spazi, aumenta le possibilità di uscita, evita per un momento i finali precoci. Nella luce bassa della sera, leggo a fatica ma leggo: drift significa farsi portare, andare alla deriva.
La mia deriva non è quel tempo bianco né queste lenzuola, la mia deriva è l’inchiostro.

Poi arriva l’insonnia, un gioco delle sedie mancato, tre letti per quattro corpi: il mio resta fuori, la prontezza è ciò che manca, resto fuori da una scena distribuita in orizzontale: chi dorme lo fa per pietà e per disperazione, chi non dorme non può che fissare chi dorme, e poi, in silenzio, quasi fosse una preghiera o un gioco da indovino, interrogarlo.

Non oggetti che emergono ma silenzi che sporgono come fossero oggetti.

Perché qui la vita è al suo grado zero: pura vita che si frantuma senza il peso dell’altro come macigno ma per decomposizione interna. La vergogna è perduta per sempre, non c’è mai stata, è un gatto che piscia sul letto, una donna senza denti che getta la dentiera sul piatto, un urlo senza oggetto aggrappato ad un carrellino feticcio, i giornali di tre giorni prima, la porta che si apre a tratti da un carrello di alluminio come una visione straziante, e tutto segna esattamente questo: non la perdita di dignità – semmai il suo superamento – ma la perdita del rossore, della vergogna.

Gaetano mi chiede di giocare a calcetto, e io non so giocarci, ma sto vincendo. A metà partita mi chiede di farci fuori a vicenda: sbatto la tua testa al muro, e tu la mia, contemporaneamente, e così ci salviamo.
La pallina caduta al di là della porta spezza i timpani al rimbalzo. La raccolgo con rabbia, la scaravento al centro del campo, ricominciamo a giocare.
Ma ora è lui che vince, i suoi polsi sono sapienti, le vene tagliate non impediscono i ricordi.

 

***

 

Nella nuova stanza, una piantina di edera rampicante in miniatura sta germogliando succhiando l’acqua sporca di una bottiglietta di secoli fa. La nuova donna mi ripete il nome tre volte, mi offre della cioccolata, la puzza di merda e vomito e saliva e piscio non toglie ossigeno alla pianta. Lei ha quarantacinque anni e ne dimostra settanta,  il ventre plurimaterno e avvizzito. Un marito la viene a trovare ogni giorno per cercare il momento buono al distacco. La ingozza di frutta secca e cacao amaro per non sentire quella voce legata, ma i farmaci fanno il resto, fanno il loro lavoro. E lei si dilata a dismisura, incinta anche quando non è incinta.

Cinque figli per ogni segno della croce, sai? Però  l’ultima è uscita male, l’hanno mandata via, nella casa laggiù, ce l’hanno tolta, la piccola Matilde.  E l’indice per “la casa laggiù” punta verso un luogo senza tempo che non esiste, una casa che non è casa, un luogo di confine e non di muro.

Siamo noi i muri, siamo noi queste piccole edere che invadono le stanze senza linfa: un giorno la pianta crescerà fino ad occupare ogni cosa, ogni interstizio, ogni fessura, la donna morirà nel sonno credendo sia l’abbraccio della piccola Matilde, l’ultima nata e strappata. Perché  l’inferno è sempreverde, ciò che può cambiare non cambia, la muta è al di là delle sbarre, i rampicanti siamo noi che finalmente decidiamo di uscire.

 

21 COMMENTS

  1. Alla voce vergogna troverai qui dentro una nuova definizione.
    E alla voce paura anche.
    C’è una stanza che è un spazio pieno, e delle mura che perfino ti rispondono.

  2. Una volta ho assistito a delle prove teatrali a casa di amici. La scena è stata provata più volte in presenza di un gatto. Il gatto non ha fatto una piega finché a un certo punto, in un passaggio veramente doloroso, la mia amica attrice ha urlato. Il gatto si è spaventato e si è messo a miagolare come un pazzo. Ecco, con Mariasole succede la stessa cosa. Leggi cose di gente che fa finta, e poi leggi questo, e capisci la differenza.

  3. io non riesco a commentare. dico solo che resto pietrificata a leggerti e non ne viene fuori alcuna catarsi, ma una miriade di pensieri e di domande alle quali non tento risposte.
    grazie.

  4. Magnifico. Questo testo meriterebbe un commento molto piú generoso ed articolato, ma trovarsi fuori casa per tutta la settimana, costretto a scrivere attraverso il cellulare, rende la cosa impossibile. Non vedo l’ora di tornare a casa per rileggere questo testo su carta. Complimenti, di cuore.

  5. capisco l’innamoramento per questi testi, testimoniato dai commenti.
    per me il testo è molto promettente ma mi sembra acerbo. lo dico per fare una
    cortesia all’autrice, altrimenti subissata di lodi (sempre nefaste).
    è la scrittura, giovane, di chi ancora vede nel mondo solo ciò che vuole
    vedervi, e mantenendo un distacco dello sguardo (alquanto borghese a
    vero il dire). e questo distacco, questo collo dell’individuo-artista
    ancora non piegato, determinano una scrittura ancora acerba. per quanto
    promettente. gli altri su cui si vuole posare lo sguardo restano
    irrimediabilmente e algidamente altri (“tutto è fuori di me”).
    il “noi”, l’immedesimazione è possibile solo nella chiusa (“Siamo noi i muri”),
    in una metafora, ossia in una figura retorica. non a caso l’altro – direi
    complementare – carattere di immaturità dipende invece dal mancato distacco dell’autore dalla sua scrittura (“la mia deriva è l’inchiostro”), dal carattere finalmente diaristico del testo.

    ciao,
    lorenzo carlucci

  6. Io capisco, caro Lorenzo Carlucci, che non è facile accettare che ci sia al mondo chi scrive con questa grazia e intelligenza e profondità e lucidità dei suoi demoni (basta leggere quello che si scrive e si pubblica comunemente per accorgersi della differenza), ma dare della borghese a Mariasole Ariot, no, è proprio una cosa che non si fa.

    • avevo scritto anche io un commento simile che poi ho cancellato per non aprire inutili polemiche. In vero è sacrosanto che ognuno possa leggere con criteri e gusti propri, però sì, quel “borghese” disturba e molto, soprattutto se fatto seguire alle “lodi nefaste” e ad un “acerbo” che proprio acerbo non è. Ecco, al contrario io ritengo che questo testo sia occasione di scontro-dialogo con i demoni di una scrittura matura e consapevole, che della “diaristica” non fa certo il punto terapeutico d’arrivo, ma occasione per lo “scavo” su cui costruire un testo “indipendente” dal sé.
      opinioni et lodi divergenti, anche questo probabilmente costituisce il bello, l’occasione per potersi mettere sempre in discussione sia come lettori che come scrittori.

  7. sarà, Carlucci, ma è proprio il distacco dello sguardo, la meditata distanza da ciò di cui si parla a ingenerare il contrasto, la contraddizione che consente di avvicinarsi alla parola.
    il collo dell’individuo-artista che si piega al mondo e che mondo non lo è già, difficilmente produce risultati, ma si limita a raccogliere consensi da immedesimazione e patetismo, questi sì molto borghesi (sempre che l’utilizzo logoro di questa parola non ci attiri i sacrosanti scappellotti del Moretti di Palombella Rossa, giusto per voler restare nel medesimo campo semantico-ideologico riesumato poco fa).
    Non mi addentrerei oltre in discorsi che poggiano le proprie basi critiche sui concetti di “immedesimazione” e “scrittura diaristica”: andiamo proprio verso la metafisica dell’interpretazione, in questo modo.

    Non conoscevo la Ariot prima d’ora: piacevole scoperta, ad ogni modo.

    d.b.

  8. cara marilena renda, io accetto come un dono (di dio?) l’incontro con “chi scrive con questa grazia e intelligenza e profondità e lucidità dei suoi demoni” come dice lei, e vedo bene la qualità della scrittura della ariot, tanto che l’ho giudicata “molto promettente”. ho solo indicato due punti (distacco dall’altro, e mancato distaco dalla propria scrittura) su cui insistere per migliorare ancora. non credo sia salutare il manicheismo “è un capolavoro\è una schifezza”, né per l’autore né per il lettore. infine, “borghese” non era inteso come un insulto, ma come un dato di fatto.

    saluti, e auguri all’autrice
    lorenzo

    p.s. per bellomi, che di certo ha “basi critiche” migliori delle mie (n.b. il mio era un commento breve su un blog, non una dissertazione): quando lei scrive “ma è proprio il distacco dello sguardo, la meditata distanza da ciò di cui si parla a ingenerare il contrasto, la contraddizione che consente di avvicinarsi alla parola.” mi sembra che incorra in un non sequitur tra “distacco dello sguardo” e “meditata distanza da ciò di cui si parla”. non concordo, nel caso particolare, con il “meditata”. andrebbe giustificato, credo.

    • Carlucci, il mio commento precedente non voleva sottendere nulla riguardo alle “basi critiche” di lei nello specifico (anche perché non la conosco e, con ogni probabilità, migliori delle mie lo saranno di certo): ho solo detto che, a mio avviso, avvalersi di argomenti che ruotino intorno a “immedesimazione” e “scrittura diaristica” (non so poi a quale livello; questo potrebbe dirlo lei) rischia di orientare la discussione verso un crinale pericoloso (che sì, lo è più in una dissertazione che in un commento su un blog, questo è chiaro).
      Quando ho parlato di “distacco dello sguardo”, non ho specificato che mi riferivo alla “visione interna” che determina un rapporto privilegiato fra l’autore e il proprio testo (che è più o meno ciò che lei ritiene mancare nella scrittura della Ariot e che invece mi pare di vedere).
      Non che questo debelli un qualsivoglia non sequitur: si trattava solo di aspetti diversi.
      Sul “meditata”, direi che non è da intendersi come “cerebrale” o “non partecipativa” rispetto al testo: in sostanza mi sembra che quest’autrice sappia “mostrare” la propria scrittura pur mantenendone il pieno possesso.
      Spero di non essermi dilungato troppo e di essere stato un po’ più chiaro, buona serata.

      d.b.

  9. Mariasole riesce sempre a stupirmi e rapirmi, con le sue parole.Di una lucidità disarmante, le sue parole riescono a trasportarti in luoghi mai visti, dentro un dolore reale e spietato. Sono fiera della molto poco borghese Ariot!
    @Carlucci, questo slogan l’hanno coniato per te: DIO ESISTE. MA NON SEI TU. RILASSATI!

    • A me pare poco scorrevole, simile ad un elenco di immagini slegate, potrebbe essere bello se ben recitato ma la lettura non mi colpisce. Forse è che non dice niente di vero sulla follia, sulla cura, sulle relazioni tra le persone che si trovano ricoverate, non capisco perchè barbara percepisca un dolore reale. “dopo tre giorni sono iniziate..”, della stessa autrice, mi sembrava rappresentare un mondo delirante in modo molto più autentico e nello stesso tempo fantasioso

      • @f.cleo, al di là della scrittura di Mariasole che amo molto,secondo me questo come l’altro dice molte cose sulla follia. Parla del suo squallore.
        Il delirante e il fantasioso che tu noti, non a caso, nel primo pezzo appartengono ad una certa dimensione visionaria o allucinatoria che si lega a quel mondo e anche ad un’idea di comunità – la comunità che si ritrova obbligatoriamente insieme, senza scegliersi, nelle case di cura. Qui però non siamo in una casa di cura. Siamo nel reparto psichiatria. E la voce dell’io narrante non sembra più dire: ho dei fratelli, anche se nel disagio, guarirò; ma piuttosto – non sono pazza, non sono tornata indietro, non voglio stare qui. A psichiatria, senza voler essere scurrile, ci va gente che si masturba in giro dicendo “mi faccio pieno”, per citare casi più soft.

        • può darsi, anche se è raro.
          Hai ragione, dice dello squallore, e in questo dire c’è il distacco, l'”io non sono pazza”, l’autrice è una edera vitale, dentro per errore. Per questo dicevo a Barbara che non percepisco il dolore, le figure stanno lontane, immerse in un mondo di escrementi (immaginari, in un reparto ospedaliero siamo tutti lavati rapidamente), facili-patetici bozzetti per uno sguardo che cerca colpe nei muri, nell’incuria. Ma forse sbaglio a voler leggere cosa vuole dire, perchè vuole dire. L’autrice sa usare le parole, se fosse meno distante sarebbe di una nitidezza commovente

          • you wrote: “in questo dire c’è il distacco, l’”io non sono pazza”, l’autrice è una edera vitale, dentro per errore.

            non entro nel merito della critica letteraria, ma da un punto di vista strettamente medico l’argomento è privo di fondamento: più di 2/3 dei pazienti con disturbi psichiatrici nutre la convinzione (più o meno legittima) di “non essere pazzo/a” e che siano il medico/la famiglia/la società/il mondo ad essere in errore.
            dr. malos

  10. propongo la messa al rogo del carlucci e di tutti coloro che non rispettano l’obbligo di parlare bene degli ospiti
    i quali, come ognuno ben sa, sono sempre autori di capolavori
    a prescindere

  11. altro scritto cha lascia il segno: disturbante come tutto ciò che è umanamente asimmetrico. disturbante come tutto ciò che mostra qualità troppo superiori alla media.
    : ))
    ci vuole cospicuo coraggio e padronanza del mezzo narrativo per franare nello spazio vuoto e dare voce ai piccoli vermi bianchi che s’annidano nella polpa della mente.
    dalla mia posizione privilegiata (non solo sono completamente pazzo, ma sono anche il medico di riferimento per la medicina generale di un “centro ospiti” – nome attuale di un vecchio c.i.m.) posso dire che il racconto mi è parso particolarmente vivo e vissuto. l’umanità degli “ospiti” emerge dai dettagli fisici (le “ginocchia soprammobili”, il “cazzo fuori”, il “tempo dentro”, la “dentiera sul piatto” il “ventre avvizzito”) di un mondo *più* animale di ciò che dovrebbe essere per risultare socialmente accettabile, onde per cui viene diluito mescolandolo col mondo vegetale, verso il quale sconfinano le identità in stato semi-vegetativo in chiusa (purtroppo “i farmaci fanno il resto, fanno il loro lavoro”). proprio per questo, visto che il farmaco spegne sia il “disturbo sociale” dell’individuo che l’individuo stesso, le “edere che invadono le stanze” e “l’inferno sempreverde” mi appaiono tutt’altro che rassicuranti, anche perché l’immagine finale “i rampicanti siamo noi che finalmente decidiamo di uscire” è fertile di doppiezza: da un lato evoca una volontà di lottare, dall’altro, all’opposto un uscire di scena (soffocando ogni speranza assieme al crescere della pianta che occupa ogni cosa). a scompaginare ulteriormente le carte è il duplice significato di *muta* (interpretabile sia come “cambiamento” della cuticola negli insetti, che come “silenziosa”) posta accanto al sibillino “al di là delle sbarre” che non chiarisce però quale sia il lato di partenza, eh…
    lo spaesamento, tipico del non-luogo “centro ospiti” è poi accentuato anche dalla frammentazione narrativa, che procede per abbozzi, sensazioni, rivoli sia confluenti che divergenti e che ricalca abbastanza fedelmente il pensiero e la scrittura vista dall’interno della malattia mentale: non è rassicurante, richiede capacità di ascolto e, indubbiamente, non è per tutti. quindi, se senza pietismi, falsi moralismi o proclami “easy-listening”, il racconto ci spinge a fermarci, riuscendo nell’intento di grippare gli oliati meccanismi del quieto vivere della community (id est, non fornisce risposte ma turbamenti assortiti), direi che l’autrice ha fatto centro (ospiti).
    : )
    circa il concetto di muro, poi, più che a una reclusione fisica modello lager, dal testo sembra emergere un significato più ampio, più “allegorico” che letterale”: parrebbe soprattutto un muro di incomunicabilità lungo il quale le parole vanno alla deriva (“la mia deriva è l’inchiostro”) cercando una *rotta* che *rompa* l’isolamento, ma invano, visto che “non ci sono aperture, non ci sono porte, ci sono muri”.
    se come medico me la cavo, invece come letterato sono un completo dilettante, quindi prendi gli elementi di perplessità che seguono come semplice elemento di riflessione.
    rispetto al racconto letto qualche giorno fa, qui è maggiormente a fuoco il piano olfattivo (mi spiace dirlo, ma tra pannoloni, igiene personale mooolto discutibile e tagli del personale – sia in ospedale che sul territorio – sarebbe davvero bellissimo se fossimo “tutti lavati rapidamente”: assai spesso dopo aver visitato i pazienti devo spalancare le finestre e ricambiare l’aria dell’ambulatorio…). eppure rispetto “alla volpe” in queste righe si perde qualcosa: trovo una sofferenza più monocorde (e per questo, forse, meno umana), nel senso che mentre là c’erano passaggi “variabili” in qualche modo anche sorridenti (“e io faccio il teatrino, e la volpe ride”), qui sembra che una coltre grigia narrativa abbia “tagliato” artificiosamente tutte le punte verso l’alto (che per fortuna ci sono sempre, sia sul territorio, che in ospedale) guardando solo “sotto i piedi dello strato più sprofondo”.

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