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Lo scienziato buono e lo scienziato cattivo

di Andrea Inglese

[Questo pezzo fa parte di un nodo su scienza e democrazia apparso sul n° 18 di “Alfabeta2”, che include anche un inedito di Feyerabend curato e tradotto da Antonello Sparzani.]

Realtà dell’uranio impoverito

Da una decina di anni, in diversi paesi del mondo, associazioni e famiglie di veterani, organi dell’esercito, istituzioni internazionali della sanità e dell’ambiente, ONG pacifiste e ambientaliste, giornalisti, ricercatori di diverse discipline, commissioni parlamentari, avvocati e magistrati stanno cercando di stabilire un fatto, l’esistenza o meno di un pezzo di realtà, ossia l’eventualità che esista un legame di causa-effetto tra l’uso di proiettili contenenti uranio impoverito e la malattia di chi, soldato o civile, è entrato in contatto con frammenti o polveri da essi prodotti. Nessuno pare oggi negare l’eventualità che un tale nesso possa esistere, ma nessuna perizia unanimemente riconosciuta permette di affermare che un tale legame sia indiscutibile. La guerra delle perizie è in atto, così come il tortuoso e lungo processo di determinazione dell’esistenza o meno di tale fatto; un processo che, in realtà, pur essendo di competenza della comunità scientifica, risponde costantemente a stimoli e pressioni di tutt’altra natura, sociale, giuridica, politica, mediatica.

Tra i diversi attori nazionali che intervengono in questa multiforme operazione di collaudo di un fatto, vi è anche l’Italia che, avendo inviato contingenti militari in teatri di guerra dove si sono utilizzate armi all’uranio impoverito, è da tempo confrontata a un quesito specifico e interessato: i soldati italiani si ammalano e muoiono a causa dell’uranio impoverito? Varrà la pena ricordare alcune tappe che, nel nostro paese, hanno contribuito a far evolvere la contesa in questione: le Commissioni parlamentari d’inchiesta, con relative relazioni (quattro, dal dicembre 2000 ad oggi), un convegno internazionale organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità (“Uranio impoverito: aggiornamenti sullo stato della ricerca”, 17 dicembre 2008), e una sentenza del Tribunale civile di Cagliari contro lo Sato italiano (agosto 2011).

La posta in gioco nello stabilire il nesso di causa-effetto tra esposizione all’uranio impoverito e vari tipi di tumore è chiaramente politica, come dimostra la sentenza del Tribunale di Cagliari, che ha condannato il Ministero della Difesa a risarcire con 584 mila euro i familiari di Valery Melis, un militare morto nel febbraio 2004 dopo una malattia contratta al ritorno da una missione in Kosovo. In un caso come questo, gli scienziati sono del tutto immuni da considerazioni extra-scientifiche, pur lavorando all’interno delle istituzioni?

 

Lavoro di depurazione

Si può tentare di rispondere alla domanda, riproponendo nel campo intellettuale la storia del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Da un lato, ci sarebbe lo scienziato buono che lavora, nell’ottica marxiana, al di fuori e contro l’ideologia, con spirito disinteressato, liberandosi dai pregiudizi culturali e da ogni interferenza politica, economica, morale; dall’altro, ci sarebbe lo scienziato cattivo, che soccombe agli interessi materiali, compromettendosi con i poteri economici e politici, o con le proprie opinioni religiose o morali. Per mantenere in vita l’idea della Scienza, che soprattutto una certa categoria di filosofi ha contribuito a diffondere (i “gnoseo-epistemologi”, come li chiamava Feyerabend), è necessario fare, dunque, un continuo lavoro di depurazione, per liberare il paniere dalle solite, inevitabili, mele marce. Una volta svuotato il campo scientifico da ogni pressione sociale, da ogni interferenza culturale, da ogni ombra di valori, si ottengono finalmente quei tersi enunciati veritativi, che dicono il mondo “così com’è”, e impongono alla contesa di pacificarsi di fronte al peso ineluttabile dei fatti. Poco importa che, nella prassi, questo lavoro di depurazione sia un compito infinito, dal momento che ambiti già corrotti e compromessi appaiono ad ogni piè sospinto, e che lo scienziato buono di oggi diventerà quello cattivo di domani, e viceversa. L’importante è la difesa di quello che è un principio più generale: noi, la civiltà occidentale, noi, gli inventori della modernità, noi, i portavoce della ragione umana universale, grazie a una delle nostre specialità, la Scienza, siamo gli unici a poter praticare la distinzione tra fatti e valori, tra la verità universale e il pregiudizio localistico, tra il mondo nella sua nuda oggettività e quello baroccamente addobbato dalle proiezioni immaginarie delle differenti culture non occidentali.

 

Ridescrivere la scienza, criticare l’universalismo occidentale

Le polemiche che un autore come Feyerabend scatenò nel corso di tutta la sua vicenda intellettuale adombrarono spesso le questioni fondamentali che motivarono la sua ricerca e che ancora oggi si rivelano decisive. Partendo dall’esigenza di una ridescrizione realistica di quanto la scienza fa, e opponendosi all’immagine tendenziosa e idealizzata che ne forniscono gli epistemologi, Feyerabend si è trovato, in compagnia di alcune delle menti più lucide del Novecento, a elaborare una genealogia critica dell’idea di modernità occidentale e della filosofia della storia che le è connaturata. Ai giorni nostri, l’universalismo occidentale, basato sull’equivalenza modernità-razionalità-scienza e sulla visione teleologica della cultura europea, è criticato da più fronti disciplinari e da più autori (da filosofi come Vincent Descombes e Charles Taylor a sociologi marxisti come Immanuel Wallerstein e antropologi sociali come Jack Goody).

Il Feyerabend più attuale è quello che vide un nesso forte tra, da un lato, l’interazione di tradizioni culturali diverse e, dall’altro, la possibilità di critica interna ad ogni tradizione. Ma perché interazione ci sia veramente, bisogna ricondurre anche l’universalismo della Scienza alla sua matrice provinciale e avviare l’itinerario accidentato e difficile della traduzione tra culture. Se questo non avviene, una sola cultura – quella occidentale – ha il potere di criticare tutte le altre, ma così facendo si priva anche degli strumenti utili per criticare se stessa, dal momento che assume la posizione inattaccabile di modello normativo dell’umanità.

 

Affollare i laboratori

Se in Europa, attualmente, sembra impossibile, sul piano politico, individuare un’alternativa alla tecnocrazia – a meno di abbracciare populismi di matrice autoritaria – ciò dipende anche dalla difficoltà che si ha, sul piano culturale, a liberarsi dal mito dello scienziato buono. Rinunciare a un tale mito non implica, ovviamente, rinunciare ai contributi degli scienziati, ma impone di ridefinire il loro ruolo nei confronti dei cittadini. Feyerabend, in La scienza in una società libera del 1978, scriveva: “Gli specialisti, compresi i filosofi, possono naturalmente essere interpellati, si possono studiare le loro proposte, ma si deve riflettere con precisione per stabilire se tali proposte e le regole e i criteri che le hanno ispirate siano desiderabili e utilizzabili”[1]. Si tratta, in realtà, di generalizzare il principio della giuria popolare che già vige nel diritto: “La legge richiede l’interrogazione in contraddittorio di esperti e la valutazione di tale interrogatorio da parte dei giurati”[2].

In anni recenti Bruno Latour[3], sociologo della scienza, ha mostrato come la partecipazione dei profani all’impresa scientifica non sia tanto un obiettivo da realizzare, quanto una condizione inevitabile. Manca semmai una più ampia consapevolezza di questa collaborazione, che implica già da sempre la presenza di diversi ed eterogenei attori all’interno del laboratorio dello scienziato. Nel caso delle ricerche che riguardano l’impatto dell’uranio impoverito sugli esseri umani è ovvio che progressi significativi non verranno da scienziati buoni, isolati nei loro laboratori e del tutto impermeabili a qualsiasi contesa politica. Non verranno nemmeno, d’altra parte, da scienziati cattivi, che si lasceranno tacitamente condizionare dagli attori più “grandi” e influenti. Solo il riconoscimento di una contesa interessata, che coinvolga democraticamente i vari attori in gioco, dai più grandi ai più piccoli, dal Ministero della Difesa alle famiglie dei reduci, può garantire qualche forma di ampliamento delle nostre conoscenze della realtà. È quanto dice per altro, seppure indirettamente, uno dei relatori del Convegno internazionale sull’Uranio impoverito organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità. In un resoconto dei diversi interventi, si cita quello di Diego Telleria dell’IAEA (International Atomic Energy Agency). Quest’ultimo chiarisce che “attualmente, non sono in agenda nuove attività dell’Agenzia nel settore, e che comunque queste seguono sempre esplicite richieste ufficiali da parte di Paesi o dell’Assemblea Generale dell’ONU”.

La questione delle scienze in democrazia è dunque la questione di chi decide l’agenda delle ricerche di laboratorio, di chi insomma ha accesso al laboratorio e può ottenere udienza dagli scienziati. È chiaro che non si può dare una risposta di principio. Nel caso che abbiamo considerato, bisognerà chiedersi se è sufficiente che in laboratorio ci entrino i generali, il ministro della difesa, qualche parlamentare dell’opposizione, il rappresentante di una ONG ben selezionata, o se ci debbano entrare anche le madri dei reduci morti precocemente, i militari ammalati, i giornalisti indipendenti che hanno raccolto testimonianze nei Balcani e negli Stati Uniti, i civili kosovari, la cui sorte sembra non interessare alcuno Stato e alcuna comunità scientifica.

 

 

 

 



[1] Paul K. Feyerabend, La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 32.

[2] Ivi, p. 149.

[3] Bruno Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Cortina, Milano, 2000.

5 COMMENTS

  1. “…l’eventualità che esista un legame di causa-effetto tra l’uso di proiettili contenenti uranio impoverito e la malattia di chi, soldato o civile, è entrato in contatto con frammenti o polveri da essi prodotti. Nessuno pare oggi negare l’eventualità che un tale nesso possa esistere…”

    Diciamo intanto che non è una eventualità ma un fatto che essere colpiti da proiettili, con uranio impoverito o meno, causa un danno alla salute, se non la morte. Giusto per attenerci all’ovvio, attitudine che reputo indispensabile nell’approccio a questi temi, anche perché porta spesso a domande eluse anche da chi critica l’universalismo occidentale.

    Per esempio:

    “…Latour[3], sociologo della scienza, ha mostrato come la partecipazione dei profani all’impresa scientifica non sia tanto un obiettivo da realizzare, quanto una condizione inevitabile. Manca semmai una più ampia consapevolezza di questa collaborazione, che implica già da sempre la presenza di diversi ed eterogenei attori all’interno del laboratorio dello scienziato. Nel caso delle ricerche che riguardano l’impatto dell’uranio impoverito sugli esseri umani… è ovvio che progressi significativi non verranno da scienziati buoni, isolati nei loro laboratori e del tutto impermeabili a qualsiasi contesa politica. Non verranno nemmeno, d’altra parte, da scienziati cattivi, che si lasceranno tacitamente condizionare dagli attori più “grandi” e influenti. Solo il riconoscimento di una contesa interessata, che coinvolga democraticamente i vari attori in gioco…”

    Forse sarebbe il caso di chiedersi se la partecipazione dei profani all’impresa scientifica si debba manifestare dopo che i proiettili all’uranio impoverito sono stati prodotti (e quindi usati: prima o poi quel che si produce si usa) per verificarne l’impatto sull’uomo, oppure prima, nello stesso momento in cui alcuni scienziati progettano tali proiettili.

    Forse è il caso di spostare l’onere della prova: quali scienziati (buoni o cattivi) che partecipano alla produzione di proiettili all’uranio impoverito possono attestare con perizie unanimemente riconosciute che questi non avranno, allo stato di frammenti e polveri nell’aria (e con quali concentrazioni?), conseguenze nocive di alcun tipo per gli esseri umani?

    Quali attori dovrebbero partecipare a una simile ricerca preventiva, oltre agli scienziati? Ed entro quale veste legislativa?

    Sennò la prossima volta, mentre ancora sarà irrisolto il giudizio sui proiettili all’uranio impoverito, ci chiederemo se esiste una eventualità che una nuova arma produca certi effetti riscontrati nei soldati e nei civili di questo e quello.

  2. alle narrazioni dello scienziato buono/cattivo si sta aggiungendo negli ultimi anni quella dei Big Data, che garantirebbero una presa diretta e completa sui “fatti”, modificando sostanzialmente la metodologia e il ruolo dello scienziato stesso. La disponibilità da un lato di enormi quantità di dati catturati in tempo reale da una molteplicità di sensori diffusi e, dall’altro, di tecnologie sofisticate per analizzarli renderebbe superflua la formulazione di ipotesi. Nelle parole di Chris Anderson (2008) “The new availability of huge amounts of data, along with the statistical tools to crunch these numbers, offers a whole new way of understanding the world. Correlation supersedes causation, and science can advance even without coherent models, unified theories, or really any mechanistic explanation at all” (v. qui per una discussione http://www.edge.org/3rd_culture/anderson08/anderson08_index.html)

  3. Io mi spingerei un poco più in là delle timide considerazioni di Inglese. Occorre istituire un tribunale popolare di sorveglianza che controlli l’attività dei ricercatori. E’ giusto che si cominci a metterli in riga, questi scienziati. In fin dei conti è gente che ha la presunzione di occuparsi di roba che il popolo e i poeti non capiscono. Già questo è segno di arroganza profonda. E perché poi dovrebbero decidere loro di che occuparsi, e in che modo? Si ostinano a nascondersi dietro alla faccenda del metodo ma, si sa, dopo Feyerabend, solo i fessi credono ancora al metodo. Per noi che ci occupiamo di narrazioni e che i numeri li schifiamo, la scienza è una narrazione tra le tante, e come tale criticabile, decostruibile, cestinabile. I fatti? Come se esistessero fatti slegati dai desideri! Ecco, il Consiglio Popolare per la Nuova Scienza (lo chiameremo così) si dovrà occupare anche dei fatti, oltre che dell’attività degli scienziati. Anche i fatti si dovranno adeguare ai desideri della maggioranza (cioè ai desideri che il Consiglio attribuirà, democraticamente, alla maggioranza), e non verranno fatti sconti a nessuno! Si dovranno adeguare anche i signori neutroni e protoni e muoni e bosoni – che chissà perché son tutti maschi e nucleofallocentrici – aveva ragione la Irigaray! La Nuova Scienza sarà una scienza partecipata, i laboratori saranno così affollati di persone comuni che non ci sarà più spazio per metterci una buretta. Ci sarà però ampio spazio di discussione libera e democratica, non più basata sul primato della ragione (occidentale e dunque razzista) ma sull’intuizione, sul bisogno di giustizia della maggioranza (cioè sul bisogno che, democraticamente e in prima convocazione, il Consiglio avrà attribuito alla maggioranza).
    Ad Ovest dell’Eufrate – dove cioè manchi la saggezza dell’Oriente – non esisterà più alcun tipo di uranio, né impoverito né arricchito. Si tornerà a morire in modo sostenibile, di raffreddore. Sarà bellissimo.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.