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Street Spirit (Fade out) ovvero un requiem per il Teatro San Martino

di Azzurra d’Agostino

and fade out again
and fade out
Radiohead

Se “benedetta è la città che fonda un teatro”, come suona la frase di Edward Bond a sottotitolo dei Quaderni di Roma – com’è la città che lo chiude?

In momenti come questi viene in mente un paragone piuttosto amaro, ci si sente come quando a un funerale vorresti dire due parole a suggello della vita di un amico; difficile raccogliere in una manciata di frasi tutta la strada che avete fatto insieme, il peso di un’assenza che comincia a diventare reale.
Un teatro non è solo uno spazio fisico. È come un libro, che non è solo un oggetto. Tutto quello che succede in un teatro è molto più grande e più complesso dei semplici dati, dei parametri usuali
Di certo, il Teatro San Martino è stato anche una boccata d’ossigeno in una città che sempre meno sembra disponibile a farsi punto di riferimento per la ricerca, il lavoro artistico, l’intersezione delle avanguardie nazionali.
Già tempo fa, all’inaugurazione della non-stagione di protesta contro la mancata attenzione delle istituzioni, Roberto Latini scrisse una sorta di lettera (d’addio?) ringraziando tutti gli artisti che per questo spazio sono passati (talvolta per i bolognesi unica occasione di averli in città). Andiamoli a rileggere, questi nomi: sono tanti, sono di fatto la mappatura di tutto ciò che di più interessante si muove nel panorama del teatro nazionale ‘di ricerca’ come si diceva quando la città era ancora quello che ora sembra talvolta essere solo la sua fama.
Chi scrive è di parte: ha frequentato il San Martino come spettatore prima, come autore ospite poi, come operatore culturale (brrrrr) negli ultimi tempi prima del tracollo. Ma essere di parte è anche essere partigiani, in un certo senso, schierarsi e metterci la faccia, e in questo caso mi schiero in un triplice ruolo e lamentando una triplice – ma incommensurabile – mancanza.
Come spettatore: è soprattutto qui, negli ultimi anni e con continuità progettuale, che si ha avuto occasione di vedere i lavori di Claudio Morganti, Ascanio Celestini, Emma Dante, Massimiliano Civica, Accademia degli Artefatti, di conoscere Romeo Castellucci, Luca Ronconi, Peter Stein, di incontrare Maurizio Lupinelli, Antonio Moresco, Armando Punzo, Teatro delle Ariette, Teatro delle Albe. Ma questi sono solo alcuni delle decine e decine di artisti che sono stati invitati in città.
Come autore: per un artista è fondamentale avere la possibilità di vedere i lavori altrui, frequentare un ambiente frizzante e di scambio, partecipare della vita comune dello stato dell’arte, presentare i propri stessi lavori agli altri. E il Teatro San Martino è stato attento a tutto questo, tentando l’apertura a sempre nuovi stimoli, dedicandosi alla valorizzazione dei giovani talenti: non va dimenticato il tentativo -portato a termine lo scorso dicembre dopo un percorso biennale- di aprire una scuola per attori, un gesto forte di speranza e investimento (tra l’altro, a carico del teatro, senza alcun finanziamento pubblico).
Come operatore e lavoratore della cultura: lo spazio ha garantito, negli anni della sua apertura, lavoro ad alcune persone, in modo trasparente e corretto, permettendo di crescere professionalmente e umanamente all’interno di una realtà come quella del mondo della cultura in cui, oggi, pare quasi insensato tentare un percorso lavorativo, essendo questo considerato ormai alla stregua di hobby, volontariato, vezzo.

Ma tutti questi sono dati, ancora e di nuovo; forse la nostra forma mentale è ormai condizionata dal dover rendere conto oggettivamente, calcoli alla mano, delle cose.
Mi permetto allora di cedere un momento, di essere sentimentale e dire perché mi sento depauperata, come cittadina bolognese, come amante del teatro, come persona. Mi sento depauperata di momenti come questi:
La sala è al buio, sta per iniziare qualcosa, alle nostre spalle preme un affresco del Seicento, la “Disputa di San Cirillo” e siamo tutti in silenzio, si accende una luce, qualcuno entra, vediamo le schiene disegnarsi come i monti del mondo nella coreografia di Fabrizio Favale, un brivido di mistero ci percorre;
L’aria calda della sera sulla pelle, una sera di piena estate; intorno le piante che a notte fonda innaffieremo dopo la canicola cittadina; una platea di persone in silenzio e commosse, Enzo Vetrano che dice, per tutti noi, a presagio: Lucciole! Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi…;
Notte, il chiostro tagliato a metà da una lunghissima tavolata; siedono assieme, dopo lo spettacolo, tecnici, musicisti, i ragazzi della formazione, le ragazze dello stage, lo staff del teatro, professori universitari, giornalisti, critici, spettatori rimasti per un saluto – accanto a me Licia Maglietta guarda il campanile della basilica in un modo che sembra di essere in un film, e parla di poesia come sorpresa, svagata.

Queste sono solo tre piccole, piccole cose che mi vengono in mente di getto, tra le tante belle accadute in questo ‘sempre aperto teatro’ (sic!), e credo però siano proprio momenti come questi a rendere una città viva, vivibile, speciale, diversa dalle arene del grande evento, dal lustro internazionale ma sporadico che spolpa la linfa di chi, tutte le settimane ora dopo ora, cerca di mettere boccioli e semi che possano di nuovo germogliare.
Un anno è fatto non di uno ma di tanti giorni, alcuni dei quali scuri e ripetitivi; e però sono proprio questi giorni anonimi che un teatro aperto può rendere speciali, può rendere occasione fertile (e non mero intrattenimento, anche quando di qualità).

Chiudo con un grazie a Roberto Latini, Federica Furlanis e Max Mugnai per il prezioso lavoro che hanno svolto, per la generosità e l’entusiasmo con cui si sono spesi. Resto però con l’amaro di una domanda che non si placa: Bologna, ma davvero non sei arrabbiata, non vuoi farti sentire, vuoi ancora sonnecchiare, dissolvere – come cantano i Radiohead?

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