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Nuovi autismi 21 – Mia madre

di Giacomo Sartori

Mia madre ogni tanto muore, perché a novant’anni passati è abbastanza frequente morire. Poi però in genere resuscita. Insomma, finora è sempre resuscitata. Ricomincia a dire follie, ricomincia a andare al cinema. È appassionata di cinema, vede tutti i film che escono, compresi quelli che non sembrerebbero i più adatti per una signora di novanta e passa anni. E se la stai a ascoltare te li racconta nei minimi dettagli. Ogni tanto fa un po’ di confusione, perché non è mai stata una persona molto precisa, ma insomma prova a raccontarteli pur sempre dalla a alla zeta. Se non stai più che attento ti spiffera nei più minuti dettagli anche la fine, il che può darti sui nervi, soprattutto quando quel film intendevi vederlo anche tu. Del resto mia madre è la persona in assoluto più capace di darmi sui nervi. Dopo averteli raccontati li giudica con un tono sicuro del fatto suo: sentenzia se sono più o meno belli, se vale o meno la pena vederli. Se ha già visto tutto va a una conferenza, a un concerto di  musica classica, o passa semplicemente un momento alla sede della Società degli Alpinisti. Più o meno fino agli ottant’anni partecipava anche alle loro escursioni domenicali, comprese quelle molto impegnative – nei passaggi più difficili c’era sempre qualche giovane alpinista disposto a assicurarla e aiutarla – mentre adesso si limita a salire le scale che portano alla sede cittadina, dove trova sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere. Di preferenza si intrattiene con gente molto più giovane di lei, perché non ha mai amato i vecchi. Qualche volta porta una crostata che ha fatto con le sue mani, qualche altra una bottiglia di vino bianco. Oppure passa da una sua amica, o da un’altra sua amica, o da un amico. O anche va a giocare a carte, o alla biblioteca comunale, che resta aperta fino a tardi. Tutto questo anche quando piove o nevica, anche quando è buio e fa molto freddo, e io personalmente non metterei fuori il naso di casa nemmeno se mi puntassero una pistola alla tempia. È una di quelle persone che non riescono a stare ferme, devono sempre fare qualcosa, dire qualcosa, andare da qualche parte. Credo che sia per quello che mio padre aveva sempre quell’espressione un po’ sofferente, quel tipico stiramento della bocca e degli occhi di quando il tramestio che ti circonda ti dà la nausea. Lui però è morto ormai da diversi anni: lei adesso può andare in giro impunemente. Qualche volta va anche a sciare. Teoricamente ha smesso qualche anno fa, ma se ogni tanto uno dei miei fratelli la porta è contentissima, e pur cercando di dissimularlo è eccitata come una bambina. Mia madre ha amato lo sci più di qualsiasi altra cosa o persona, un amore violento e dispotico, e appunto per certi versi immortale. Ha cominciato nella tenerissima infanzia, e per tutta la vita ha sempre sciato molto, ma dopo i settant’anni c’è stata un’ulteriore recrudescenza. Ogni anno dichiarava con una faccia affranta e con la voce tremante che molto probabilmente era la sua ultima stagione, e allora preferiva approfittarne. E davvero ci dava dentro: con i miei fratelli, o più spesso con amiche più giovani che guidavano l’auto e la allietavano con la loro età più giovane. Su di lei incombeva questa terribile sciagura: il giorno in cui avrebbe dovuto smettere di sciare. Ne parlava come si parla dell’ineluttabile fine della persona che ci preme di più, alla quale non sappiamo se potremo sopravvivere. Questo frenetico andazzo sciistico è durato più o meno un ventennio. Ha smesso quando è morta la prima volta, e ci ha messo molti mesi a riprendersi. Dello sci non ha più parlato, come non parla mai delle amiche e delle altre persone che non ci sono più. Nemmeno una parola: era come se lo sci e tutti gli annessi e connessi non fossero mai esistiti. Forse proprio per questo è ancora molto presente, come succede con gli spettri più temibili. Adesso – intendo quando eccezionalmente i miei fratelli la portano con loro – non scia più come una volta, ma scia comunque meglio di quanto cammini, perché in fondo per uno che ci è abituato è molto più semplice assecondare il moto discendente degli sci, anche quando la pendenza è molto elevata, che camminare. Io, che sono nato per così dire con gli sci ai piedi, ho smesso di sciare a quattordici anni, per motivi ideologici, a cui sono subentrate remore ecologiche e paesaggistiche, l’ho accompagnata solo una volta. Salendo in seggiovia, una di quelle seggiovie doppie dove ci si parla fissando il paesaggio montano devastato appunto dagli impianti di risalita, mi ha detto che gli altri sciatori la guardavano come se fosse una mummia, un po’ le dava fastidio. Io le ho ribattuto che si metteva in mente, la guardavano ammirati: e comunque non doveva occuparsi degli altri sciatori. Qualche anno prima era diventata cieca, e allora non poteva più sciare, e tanto meno leggere. Veniva nella città dove sto io a farsi curare con delle tecniche all’avanguardia, ma ci vedeva sempre meno: neanche parlarne di leggere. Per lei era un autentico dramma, perché la sua seconda passione dopo lo sci è la lettura. Non poteva sciare, e non poteva leggere. Invece di arrendersi s’è iscritta alla associazione dei non vedenti, e quindi a casa sua è cominciato un intenso via vai di audiolibri. Io prima non lo sapevo, ma i non vedenti sono molto  organizzati, e grazie a una rete di volontari hanno la versione audio perfino dei romanzi più recenti. Lei aveva sempre qualche difficoltà con le cassette che si incastravano nell’apparecchio, o semplicemente si mescolavano nella scatola di cartone utilizzata per la spedizione, perché appunto non è una persona molto ordinata, pur essendosi sforzata per tutta la vita di provare il contrario, però insomma poteva ascoltare i romanzi dei suoi autori preferiti, come anche scoprire scrittori nuovi: era un grande sollievo. Se le davi retta ti raccontava la trama dell’ultimo audiolibro e te ne dava il suo inappellabile giudizio. Come molti altri ciechi andava anche al cinema, e commentava i film che aveva solo sentito. Poi invece ha inspiegabilmente ricuperato la vista. I medici dicevano che qualche volta capita. Certo non ci vedeva come prima, ma abbastanza per sciare, e con degli occhiali speciali poteva di nuovo leggere, seppure lentamente: era molto contenta. Davvero raggiante, perché a parte i libri a lei piace leggere anche i quotidiani, e per i quotidiani non ci sono cassette. Ha ricominciato a scomparire nelle pagine del Corriere della Sera, visto che è sempre stata molto minuta, e con l’età s’è ulteriormente striminzita. Però la notte ascolta ancora gli audiolibri: ormai s’è abituata anche a quelli. Ha ricominciato pure a guidare, e quindi si aveva sempre un po’ paura che facesse secco qualche pedone, anche se ormai si limitava ai percorsi brevi per andare al supermercato o dal calzolaio. Ogni due anni andava da un ottico specializzato in queste cose, e in cambio di qualche centinaio di euro otteneva un certificato medico comprovante che ci vedeva come un’aquila. L’hanno scorso per fortuna hanno cambiato la legge, e non le hanno più rinnovato la patente. Quindi adesso si muove solo in autobus, e c’è sempre qualche problema di orari o di fermata giusta, perché non è che con l’età uno diventi più ordinato. Lei sostiene che il suo biglietto elettronico è illimitato, ma se ho capito bene si tratta semplicemente di corse prepagate. Quando è stanca prende un taxi, e poi questiona con il tassista perché dice che la volta prima ha pagato di meno. Con l’età è diventata più avara, come spesso succede ai vecchi. Del resto la sua pensione e la reversibilità di quella di mio padre non sono poi così alte, ogni anno si assottigliano un pochino, mentre i prezzi crescono. Uno dei suoi temi preferiti, dopo la montagna e i film e i libri, è il tempo, il tempo atmosferico, ma in realtà parlare del tempo è un trucco come un altro per non abbordare le faccende intime. Quando io da qualche migliaio di chilometri di distanza al telefono le chiedo come va,  lei mi descrive nel dettaglio che tempo fa e che tempo ha fatto i giorni precedenti. Poi mi chiede che tempo c’è dove sono io, e io non le rispondo. Anche la settimana scorsa è quasi morta: al pronto soccorso le domandavano chi era, mi ha raccontato mio fratello, e lei proprio non sapeva rispondere. Li guardava con un’espressione un po’ divertita, e scuotendo un po’ la testa, come quando si ha la data parola sulla punta della lingua, ma proprio non ce se la ricorda. Alcune parole le venivano fuori impastate, altre rimanevano anche quelle incastrate nelle sinapsi dei neuroni. Poi però la mattina dopo ha cominciato a lamentarsi con un linguaggio appropriato dell’ospedale e ha voluto che le comprassero due quotidiani. L’avevano messa in geriatria, ma lei non sopporta i vecchi, non li ha mai sopportati: voleva andare a casa. Al telefono mi ha raccontato la faccenda del pronto soccorso con un tono come se fosse una cosa divertente, ma si intuiva che in realtà un po’ si vergognava. Poi mi ha parlato come sempre del tempo.

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1993)

 

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