Un dossier sul futuro del libro
di Andrea Inglese
Vorrei segnalare a scrittori e lettori, addetti ai lavori e volontari della cultura, un dossier importante uscito come supplemento di “alfabeta2” di maggio : si chiama alfalibro ed è curato da Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa e Vincenzo Ostuni in collaborazione con Generazione TQ. Sono in apparente conflitto d’interessi parlandone, in quanto membro del comitato di redazione del mensile. In realtà, scopro questo “alfalibro” da lettore esterno, non avendo contribuito in nulla alla sua costituzione. Inoltre, dopo aver fatto parte di TQ per alcuni mesi, ho deciso di abbandonare il gruppo. (La modalità di lavoro e collaborazione non mi conveniva per varie ragioni, la prima delle quali era la distanza geografica.) Ora ho l’occasione di leggere uno dei frutti più interessanti del lavoro di questo gruppo. Ma i temi trattati in questo dossier sono ben lungi da essere temi esclusivi di un determinato gruppo e toccano una questione di interesse generale. Toccano, in una parola, il “futuro del libro”.
La questione così formulata non è certo nuova e nella nostra società tardocapitalistica si traduce in prima battuta in questi termini: “nel mondo delle merci in continua mutazione a causa del progresso tecnologico e della riorganizzazione dei mercati, che futuro ha questa specifica merce? In che modo e forma essa può ancora interessare il capitale? In che modo, insomma, essa riesce a conservare il suo statuto di merce, in modo tale che il valore d’uso della lettura sia sempre in grado di fare da sostrato al valore di scambio del libro, come prodotto di mercato?” Alfalibro organizza i suoi interventi intorno a un filo conduttore che vuole ripercorrere a contropelo questa domanda, invertendone i termini: “in che forma può ancora sussistere il valore d’uso della lettura, se la merce-libro deve uniformarsi ai nuovi criteri di rendimento aziendali del tardo capitalismo?” L’interessante di questa raccolta di articoli è che, a differenza dei manifesti prodotti finora da TQ, abbiamo a che fare qui con analisi, discussioni, proposte, più che con dichiarazioni d’intenti. È un passo fondamentale. TQ, infatti, sta invertendo i termini del dibattito, così come è posto solitamente dai media e nei termini scelti dagli attori di mercato (i gruppi editoriali, le catene di librerie, i distributori, ecc.). Ciò apre uno spazio di confronto molto ampio, in cui prima ancora di correre a nobilitarsi con particolari prese di posizione, si può avviare una fase di comprensione critica delle nostre condizioni materiali di vita, anche in quell’ambito dell’agire apparentemente più libero ed autonomo che coincide con le pratiche culturali, intellettuali e persino artistiche e letterarie. Comprensione, si badi bene, che non dovrebbe essere appannaggio di individui dalle convinzioni più o meno marxiste – quasi si trattasse di un loro privilegio parlare di certe cose e difendere certe forme di conoscenza. Dovrebbe essere chiaro a tutti, indipendentemente dalla familiarità o meno con i testi di Marx o con quelli della tradizione marxista che: 1) le condizioni materiali di vita per chi vive all’interno, marginalmente o meno, del campo culturale, non sono così chiare in tutte le loro molteplici e concrete articolazioni, ed esigono quindi un lavoro di studio, analisi, comprensione e 2) decifrare la fisionomia di queste condizioni permette d’immaginare sia localmente che in forma più globale determinati gesti, in grado di modificarle.
Qualcuno potrà avere l’impressione, che siamo alla scoperta dell’acqua calda. Io credo invece che stia mutando un paradigma culturale, che nuove forme di solidarietà, di cooperazione, di mutua difesa stiano radicandosi e che tutto ciò indebolisca il quadro di riferimento che per anni ha dominato incontrastato, favorendo a seconda dei contesti una forte competitività individualistica o un’accorta strategia dell’adattamento tollerante e prudente. Una prima tangibile prova di questo è data dai contributi raccolti in alfalibro: non si limitano ad essere il florilegio di un gruppo di scrittori (romanzieri, prego!), momentaneamente emersi sotto le luci dei riflettori, sbandierando il loro nome d’autore con il pretesto di parlare d’altro. Questa volta i soggetti coinvolti hanno statuti diversi: editori, giornalisti, librai e scrittori, che parlano di librerie indipendenti, di legge Levi, di e-book, di premi letterari, di Self-publishing, di pagine culturali, di biblioteche, ecc. Questo abbattimento delle paratie non è per nulla un evento scontato, ed ha una portata autenticamente politica, in senso progressista. La compartimentazione è indispensabile per l’ordinario funzionamento della macchina. Rompere le paratie significa produrre casino, rimettere in discussione limiti e significato delle singole funzioni e degli statuti che ad esse si associano.
La domanda sul “futuro del libro” risulta allora una domanda davvero aperta in un senso democratico e non semplicemente aziendalistico. I membri di TQ non sono certo stati i primi a sollevarla, ma in questo dossier essi dimostrano di essere riusciti a darle una forma più concreta ed efficace, più corale. Mi sembra quindi che da questo lavoro, sobrio e documentato, possa nascere una più generale e sistematica esigenza di appropriazione, di discussione allargata, tra tutti coloro, semplici lettori inclusi, che sono interessati al libro muovendo dal suo valore d’uso, dal fatto antropologico della lettura, che a tutt’oggi ci pare insostituibile nella costituzione di una nostra compiuta umanità.
A conclusione di questa segnalazione, una sorta di monito benevolo. Rivolto non solo a TQ, ma a chiunque vorrà contribuire a una tale riflessione. Rispetto al discorso sul “futuro del libro”, quello relativo allo statuto delle opere letterarie e artistiche viaggia in controtempo. Il tentativo di accorpare l’un tema e l’altro è lodevole, ma pieno di insidie. Non si tratta, dicendo questo, di allestire una sorta di recinto mistico-magico, in cui ogni discorso relativo alle singole opere fosse votato a un terribile nominalismo o alla necessità di tacere. Si tratta semplicemente di ricordarsi che arte e cultura, o letteratura e cultura, sono entità in parte antinomiche, in perpetua contesa, ma all’interno di un gioco estremamente mosso, dove un medesimo nome può passare da un campo all’altro, mutando radicalmente di senso. Le singole opere portano con sé, se davvero importanti, un elemento distruttivo e anti-istituzionale, che ogni elaborazione “culturale”, ogni lavoro di trasmissione e memorizzazione, in parte devono tradire. L’ordigno semantico, che ogni grande opera letteraria inevitabilmente è, deve passare per le soavi mani degli artificieri della cultura, affinché possa circolare nella memoria condivisa con sufficiente fluidità, per eventualmente tornare ad esplodere sotto lo sguardo del lettore isolato, anni o secoli più tardi.
realtà complessa, quella del “valore d’uso della lettura”. ponendo la cosa nei termini in oggetto, più che con un *valore* in termini culturali, potremmo avere a che fare con un *plus-valore*.
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resto dunque un po’ perplesso circa il “decifrare la fisionomia di queste condizioni per immaginare (…) gesti in grado di modificarle”, poiché è improbabile che, muovendosi all’interno di un contesto merceologico si possano perseguire finalità merceoillogiche. il rischio concreto è quello che riempire pagine su pagine di scritti profitti fitti, possa risultare non solo interessante, ma soprattutto interessato…
forse allora, l’unica via d’uscita (osteggiata ovviamente da tutti gli addetti ai lavori: scrittori, correttori di bozze, critici letterari, gruppi editoriali, catene di librerie, distributori, nonché mio zio peppino che tiene un carretto di gelati vicino all’ingresso della feltribelli) è quella di ipotizzare che, sebbene sembri *paradossale*, il libro non sia una merce. perso per perso, al posto del dossier sul futuro del libro-merce, non è più stimolante un paradossier?
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vabbè, comunque, chi e/o cosa resta? restano i lettori, sempre meno capaci – lo vedo nei miei figli adolescenti che pure crescono in una casa piena di leggérmi infettivi – di andare oltre la lunghezza di un tweet o della didascalia d’una immagine. restano le potenzialità di uno strumento (internet) che in teoria potrebbe prescindere sia dagli “artificieri della cultura” (che proprio per questo lo presidiano sempre più capillarmente) che dal supporto fisico del libro (cosa che, a sua volta, pareva paradossale ai tempi del vic-20 e che, come corollario, porta al contenzioso copyright-copyleft, non del tutto alieno al “futuro del libro”).
insomma, grazie per gli spunti di riflessione e chi vivrà vedrà: diamo tempo al tempo, alla *mercé* del quale tutti siamo.
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