Perciò veniamo bene nelle fotografie, romanzo in versi di Francesco Targhetta
di Silvia De March
Diciamo subito i meriti prima di prendere le distanze dal mainstream acclamatorio.
Francesco Targhetta si inserirà serenamente in un filone di letteratura originariamente industriale, che risale a Ottonieri, Bianciardi, Parise, e che trova poi forme di aggiornamento rispetto ai cambiamenti economici, con esiti alterni, con Aldo Nove, Murgia, Venturini, etc. Il suo romanzo in versi è una fotografia precisa di alcuni status generazionali, riconducibili all’evidente attrito tra una forma mentis impreparata e l’attuale mercato del lavoro e del consumo. Registra una mutazione antropologica, colta con maggior visibilità dal punto di vista di una provincia estrema dell’impero: la geografia si ritaglia tra una città provinciale come Treviso, la sua profonda periferia e un polo (Padova) di una metropoli diffusa che di metropolitano ha soltanto il cemento. In questo triangolo il passaggio repentino da una civiltà contadina all’industrializzazione e poi la piroetta alla terziarizzazione e alla finanza creativa hanno innescato dinamiche a velocità parallele, generando scompensi di immaginari e valori: le contraddizioni urbanistiche, ben descritte dallo sguardo in moto perpetuo di un pendolare ferroviario, sembrano riflettere paesaggi interiori profondamente dissociati. O perlomeno frammentari, quanto individualizzata è l’esperienza di ciascuno, estromesso da un qualsiasi tessuto comunitario, se non aggregazione amicali temporanee o legami familiari preconfezionati. A tratti Targhetta sembra anche assumere le vesti di un Pasolini dei giorni nostri, condizionato da un’educazione cattolica che ha perpetuato modelli di rigidità morale controproducenti, anacronistici rispetto alla secolarizzazione freudiana. Il senso di colpa segue come un’ombra il protagonista, una sorta di percezione persecutoria che istituisce un ruolo vittimistico, in quanto eredità tanto del catechismo, quanto dei padri. Questi ultimi, astratti e incombenti da una loro diversità ontologica e paradigmatica, sono una presenza latente, contigua come un’altra era ma non comunicante, eloquente in sé senza un dialogo possibile.
Si può parlare di Bildungsroman: il protagonista subisce alcune svolte che ne focalizzano l’identità. Per concludere il dottorato di ricerca, si trasferisce a Padova prendendosi in carico un appartamento condiviso; al termine rientra in famiglia emigrando dal mondo della ricerca a quello dell’insegnamento. In questi passaggi le esigenze dell’adultità – uno spazio proprio, l’autonomia economica, la realizzazione delle proprie capacità – emergono scontrandosi con limiti materiali ben noti ma tuttavia vissuti con verginità adamitica.
La narrazione si svolge in soggettiva e prevalentemente su un piano introspettivo. Si parva licet componere magnis (ed è tutto da dimostrare), coi grandi nomi (Parise, Pagliarani) Targhetta condivide questo atteggiamento osservativo, apparentemente straniante, nella sostanza attento a quegli elementi realistici attraverso i quali la realtà si mostra così com’è: di un grottesco naturale, un’ironica e imbarazzante serietà, una goffaggine imperante travestita da sicurezza di sé. Eppure, si misura un’incapacità di sdrammatizzare autenticamente ciò che viene percepito come offesa: l’umorismo delle situazioni si limita a smorzare gli spigoli ma nulla più, non schiude una consapevolezza o un distacco diversi, acuisce soltanto il risvolto negativo della sopportazione.
Attorno al protagonista ruotano personaggi che rappresentano varie di forme di precarizzazione e di rifunzionalizzazione del proprio ruolo, prevalentemente nell’ambito della conoscenza: il ricercatore fuggito all’estero, l’aspirante attrice di fatto cameriera, l’addetto alle risorse umane, la studentessa di psicologia, la neolaureata orientata alla pesca di qualche fantomatica certificazione di editor. Tutti con un enorme punto di domanda sulle possibilità di inserimento nel mondo lavorativo e quindi di reale padronanza del proprio futuro, della propria indipendenza, della sostenibilità delle proprie relazioni. Rappresentano il ritratto di una generazione in scacco, nel mezzo, né giovane, né adulta, o meglio, non considerata tale e al tempo stesso incapace di autolegittimarsi e di emanciparsi dai condizionamenti. Colpisce questo prolungamento del fare “generazione a sé” in compartimenti stagni: noi versus voi, gli altri, una solidarietà apparente di una generazione disgregata che sta nel perno di una forbice tra i padri e i propri alunni, alimentando lo slegamento e slogamento di una comunità tutta da ricostruire.
Viene da chiedersi, in particolare per il protagonista di cui lo scavo interiore è più approfondito, se non sia il caso di parlare di cronico disadattamento in base al quale essere esclusi o essere contro diventa un’abitudine pregiudiziale. Ogni volta che il protagonista rientra in una struttura sociale più ampia sembra esclusa a priori la possibilità non tanto di integrarsi o essere assimilati quanto di trovare una propria serena ed autonoma collocazione. Emblematico è l’ingresso nel mondo scolastico: sbocco all’assenza di sbocchi nella ricerca, vissuto con iniziale (diffusa) accettazione svilente e infine rivalutato per i risvolti redentori che conferiscono indirettamente un ruolo al protagonista. Alla professione dell’insegnante, in definitiva, non viene riconosciuta la dignità nel ruolo della trasmissione della cultura, anzi, proprio la difficoltà dell’operazione ne conferma l’inutilità in tal senso; si afferma, di contro, una funzione da operatore sociale che redime sia la coscienza stessa di essere sprecato, sia gli ultimi, gli esclusi, gli incompresi con cui il protagonista si sente solidale. La generazione dei perdenti, dal ritratto che ne viene dato, non è tale solo per una restrizione di possibilità ma innanzitutto per l’incapacità di convertire una continua frustrazione nella valorizzazione dell’esistente – possibilità che forse farebbe l’autentica differenza e che confuterebbe il terrore di essere uguali o peggiori a chi è preceduto. Non è una generazione priva di aspettative o di ambizioni: continua a dichiararsi tale e a dimostrare invece di averle alimentate, sulla scorta di promesse – genitoriali in senso lato – disattese, e semmai di arrendersi a deporle, con amarezza rinunciataria, non con un’accettazione strumentale. Il protagonista, in particolare, passa per un esempio di mansuetudine, più che arrendevolezza: non è vera abdicazione, semmai incapacità esprimere sia la sua rabbia che passioni autentiche, di imprimervi un orientamento. Lo sfogo in atteggiamenti prevedibilmente alternativi – la musica punk o dark, il dilettantismo col basso, il rifiuto delle griffe – risulta datato e piuttosto conformistico, dichiaratamente inetto alla coerenza: il sabotaggio dei trend appare risucchiato dalla comodità e il consumismo amplifica dinamiche più intimistiche di coazione a ripetere senza affrontare un autentico cambiamento.
Finora si è detto del “romanzo”. Sono i “versi” soprattutto a non convincere. L’insistenza su marche lessicali contemporanee o colloquiali ha una densità che si fa pesante e che annulla il suo potenziale differenziale: ricorda certa letteratura splatter o cannibale che ha fatto il suo tempo e che fallisce nell’intento di restituire il parlato, sia pure slang. Evidente è il calco – spacciato per originale – da certi esempi cantautoriali che stanno cambiando la scena della musica italiana e di cui Targhetta è attento osservatore, essendo critico stabile del sito www.storiadellamusica.it. Il riferimento più esplico va a Luci della centrale elettrica, il nuovo Vasco (Brondi) alluso nel testo stesso: analogo è il meccanismo di germinazione di interminabili catene associative. Un polimorfismo consecutivo che occupa periodi lunghi capitoli interi, che se al secondo album del cantautore faceva discutere sull’originalità dello stilema, qui al trentesimo capitolo risulta ostentato e pretestuoso. Non è questione di apertura digressiva come in un Jonathan Swift, un Joyce, il Berto di Il male oscuro (anch’esso citato); ma di un gusto per l’elencazione che da una parte testimonia una percezione generalizzata di una parificazione del reale e dell’esperienza, senza discriminazioni valoriali e prioritarie; dall’altra riprende modalità crepuscolari meno selettive. La dilatazione finisce per essere monocorde e sfuocata. A ciò si aggiunge qualche apertura liristica di stampo vedutistico o sentimentale circoscritta, superficiale, priva di esplorazione.
Insomma, si tratta complessivamente di un’operazione ammiccante per contenuti e forma. In essa si sono sfogate ansie generazionali anche denunciatarie. Alcuni retroscena da gossip dei dipartimenti universitari sono stati accolti con clamore e plauso, mettendo in secondo piano una chiarezza di cui Targhetta si è fatto portavoce, il meccanismo che sta sopra e che alimenta il baronato: ovvero che la valutazione della ricerca è subordinata all’intermediazione delle strutture proponenti e dei referenti stessi; un meccanismo che, fosse estinta pura l’attuale congrega baronale, continuerebbe a eludere il confronto e la selezione diretta dei singoli talenti. La pubblicazione può essere colta anche per una nuova riflessione sui riverberi del marketing di una casa editrice ben posizionata come Isbn, capace di lanciare – scavalcando il ruolo di mediazione della critica – il Baricco di turno.
A differenza di Giudici, o di Pagliarani, Targhetta non dà contributi conoscitivi. Riporta esperienza, che purtroppo non diventa chiave di decodifica. “Perciò veniamo bene nelle fotografie” è un testo consolatorio. Non ci sono il distacco ironico/iroso di Pagliarani, non c’è la nostalgia di Giudici, o di un crepuscolare. Siamo più vicini alla maniera.
a me,scarnificando il dibattito,d’acchito viene in mente un “uomo a nudo” di John Cheever(anche perchè l’unico romanzo in versi di cui sono a conoscenza,la maschera di scimmia di dorothy porter,da cui è stato tratto un film non particolarmente attraente ma con una protagonista indimenticabile,non l’ho mai letto)
http://antinomian.com/be/dirge.mp3
Un romanzo con versi… Da lungo sogno leggere nella lingua dei versi. l’avvenire del romanzo si trova nella forma poetica.
voleva dire ottieri, non ottonieri, vero??? che lapsus!!!
uhu!
Secondo una vulgata recente, bisognerebbe evitare di esprimersi su una recensione nel momento in cui non si è ancora letto il libro di cui tratta. Viene da chiedersi allora a cosa possa mai servire una recensione, e perché la si proponga in lettura.
Questa di De March, io penso, va salutata allora con gioa, perché finalmente rimette in mano alla critica, senza che vi sia dietro una ratio da cordata o da gioco delle parti, uno strumento invece troppo spesso prestato da un lato alla pubblicistica, dall’altro alla polemica sterile, con i risultati che ben conosciamo: la assoluta perdita di credibilità di quel ruolo di mediazione che troppi suoi interpreti attuali hanno trasformato in cicaleccio reclamistico o in parzialità da mutuo soccorso.
un caro saluto, e grazie,
f.t.
[…] in ”nazione indiana“, il 4 giugno 2012 Posted by fabio_teti at 7:15 am Tagged with: Francesco Targhetta, […]