Have you seen my shoes? – Rosaria Capacchione
Passeggiare. Andare dal punto A, la mia casa, al punto B, la redazione del giornale. Quattromila passi, se seguivo il percorso più breve. Una sorta di tracciato a sette che prevedeva la sosta dal giornalaio, le chiacchiere con la vicina e poi oltre: il bar, il caffè con l’avvocato, lo sguardo alla vetrina del negozio di articoli da regalo. È in quel punto, proprio agli inizi di una strada che i casertani si ostinano a chiamare via Napoli, che decidevo se seguire il corso dei miei pensieri, e così proseguivo a zig-zag nelle stradine del centro, o se tirare dritto fino al lavoro. In genere quando pioveva.
Mi è sempre piaciuto camminare sotto la pioggia, con il cappuccio calcato sulla testa. Sono sempre stata – ero – molto brava a passare da un portone all’altro senza bagnarmi troppo. Anche quella mattina pioveva, ma scelsi ugualmente il percorso più lungo per rubare qualche minuto: alla vita, ma non lo sapevo ancora. Fino a quella mattina – quattro anni e due mesi fa – era in quello spazio mattutino che incontravo il vecchio compagno di scuola, che scoprivo la chiusura di una bottega o il palazzo nuovo senza giardini. Era allora che incrociavo qualcuno che mi diceva: stavo cercando giusto te, devo dirti una cosa. Una notizia. Il mio lavoro.
Non c’è niente, per la verità, nel regolamento che vieti una passeggiata. Ma il fatto è che da quella mattina ho smesso di essere una persona, indossando la divisa di «personalità sottoposta a tutela». Per indossarla bene, quella divisa, bisogna nascerci: con una predisposizione al comando, all’indifferenza per le ragioni degli altri, a conversazioni ipocrite, a surrogati di amicizie a senso unico, a una sostanziale maleducazione. Così, quando incrocio lo sguardo di chi deve proteggermi, sempre alto sulle mie spalle, sempre vigile, qualcuno al quale ho imparato a volere molto bene e che mai vorrei vedere stanco, o triste, o preoccupato; quando lo incrocio, quello sguardo, allora cambio idea. E rinuncio.
Non mi piace essere «una personalità», non ci sono tagliata. E a chi, ogni tanto, me lo ricorda, chiedo: appena torno a essere una persona, mi accompagni dal punto A al punto B? A piedi, senza la necessità di parlare, come vecchi compagni che non hanno bisogno di troppe parole e neppure di inutili ossequi.
(Testo letto da Rosaria alla trasmissione “Quello che non ho” di Fabio Fazio e Roberto Saviano )
E da Radio Furlèn una canzone con dedica a Rosaria qui
Ho ascoltato Rosaria, quando ha letto le sue parole nella trasmissione “Quello che non Ho” con Roberto Saviano e Fazio Fazio. Queste parole che erano confinate nel cuore, hanno trovato uno spazio, una libertà, un mondo.
Il sole, l’aria, il mare, la passeggiata, rubati, persi/
La lingua carnale, il contatto, il corpo, la fame di natura, di vento-
bellezze scomparse- erano nella voce.
Ho visto propio il sole, ho sentito propio l’aria, la pioggia, ho fatto il respiro con il mare-
ma ho sentito anche come sono prigionieri questi corpi, come tutto è stretto nel petto, come si sogna il mondo nel condominio chiuso- come l’ingiustizia regna, come gli scrittori, i giornalisti sono l’ultima difensa, come pagano nel corpo, nell’immobilità.
Non è un sacrificio voluto- scrivere è desiderio di vivere, di nuotare nel mare, è carnale, festa- non ombra di depressione. Accuso ( La mafia)chi ha fatto prigione della vita –
La scrittura non si ferma. Ha trovato il suo posto, il suo sole, il suo mare.
Accuso chi ha fatto più difficile la passeggiata, l’amore, il mare, la danza.
Ma non hanno rubato qualcosa che è sempre in noi, la sensualità del quotidiano, perché anche in una stanza, si puo avvertire la musica della pioggia, una carezza, una luce giusta, si puo gustare il silenzio pieno, si puo sentire il rumore della citta, si puo vedere un albero, assaggiare un caffè.
Il mare inizia li, il mare della libertà: con il desiderio di ritrovare la felicità, la leggerezza. Ecco quello che volevo dire a Rosaria e a tutti che vivono nell’ombra.
Il mondo- i corpi- sono vicini- forse dietro un velo- ma sono.
Grazie, Véronique. Però, però: anche i veli diventano prigioni. I veli sono trasparenti e per questo inducono in errore. Creano l’illusione della libertà a portata di mano e invece sono barriere, talvolta più resistenti delle sbarre di una gabbia. Perché in una gabbia siamo rinchiusi, i corpi e i pensieri. Certo, in gabbia si puo scrivere, si può cantare, si può mangiare e dormire. Ma non si può vagare, curiosare, annusare ciò che di nuovo, e magari anche di oscuro e lercio, si nasconde dietro l’angolo. E’ l’angolo a essere diventato irraggiungibile, se non nel sogno.
Rosaria
E’ vero quello che hai scritto- si parla di un’esperienza della separazione del mondo. Avevo pensato a una felicità vinta contro tutta prigione: dire questa libertà rimane. Non potete togliere l’affetto, la mia idea della gioia, la mia idea del mondo, il ricordo della natura, il mio amore per la mia casa, la mia terra.
Pensavo a dare speranza, slancio.
Ogni piccola significazione del mondo vivo porta respiro.
Non ho mai vissuto una vita blindata- invece so dall’impossibilità di respirare, in questo momento molto lungo, sento quello che sente chi è tra muri.
Rosaria, se vuoi corrispondere con me, puoi chiedere il mio indirizzo mail a Nazione Indiana. In una prossima visita a Napoli, spero incontrarti.