Menomale che ho un tumore.

di Domenico Maione (un cronista napoletano).

La seguente è una storia liberamente ispirata a quella di Carmen Abbazia. Cassintegrata Fiat da tre anni a questa parte, separata, tre figli a carico (di cui due costretti a lasciare gli studi), è una tesserata Fiom e pertanto non è stata ancora reintegrata nell’opificio automobilistico di Pomigliano. I luoghi, i fatti e alcuni dei personaggi sono grossomodo corrispondenti alla realtà. Il finale è (paradossalmente) lieto, ergo inventato.

Celerità ed ordine. Misura e cadenza. Un pezzo qui, uno là, ognuno combacia con l’altro. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un’auto. Eppoi un’altra. E un’altra ancora. E ancora, e ancora. Decine, centinaia, migliaia. E ancora, e ancora. Sempre gli stessi movimenti. Reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. “Pure gli amanti più affamati, a forza di baciarsi sulle labbra in eterno, si frantumerebbero gli zebedei”. Una risata, fugace. E poi ancora… reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un altro e un altro ancora. I non rumori, i non colori, i non pensieri. Il non. Lo snervamento, la fatica. L’eden.

“Driiiiiiiiiiiiin!!!” La sveglia segnava la morte nel ritorno alla vita. Carmen si ridestò oziosamente dal sonno. D’altronde, il momento più bello delle sue giornate era rappresentato proprio da quella manciata di minuti di dormiveglia mattutino. Quando, ancora immersa nei sogni, non aveva ancora formulato una seria ipotesi su chi fosse veramente. Non aveva ancora una vivida cognizione della realtà. Poi la quotidiana fitta al petto: 900 euro di cassa integrazione e 550 di affitto. Alzarsi e chiedersi “perché farlo?”. Detergersi il volto e chiedersi “perché?”. Urinare e chiedersi “perché?”. “Mamma, ti sbrighi? Il bagno serve pure a me!”, si palesa – senza risparmio di decibel – il primo “perché”, il primo motivo. Maria aveva fretta, doveva montare al bar. Ma il tempo per un bacetto al secondo “perché”, la sorellina Lucia, che alle 5:30 ancora dormiva, lo trovava sempre. Di tutto quel rossetto ne rimaneva sempre un po’ sulle gote di Lucia, la quale, meticolosa, prima di fare colazione, se lo spalmava con le dita sulle labbra. Quindi prendeva il latte solo previa minaccia di un ceffone “a mana smerza”, che di gran lunga superava il timore di cancellare l’artefatta somiglianza con l’idolatrata sorella maggiore. Alle 7:45, puntuale, Lucia era pronta ad imboccare la strada per la scuola, senza le manfrine cui danno luogo i suoi coetanei. Solo una volta aveva fatto storie. In prima elementare, per il suo compleanno, chiese in dono alla madre il grembiulino delle Winx e, per tutta risposta, si vide recapitare quello di “Teddy Pooh”, sfigato quanto illegittimo parente commerciale del popolare Winnie, che – a onor del vero – sulle bancarelle del mercato di via C. Miccoli, prima che questo diventasse l’anticamera di una discarica abusiva, forte del costo contenuto, era più venduto della maglia di Lavezzi (quella ufficiale, ovviamente…). A quel punto, per mettere fine ai piagnistei, Maria costruì una realtà parallela in cui il pezzottato “Teddy Pooh” era un vendicatore che si batteva in difesa degli indigenti, “cazzuto e fiero”. “Con quella specie di pigiama a pois?”. A Lucia non c’era verso di fregarla. Era meno bambina di quanto dovesse essere. Non perché avesse qualcosa in più degli altri, quanto perché aveva qualcosa in meno. Nella fattispecie un padre.

“Anna, sono proprio contenta che non ti facciano lavorare più”. Collega di Carmen, Anna era anzitutto una sua grandissima amica. Anzi, una compagna. Perché erano comuniste, loro. Anna, detta “Albachiava” per antinomia, era stata marchiata a fuoco da una canzone degli Squallor (“Albachiava e tu non me la dai. / Ce l’hai nuova, che cazzo te ne fai?”), poiché femminista di ferro al punto da non essersi mai concessa ad un uomo. Era così di sinistra che: “La mano destra? Nemmeno per scaccolarsi”. Addirittura, un inverno lo passò indossando un solo guanto. Poi si rese conto di quanto fosse ridicola e allora… tolse anche l’altro. Inutile dire che si tingeva i capelli di rosso, quantunque stesse malissimo. A ben vedere, era così comunista che ci credeva veramente. Non abbisognava di nessun Dio e nessun uomo. Le bastavano le letture di Marx e un vibratore. Più che femminista, era il femminismo in persona: un valore più che una corruttibile pensatrice. Perfettamente consapevole, si avviò a un’infelice esistenza di solitudine sentimentale perché voleva essere vera, sincera con se stessa. “L’amore si fonda su variabili insulse. Una su tutte, la bellezza. Prerogativa certamente non meritocratica, cazzarola! Solo per questo, la bellezza è una cosa brutta. Ma, voglio dire, di che cosa stiamo parlando? La bellezza è fatua, senza poesia. Sì, senza poesia: non mi abbasso nemmeno a riflettere circa la sua aberrante valenza in ambito politico, lavorativo, sociale etc. e non voglio altresì soffermarmi sulla sua fallace ed effimera natura. Sarò leale. Gli occhi degli stilnovisti. Allora, gli occhi degli stilnovisti e stomachevoli trovate di simile tenore altro non sono che topos letterari sottoposti a una trasposizione: la fregna diventa occhi, capelli, labbra. La donna è una fregna. E l’angelica Beatrice di Dante era una fregna con le ali. Io non voglio essere una fregna! E spiegatemi un po’ perché i più grandi poeti della storia sono maschi! Ve lo dico io: perché sono stati ispirati da una donna. Cioè da una fregna. La fregna (altro che posizione sociale!) ha fatto sì che tutti i poeti greci dell’antichità fossero solo ed esclusivamente uomini, eccetto Saffo. E, guarda caso, coincidenza delle coincidenze, Saffo era lesbica. Ma come si fa? Che schifo, quanta ipocrisia, che falsità! Copernico aveva torto: il mondo gira intorno alla patata! L’amore? L’amore è merda che si atteggia a Nutella: ammantato, ma fottuto egoismo. Perché non posso essere felice quando amo e non vengo ricambiata? Elementare, Watson! Io, quando m’innamoro di un qualsiasi tizio sulla faccia della terra, in realtà amo il mio riflesso in lui. Amo sentirmi importante per qualcuno. Amo ricevere attenzione. Amo la pipì che un emerito idiota fa fuori dalla tazza poiché, pulendola dopo aver prolissamente imprecato, acquisisco una funzione nell’universo. Allora sai che c’è di nuovo? Puliscitela da solo, coglione!”, ragionamenti impostati su questo refrain di stoicismo zenoniano animavano le notti di Anna, sola e risolutamente infelice in quel suo letto che l’inconscio, tradendola, desiderò acquistare a due piazze.

“E perché mai?”. “Perché così mi accompagni a scuola, mi piace stare con te”, fu la risposta naif di Lucia, che, per quanto sveglia, era pura. E la purezza certe cose non le concepisce affatto. “Dobbiamo continuare a lottare. Anche quando le avversità si annunciano insuperabili. Anche se consci che non ce la faremo. In caso contrario, dovremmo ammettere di essere nati solo per morire”. Anna non era nata per morire ed era orgogliosissima di quel discorso tenuto davanti ai cancelli dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco, il “Giambattista Vico”. Da lì era uscita la mitica Alfasud del ’73, la vettura guidata da Pasquale Ametrano in “Bianco, rosso e Verdone”. Lì venne prodotta la meccanica dell’Alfa Romeo Arna, berlina che fu a suo tempo ripudiata dagli alfisti per le sue linee orientali nonché apostrofata dall’establishment del biscione come la peggior operazione commerciale e industriale dell’azienda; ma che – di contro – può vantare un gettonatissimo post su “autodimerda.blogspot.com”, nei cui commenti qualche nostalgico, sebbene ne deprechi l’estetica, loda la comodità e la spaziosità dell’orrore postmoderno, “ideale per andare in ‘camporella’ a vent’anni”, laddove qualchedun altro amarcord addiviene alla paradossale conclusione che, come macchina, “faceva così schifo che era quasi bella”. Sempre al Giambattista Vico furono in ultimo assemblate le fiammanti 33, 155, 145, 146, 147, 156, 159 e GT (appartenenti alla gamma sportiva della casa, apprezzatissima al di là – in questo caso – dei sedili reclinabili). E sempre lì sarebbe stata presto avviata la produzione della nuova Panda nell’ambito del modello Pomigliano, “l’omaggio a Dickens da parte dell’amministratore delegato Marchionne”, così come lo definì Anna. “I turni di lavoro restano di 8 ore, ma i tempi di pausa si riducono del 25% rispetto a un incremento salariale medio pari a 30 euro lordi mensili. Vi rendete conto? Ci vogliono alienare fino alla vescica, vogliono comprare pure le nostre pisciate. Pesano sulla produzione, dicono. Inoltre, Fiat potrà ricorrere per due anni alla cassa integrazione straordinaria e, su decisione dell’azienda, ogni dipendente potrà essere chiamato a 120 ore di straordinario che possono diventare in taluni casi anche 200. Come se non bastasse, si riservano di non retribuire i primi tre giorni di malattia qualora si sospetti la malafede del lavoratore. Si sospetti, non si accerti. E, dulcis in fundo, tutte le controversie che potessero sorgere sul luogo di lavoro saranno giudicate da una commissione paritetica, ma l’ultima parola spetterà comunque all’azienda. Siamo alla follia. Saremo l’imputato in causa con lo stesso giudice. Ci concedono il diritto di avere torto”. Anna aveva votato “No” al referendum per l’attuazione del piano prospettato dai vertici del Lingotto, come il 36% degli aventi diritto, ma molti più di un 36% erano stati i plausi ricevuti, sentore che “la sedicente scelta democratica era stata – in effetti – percepita dai più come un ricatto: o accettate oppure ce ne andiamo all’estero”. Si era chiamati a scegliere tra le idee e il pane. Si scelse l’unica opzione tra le due che riempisse lo stomaco. Ma la maggior parte dei lavoratori non festeggiò. Fu la vittoria della sconfitta. “Per produrre un’Alfa 147 serviva il doppio del lavoro utile a realizzare una Panda: mai e poi mai verrà saturata l’occupazione. Ragionate! Nello stabilimento di Pomigliano, a un anno dallo startup del nuovo modello, si produrranno 900 vetture al giorno, con il tetto della produzione fissato da Marchionne stesso a 1050 al giorno. Lavorerebbero alla Panda 1800 operai e in cassa integrazione ce ne sarebbero ben 2400. Giacché mancherebbero 150 vetture alla massima produttività giornaliera, se per 900 vetture occorrono 1800 operai, risulta inverosimile che per le restanti 150 riassumano gli altri 2400. In compenso, parte di questi sarà coinvolta in singolari ‘corsi di formazione’: si lavorerà al fianco dei reintegrati, sulle stesse auto dei reintegrati, svolgendo le medesime mansioni dei reintegrati; ma non si verrà retribuiti. Lavoro in nero? Giammai! Qua non ci rimborseranno neanche le spese, a nero si viene pagati. È illegalmente più dignitoso!”

«Signurì, – proruppe un uomo nella folla in visibilio per le parole di Anna, – Marchionne, in questo periodo di vacche magre, ha promesso degli investimenti a Pomigliano. ’E chiacchièr vostrè, invece, nun song buone nimmanco ppe carnevàl». Gennaro Terracciano, quasi trent’anni in tuta blu, come Fabio Capello, era uno che il rispetto non lo chiedeva né tantomeno lo pretendeva: se lo prendeva e basta. «Aveva ragione la buonanima di mio padre, – soggiunse il vegliardo dopo una grassa risata, – ’e femmene song bon sul ppe cucenà e chiavà». «Chesta ca’ nemmeno ppe chiavà», puntualizzò un suo fido accolito. Anna, viso in fiamme e giugulare in predicato di esplosione, eruttò la sua replica: «Ma lei lo sa che, dalla sua nascita al 2009, la Fiat si è avvalsa di 7,3 miliardi di finanziamenti pubblici? Adesso, figlia ingrata, minaccia di andare via di casa. È diventata grande. Tre anni fa, The Economist ha rilevato che la produttività annuale degli impianti italiani è di circa 29,5 auto per ogni lavoratore, contro le 79,7 delle fabbriche brasiliane e le oltre 98 degli impianti polacchi. Mamma Italia è vecchia. Troppo riguardo sindacale, troppe spese, troppi “fannulloni”. La relega a un putrescente ospizio è dietro l’angolo. Lei, alla Fiat, ha fatto da madre: le ha dato di cui tirare avanti, le ha ‘‘cucinato”; adesso vuole anche farla “chiavare”, vuole anche essere la sua puttanella?»
Qualche mese dopo il referendum, persino Marchionne, un maschio, ammise che, se tutto non sarebbe andato come doveva, l’azienda automobilistica italiana per eccellenza si sarebbe «ritirata da 2 siti dei 5 in attività» sul suolo nostrano. Parallelamente, la mattina in cui quell’asserzione fu pubblicata in esclusiva su Il Corriere della Sera, un rispettabile e orgoglioso padre di famiglia, anzi un rispettabile e orgoglioso padre di famiglia del sud, nonostante la veneranda età, nonostante la secolare esperienza, nonostante la riverenza che gli si doveva semplicemente perché gliela si doveva, non fu esentato dalla pena che superiori buontemponi solevano comminare simpaticamente a chi tra i lavoratori non avesse sostenuto i ritmi infernali della catena di montaggio. Anche lui, lo stimato Gennaro Terracciano, dovette pagare l’umiliante dazio. Dovette dirlo davanti a tutti: «Song ‘nu omm ’e merda». Sono un uomo di merda.
«Mi spiace! Signora, lei ha la tessera della Fiom e questo rappresenta un problema». C’era anche Anna la sera in cui l’assistente sociale dell’opificio automobilistico di Pomigliano proferì quella frase a Carmen, allorché ella sottopose il suo caso di vicissitudini economiche all’azienda in vista di un ritorno all’attività lavorativa che non aveva ostacoli formali. Oltre duemila reintegri, zero tesserati Fiom. Due possibilità: discriminazione o attentato alla teoria della probabilità. Alla stregua del tasso di uomini che porta la colazione a letto alla moglie dopo 40 anni di matrimonio, quando il movente sessuale è oramai sopito. «Mi sono sentita offesa come persona», dichiarò – in tema – il Ministro del Welfare Fornero quello stesso giorno. Ma si riferiva all’ostentazione di un tatuaggio «intimo» da parte di una starlette televisiva. «Manco fosse il Ministro dello stato inguinale», commentò sarcasticamente Anna per sdrammatizzare la situazione. Ma Carmen, dopo quella stangata, non riusciva a fare satira sul menefreghismo delle istituzioni e non ebbe a proferire verbo per tutto il tragitto che l’avrebbe condotta a casa, eccetto che per una breve pausa concessa a quel silenzio più fastidioso di qualsivoglia rumore: «Non servi più a niente. Quando ti tolgono il lavoro, non servi più a niente. Le macchine… quella laggiù forse l’ho assemblata io. C’è il mio segno. Quella macchina ero io. Adesso cosa sono? Dimmi cosa sono! Te ne prego, dimmelo!»

Quella sera Anna pensò che «non siamo nati solo per morire» fosse soltanto una cosa bella da dire. Abbracciò Carmen, e piansero. Assieme al cielo. Pioveva.
«Albachià, ma che ci fai, bambina alla mano, in assetto madre sulla rotta di scuola in barba alla tua conclamata verginità?» Era la voce di Mimmo che, come al solito, giungeva inopportuna ad interrompere una riflessione. Mimmo era anch’egli un cassintegrato Fiat. Campione regionale di omofobia, in città divenne celeberrimo per aver coniato cotanto adagio: «Secondo me, dovrebbero uccidere tutti i gay. Perché so’ ricchiun!» (Dovrebbero uccidere tutti i gay perché sono ricchioni). Una prosa che avrebbe fatto accapponare la pelle al miglior Giovanardi. Era l’essenza che giustificava l’azione. Una spiegazione prenatale. Il frutto di un’innovativa e ardita esegesi della dottrina della predestinazione. La causa che incarnava nel contempo il motivo. Finalismo finalistico. Teleologia kantiana sine causa. Demenza.
«Dove dovresti andare pure tu. A scuola!» «Maronn’, e comm staje! E se stasera ce jamm a piglià ’na pizza insieme?» «Piuttosto preferisco patire la fame». «Fai semp ’a difficil. E se, puta caso, io fossi diventato miliardario?» «Buon per te!»

Erano anni che Mimmo, appostato sul ciglio di un marciapiede, ordiva incursioni a scopo di possesso carnale ai danni di qualsivoglia essere vivente munito di vagina che, di passaggio, gli si appropinquava incautamente. Le sue «retate» si concretizzavano con un’invidiabile percentuale del 100% lungo la strada provinciale Pomigliano-Acerra. Dietro lo stabilimento in cui lavorava. Dietro una siepe. E dietro pagamento. Era un fedele cliente di Patrizia e «Sara con l’acca» (Sarah), un tempo Mario e Pasquale: del fatto che fossero transgender venne opportunamente informato, ma non sapeva (e si guardò bene dall’apprendere) il significato di quell’astrusa ed ermetica parola che sospettava indicasse la nazionalità delle suddette. Era un personaggio. Uno di quelli che uno scrittore inserirebbe certamente in un racconto, anche se non c’entra un granché ai fini dello svolgimento della trama. Vantava altresì la nomea dello sbafatore. A Pomigliano e nei paesi limitrofi non c’era inaugurazione con annesso rinfresco alla quale non presenziasse. Non c’era battesimo o matrimonio rientrante nella «mimmiana» circoscrizione che non avesse ricevuto la sua personalissima benedizione. Nel bar dove lavorava Maria si tramandava una leggenda secondo la quale ogni singolo pezzo della sua 146 fosse stato depredato all’azienda d’appartenenza e assemblato autonomamente dal re degli scrocconi. Per quanto il buon Mimmo avesse sviluppato l’inusitata capacità di reggere sette piatti contemporaneamente, prerogativa che lo rendeva un fuoriclasse del buffet e gli valse il nomignolo «Vishnu» (la divinità vidica con quattro braccia), il compimento di un’impresa quale quella di cui sopra pareva comunque arduo. Ma Maria non guardava tanto alla veridicità. Le piaceva ascoltare quelle storie strampalate e farne racconti. Voleva fare la scrittrice. Era affamata e folle; beninteso, non perché gliel’avesse suggerito Steve Jobs, ma nel senso letterale dell’espressione: «Marì, tu nun tien ’e renari ppe magnà e vuò fa’ a scrittrice? Ma sì pazz!», sfottevano le amiche. D’altro canto, a Maria era rimasto solo il suo sogno. La Fiat le aveva portato via la cosa più bella che un’adolescente potesse avere: l’amore. Ogniqualvolta s’accorgeva che sua madre era andata a piangere di nascosto nel bagno, la propria cotta adolescenziale le sembrava una grandissima «stronzata». Ai tempi che furono, lo incrociava la mattina per strada, quand’ancora frequentava il liceo. Davanti alla bottega di un barbiere che, sulla soglia d’ingresso, con una mano brandiva Il Mattino e con l’altra era intento ad una censurabile pulizia manuale degli orifizi nasali. Forte della scenografia di un certo spessore, aveva scritto pure una poesia da consegnargli. Finiva così: «Un uomo senza amore è come un uomo senza amore. / Non esiste metafora per esprimere questo dolore». Maria era brava a scrivere, ma non era brava a consegnare bigliettini. Brutto affare: la poesia si poteva pure copiare, però il coraggio o ce l’hai o non lo puoi avere. Col coraggio non s’imbroglia. Così, Maria era costretta a vivere venti metri al giorno, poi, capo chino a consegna omessa, faceva rotta ad Auschwitz…

Al liceo Salvatore Cantone di Pomigliano d’Arco manca una sola cosa: la scritta «lo studio rende liberi». Fino a qualche tempo fa c’era persino il filo spinato. Le palestre dell’edificio scolastico erano state concepite per essere garage e le aule erano cucine, camere da letto e bagni strappati al loro destino: in poche parole, hanno appioppato un condominio a malcapitati alunni che, stona a sentirsi, vagheggiano di generazione in generazione una scuola. Tra pilastri «egocentrici» (nel senso che si stagliano nel bel mezzo delle aule), imperiture infiltrazioni (che si sospetta celino improbabili falde acquifere), termosifoni «ambientalisti» (ostinati a non funzionare per patrocinare il mondo dall’effetto serra) e chi più ne ha più ne metta, – per il tetro scenario – verrebbe quasi da gettarsi da uno dei tanti balconi pericolanti (solo due anni fa messi a norma); ma non si può: ci sono le cancellate, vezzeggiativo di grate.

«Il problema di fondo risiede nella struttura, che è semplicemente adibita ad uso scolastico: al fine di rendere l’idea, è come se, essendo a secco di preservativi, per sopperire, si faccia ricorso a un palloncino. Magari è a questa brillante intuizione che alcuni alunni dell’istituto devono la vita; ciononostante, il piano di evacuazione, scaturito dal medesimo principio, – in caso di eventi funesti – pone seri dubbi sulla prosecuzione della stessa», arringò il rappresentante d’istituto ad un tavolo con l’assessore all’edilizia scolastica della Provincia, ottenendo come risposta che tutto era bloccato per il mancato placet del sindaco della «sua città». Quindi ripeté l’istanza al sindaco della «sua città», che gli rivelò che era tutta colpa dell’ostracismo degli assessori della «sua provincia». Nel frattempo, come una decina dei suoi predecessori, si diplomò. E tutto rimase com’era. E non restò proprio niente di «suo». Restò e resta la signora Giovanna, una bidella che surclassa a pieno merito il Don Ferdinando di Così parlò Bellavista (il mitologico portiere metà sedia e metà uomo), sminuendo il personaggio di De Crescenzo in qualità di sedia dalle sembianze antropomorfe.

«Signora, le faccio presente che ieri non ha pulito la nostra classe». «Ma perché, l’ho sporcata io?!» A parità di funzionalità, potrebbe essere sostituita da una pianta a fronte della garanzia di un ricambio d’ossigeno. Ma il caso narrativo più eclatante è senza dubbio rappresentato dall’ex insegnante di Lettere di Maria. Sedicente salvatrice di un all’epoca «biondo» (sic!) Pierò Pelù, in preda a uno shock anafilattico non prima di aver broccolato con lei, in base al lunatico umore divideva gli alunni in «Stumpo» e «Iannone». Se appartenevi alla prima categoria, potevi vederti recapitato un otto vago e retroattivo: «Iannone, ma tu il diciassette novembre non facesti quell’intervento su Pirandello?» «Ma chi, io?» «Sì, adesso ti metto un bel voto». «Ok!» Oppure un otto inconsapevole, alla Scajola: «Professoressa, posso essere interrogato?» domandò l’alunno alle idi di maggio, allorquando, non avendo mai aperto un libro dall’inizio dell’anno, ancora non annoverava una singola valutazione valevole per il secondo quadrimestre. «Macché, io già ti ho messo otto. Sappi che io i nove non li metto!» replicò l’alquanto stizzita professoressa che disdegnava l’etichetta di docente dalla «manica larga». Se invece appartenevi alla seconda categoria, persino una tua non azione era passibile di richiamo: «Stumpo, oggi piove… (pausa teatrale)… È colpa tua!» Per non parlare dell’accanimento a posteriori: «Stumpo, dove vai?» «All’università». «Ah, ti sei iscritto anche tu…»
Finito il liceo, Maria avrebbe voluto iscriversi alla facoltà di Filosofia, ma tacque la cosa alla madre. Non voleva farla sentire impotente. Allora cominciò a ripetersi una bislacca massima: «La filosofia è quella scienza che, con la quale o senza la quale, tutto resta tale e quale». Tante volte. Se ne voleva convincere. Prese la preclusione per diritto di nascita con… filosofia! In seguito, per rimpinguare di qualche centinaio di euro le esigue casse domestiche, andò a lavorare al bar della signora Caterina. Quest’ultima, quando le era possibile, elargiva sempre un extra «fuori mano», in nero: era una brava donna, nei fatti di una bontà fiscalmente perseguibile. Conosceva Carmen da una vita. Sapeva del marito. Sapeva dei tre anni di cassa integrazione. Sapeva della discriminazione cui era stata soggetta. E sapeva del suo tumore.

Quella mattina l’acqua veniva giù dal cielo a catinelle. Lo squallido treno della Circumvesuviana era in ordinario ritardo. Il giorno prima fu malauguratamente puntuale, appiedando non pochi pendolari abituati ad aggiungere minimo un quarto d’ora all’orario prestabilito. Eccolo! Finalmente ma purtroppo: come da fedele tradizione, sarebbe stata più una deportazione che un viaggio. Una volta salita a bordo, Carmen chiuse il suo ombrello. Un attimo dopo lo riaprì: grondava pioggia dal tetto. Corpi accatastati, un tempo nemici intenti a contendersi ossigeno, confabulano timidamente di un’alleanza. Tra poco c’è la fermata di Salice. A pochi passi da lì si staglia un campo rom. Si decide di non confidare nella regolarità dell’altrui igiene personale. Per caricare la truppa, un italiota calciofilo s’improvvisa nazionalista e cita Caressa: «In questi momenti, ’essere italiani conta di più». In sottofondo, i congiuranti immaginano all’unisono di udire We Will Rock You dei Queen. Il blocco all’entrata del vagone è massiccio, il coro riscalda la voce con qualche improperio xenofobo. Le porte si spalancano. «È pienoooooooooooo! È pienooooooooooo!» Tre clochard, in cerca di una barriera più abbordabile, battono frettolosamente in ritirata; una zingara tenta di farsi largo col carrozzino, poi, rassegnata, si aggrega ai compagni. L’attacco è sventato. Una vecchina di razza ariana domanda cortesemente di unirsi alla compagnia. Il misericordioso frangiflutti umano accoglie l’istanza. Autogol! La tenera anziana è Rosa Gargiulo, meglio nota come «Rosetta ’a fetosa». Il razzismo non ha pagato. Illuminante, una verità precipita dall’Iperuranio. Gli uomini sono uguali. La prova ontologica è presto detta: tutto il mondo «fete». Puzza.
Fine dell’odissea. «Uà, oggi stavamo così stretti che ho messo incinte tre persone. E una era maschio!» Così esordisce un simpatico millantatore al capolinea: la stazione di Porta Nolana, meglio conosciuta come «Itaca».
Uno spazio decisamente meno angusto, maleodorante e sessualmente attivo del treno era lo studio del Dott. Cerbone. «Si sente al tatto, ma come ha fatto a non accorgersene? E pensare che noi organizziamo visite di prevenzione su visite di prevenzione!» sbottò l’imbufalito oncologo. «Mah! – non si capacitava l’imbufalito oncologo. – Suo marito non gliele tocca le tette?» seguitò a domandare sfrontato l’imbufalito oncologo. «Mio marito è andato via di casa 10 anni fa. Sono sola». Tacque l’imbufalito oncologo.
Carcinoma lobulare infiltrante. L’operazione e poi il calvario dei cicli chemioterapici. Diventa come un rituale. Un giorno a settimana da santificare a un Dio ateo. Sembra un comune lavaggio, ma ti prende per il culo… La vanità che vien giù un capello alla volta. Lo specchio puntato a salve. La fatica senza lavoro.
«Ciao, come stai?» «Bene, e tu?» «Bene». Miliardi di conversazioni iniziano così, e spesso finiscono pure lì. Quel «bene» è assodato. Un formalismo. Stanno tutti bene. Sempre. «Bene, però… anche se ce l’ho fatta il giorno prima, il giorno dopo ricomincia tutto daccapo. Il tempo si divide in spazi infiniti. Non ho appiglio alcuno, non mi posso aggrappare. Forse cado, e se non cado ho comunque paura di cadere. Non vedo mai il traguardo. Corro e basta. Davanti, l’orizzonte si perde all’occhio. Sono in mezzo all’oceano. Devo resistere e nel contempo resistere alla resistenza. Devo sopportare il male e nel contempo la cura. Ero sull’orlo di un baratro: per farmi scansare il mortal proiettile, mi hanno spinta dentro. Sopravvivo in quanto madre, per responsabilità, a fin d’amore. Esisto male… E tu? Tu, invece, come stai?» Cinque densissimi secondi di silenzio rasentarono l’ora. «Bene, ma sempre Fiom. Sempre in cassa integrazione. Ho saputo della tua pensione d’invalidità e dell’indennità d’accompagnamento… ’Stu tumor è stato proprij ’nu tern al lotto». Fu questo il venale commento di Mimmo alla vicenda. Carmen sorrise. Era vero.

6 COMMENTS

    • Grazie e perdona il mortal refuso dovuto a una distrazione tra una modifica last minute e l’altra.

  1. Un dettaglio: per un tumore al seno non si prende né l’invalidità né l’accompagnamento, soprattutto se si ha un reddito minimo di 900,00 euro di cassa integrazione; in Italia, se hai 900,00 € di cassa integrazione, hai un reddito da ricco sfondato(non sto ad indicare dove).

    • Ciao, mi duole smentirti: ovviamente, per scrivere un epilogo del genere, mi sono opportunamente informato. Anche per il tumore al seno, tra l’altro quello da me citato è lo stadio più rognoso, sono previsti (miseri) sussidi per l’invalidità e l’accompagnamento (per quest’ultimo, dal 2009, occorre dimostrare di dipendere completamente da un’altra persona, sicché è molto più difficile da ottenere). Capitolo cassa integrazione: come saprai, oltre a mangiare i contributi, non è imperitura. Per cui, a un certo punto, le maestranze che non rientreranno in fabbrica si ritroveranno ineluttabilmente appiedate. E questa era la contingenza cui facevo riferimento nonché il timore paventato dai più. Se la sentenza approvata ieri non verrà rispettata e/o confermata presso i restanti gradi di giudizio (probabilmente la Fiat farà ricorso, anche se ancora tace su tutta la linea), la “ricchezza” relativa di quei 900 euro (cui bisogna sottrarre affitto, vettovaglie etc.) rimarrà tale solo se rapportata al tenore di vita delle bidonvilles.

  2. E’ bello sentirsi smentire su questi argomenti…
    … solo che bisogna essere proprio, proprio, proprio bravi per dimostrare di aver bisogno di un’altra persona che ci “accompagni”, quando si ha un tumore al seno.

    Te lo dico per esperienza: mio padre, con un tumore al fegato che si è poi diffuso a livello neurologico, camminava sbandando verso destra perché cosi lui sentiva di andare dritto, grazie l’ausilio di un bastone riusciva ad addrizzare la rotta, beh! si è sentito dire che non aveva diritto all’accompagnamento perché il bastone camminava con lui. Non ti dico i pianti che si è fatto per questo rifiuto. Grazie a dio è morto.

    Tra parentesi e come notizia all’utenza ( la legge n.183 del 24/11/2010… all’articolo 24, partorita dal governo Berlusconi, ha ridotto il numero delle ore utilizzabili dai parenti che chiedono permessi orari al datore di lavoro per assentarsi e poter assistere parenti con disabilità grave, … per portarli alle visite di controllo, ad esempio.
    La circolare emanata dall’ INPS n.45 del 01/03/2011 ne regolamenta ora la fruizione …. bene, in queste ore le aziende che non l’hanno subito recepita, stanno chiedendo ai loro lavoratori la restituzione delle ore richieste dagli stessi in precedenza.
    Io avevo diritto ad utilizzare 24 ore mensili, che ho utilizzato (ma ti assicuro non bastano mai), dal mese di Aprile ad oggi ne ho dovute restituire 12(solo 12 per fortuna) prendendo permessi non retribuiti … perché le ferie e i permessi li avevo già spesi per assisterlo sul punto di morte.
    Sto cercando questa notizia da qualche giorno in internet, non ne ho trovato evidenza, la scrivo qui così chi è coinvolto, trova almeno questi due riferimenti (legge 183 del 24/11/2010 e circolare INPS n.45 del 01/03/2012))

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