Altre forme di Aventino – Silvia Avallone rinuncia alla scuola
di Giuseppe Zucco
La scuola, il mondo scolastico, per me, è aria di famiglia. In un recentissimo passato, così come ho appreso la disposizione delle botole segrete di Prince of Persia, o lo struggimento pomeridiano di certe divisioni decimali, ho anche collezionato inconsciamente vizi e virtù della pubblica istruzione. Parole come graduatoria, punteggio, assegnazioni, supplenze, ruolo, corpo docenti, collegio insegnanti, sortiscono su di me lo stesso incantesimo della madeleine su Marcel Proust.
Proprio da piccolo, sei anni al massimo, capelli castano chiari, un’innata inclinazione al sarcasmo, quando la mia sola presenza innescava tutta una serie di smancerie da parte della dirigente di turno, piccoli buffetti e l’intramontabile domanda ti piace la scuola?, ho infilato al seguito di mia madre alcuni uffici del provveditorato di Reggio Calabria, un labirinto di stanze sature di fascicoli e faldoni posizionato un paio di piani più su di una gelateria buonissima.
Mio padre lavora nella segreteria di un liceo. Mia madre è stata prima insegnante elementare, quindi direttrice didattica. Due tra le mie zie, ora in pensione, hanno insegnato a scuola. A suo tempo, una cugina su otto ha rinverdito questa tradizione familiare.
Il mondo della scuola mi appartiene non solo come luogo del sapere che ho pazientemente scalato dalla valle primitiva dell’asilo fino alla vetta molto sofisticata della tesi di laurea, ma anche come una singolare provincia dell’esperienza umana le cui regole plasmano e irreggimentano in un modo del tutto particolare la vita, la malattia, l’ascesa sociale, le abitudini, la stasi, la rassegnazione, il furore, la delicatezza delle relazioni. Non finirò mai di pensare che per esempio direttrici, professoresse, insegnanti, siano accumunate senza volerlo dallo stesso vaporoso taglio di capelli, una rivisitazione meno barocca e più contemporanea delle parrucche di Luigi XIV. Così come non finirò di ricordare quanta dedizione ci voglia per fare questo mestiere (cosa a cui non tutti sono predisposti, evidentemente), e l’altissima soglia di sopportazione del dolore che il corpo docente ha sviluppato nel corso degli anni mentre la scuola veniva infestata dalla malaria della burocrazia, dalla sciagura dei tagli lineari, dal cataclisma della precarietà che paralizza e continua a paralizzare la forza vitale delle nuove generazioni di insegnanti. Una certa estetica è da sempre affiancata a un determinato saper fare: ed è solo in virtù di questa forza inerziale – l’inerzia della volontà, verrebbe da dire, se la formula non risultasse drammatica – che l’agonia e la gioia dell’insegnamento continuano nonostante la successione ciclica e burrascosa dei ministri.
È più o meno con questi fantasmi davanti agli occhi che ieri mattina, sul treno, sfogliando il Corriere della Sera, mi imbatto nell’articolo di Silvia Avallone. Trattando di scuola, lo leggo da cima a fondo. Il focus dell’articolo è il modo in cui viene selezionata la nuova classe di insegnati. Il tono e le constatazioni, più che a Kafka, un nome ricorrente nell’articolo, rimandano a Goya e alle sue pitture nere. Non c’è verso di raggiungere quello che oggi, nel nostro Paese, è diventato uno dei mestieri più ardui. Non basta la laurea. Non bastava neppure la famigerata Sis, scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario, che hanno allestito e dismesso nel giro di un decennio. Ostaggi del tempo e dei punti, dei master online a pagamento che devi collezionare per scalare una o due posizioni. Sfruttati, ricattati, in balia di un ingranaggio perverso che ti richiede esami su esami, tasse su tasse, precarietà su precarietà. In sostanza, dice Silvia Avallone, non solo è più probabile fare un incontro del terzo tipo con una qualche entità aliena che entrare di ruolo in maniera stabile e vantaggiosa sia per gli insegnati che per gli studenti, ma la disgrazia capitale sarebbe farcela, centrare l’obiettivo di una vita, cioè diventare insegnanti, una delle categorie più depresse, malridotte e sminuite su tutte le terre emerse.
La neanche così piccola apocalisse che Silvia Avallone disegna – la completa dismissione di uno tra i più raffinati e variabili e umani processi di condivisione del sapere – ha fondamenta più che solide. L’invenzione del Tfa, ovvero di un tirocinio formativo attivo che richiede al tirocinante 2500 euro nel caso di esito positivo alla prova di ammissione, tirocinio lungo un anno che alla fine abilita all’insegnamento, ma non assicura l’assunzione, la dice lunga.
Silvia Avallone, però, fa un passo in più. In chiusura, annuncia il suo ritiro dall’ambizione di diventare insegnante. Il passo è legittimo, ovviamente. Niente da obiettare di fronte a una scelta di vita venata dal colore dell’incredulità e della sofferenza. Resta tuttavia l’evidenza che il tutto sia confezionato in forma di articolo su uno dei quotidiani nazionali a maggiore tiratura, irradiando quindi un certo valore simbolico – valore che si dispiega sul capo inclinato dei suoi lettori proprio nel giorno in cui alla prova di ammissione del Tfa per ventimila posti disponibili si presentano centosettantaseimila possibili candidati.
Confrontando i due eventi, allora, la pubblicazione di un articolo di denuncia e abbandono e la pressione mattutina di una rilevante preparatissima massa umana sui fatidici banchi di un esame ministeriale – esame, tra l’altro, iniziato male e finito peggio: I test impossibili per aspiranti prof, titola sempre il Corriere – si spalanca un abisso. Perché, diciamolo fuori dai denti, Silvia Avallone sembra parlare dall’alto di una posizione, di una rendita di posizione, sciogliendo in forma di articolo il privilegio di una scelta – del resto, ha scritto un romanzo di successo, Rizzoli pubblicherà il secondo, il Corriere della Sera ospita i suoi articoli, al Festival di Venezia sarà presentato il film tratto dal suo primo libro – mentre la maggioranza deve, per vocazione o costanza, fatalità o assenza di alternative, proseguire ostinatamente sulla stessa strada, una strada lunghissima lastricata di esami, corsi di preparazione, corsi di aggiornamento, studio matto e disperato, sveglia la mattina presto per correre, sempre correre, ai ripari.
Ma, aldilà di questo, c’è un ulteriore passaggio nell’articolo che continua ad inquietarmi: Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo Paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato, in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia, quale vicolo cieco. Perché se il salto logico di Silvia Avallone è stato “la scuola è un disastro, io ci rinuncio”, non vorrei passasse nel grande ventre dell’opinione pubblica l’idea che appena su qualsiasi cosa indispensabile per la pluralità dei cittadini si distenda il colorito cianotico della mancanza di ossigeno, questa venisse accantonata e lasciata agonizzare senza neanche il tentativo di infondergli nei polmoni il soffio provvidenziale di una respirazione bocca a bocca.
Il verbo che non possiamo più permetterci oggi è abdicare. Altrimenti, a furia di rinunciare, spegnendo poco per volta quanto riteniamo prezioso e duraturo, un giorno neanche tanto lontano finiremo per abdicare a noi stessi, quando già da un po’ eravamo cianotici e nella solitudine dei nostri appartamenti non ci sentivamo neanche troppo bene.
[qui si può leggere l’articolo di Silvia Avallone pubblicato sul Corriere della Sera il 25/7/2012]
Comments are closed.
Gentile dott. Zucco,
insegno da trent’anni, scuola primaria, quella dei piccoletti. Entusiasmo intatto, perchè questa fascia d’età ti cura l’anima. Quello che, sia lei, sia Avallone, denunciate, è tutto vero, purtroppo. Eravamo/siamo una buona scuola(pensi che valore di civiltà è l’integrazione dei ragazzini disabili, come la realizziamo noi, uno dei pochissimi paesi al mondo…), ma ci stanno togliendo tutto, financo, notoriamente, la carta… per asciugarci le mani. E resistono soltanto le nostre spalle. Ma DEVONO RESISTERE, e le nuove insegnanti non abdichino: lei ha perfettamente ragione! Ci giochiamo… i massimi sistemi, ce ne rendiamo conto? Non solo: bisognerebbe pensare a un modo per “convincere” chi ci governa che è una palese ingiustizia ( e con la Costituzione, come la mettiamo?)conservare intatti i contributi per la scuola privata, mentre si falcidiano quelli per la scuola e l’università pubbliche! E quanto alla dott. Avallone, che scrive assai bene – buono il suo ACCIAIO – , beh, lei non ha gli stessi, pressanti problemi delle ragazze, deliziose e preparatissime, che arrivano da noi per il tirocinio, e ci aiutano con amore e generosità. La saluto e la ringrazio, Rosanna Varoli
Poi con calma mi spiegate chi sia la Avallone. Ma anche no.
Sacrosanto. E l’impressione è che tutta questa tirata sia prodotta da quel che tu dici “fuori dai denti”, ovvero che la sua sia una forma di falsa coscienza. Che poi non ci sarebbe niente di male, hai avuto la fortuna di fare un botto altrimenti e lasci la scuola, non c’è problema, in fondo hai l’opportunità di diventare un “lavoratore indipendente” (definizione Allegri-Ciccarelli, Il Quinto Stato), è una scelta. Ma dillo. Oppure non dirlo, resterà una questione privata, nessuno te ne chiederà conto. Invece no, ci fai su una costruzione ideologica che fonda la rinuncia: è questo che io trovo – come dire – brutto, ma proprio brutto.
Non condivido tutto dell’articolo, perché si è dimenticato un desiderio: trasmettere il suo sapare, fare delle lettere un porto per trovare la sua manera di vedere il mondo, creare un mondo sospeso di poesia, sorprendere, alimentare la curiosità, dare vita alla memoria, aiutare l’alunno da scrivere in una lingua più precisa.
Non si diventa mai insegnante per il denaro, ma per dare uno spazio all’intelligenza e alla sensibilità.
Anch’io ho fatto i primi passi nel sole d’inverno o d’estate dietro i passi della mia madre nel liceo dove insegnava. Mi ricordo la scuola in terra del Languedoc, con una palma venuta per caso nel cortile, la finestra aperta sulla garriga delle colline. Ho sempre ritrovato, ancora oggi, nel mese di settembre, il colore verde e giallo della prima giornata nella scuola, il profumo dell’inchiostro, scrivere sul quaderno con passione, l’ombra del maestro. Ancora oggi provo gioia da ritrovare la scuola media-nonostante tutto- l’aula, il cortile, l’anima piena di speranza e di volontà.
Non puo lottare con la passione di scrivere. Scrivere è una lunga attraversata in silenzio- magnifica- ma fatta di dubbio, di gioia, di incertitudine- un amore per la sua lingua- una sagezza d’infanzia- si deve imparare tutto. Da lungo ho sempre sentito la mia fame di scrivere, una fame costante- ma sempre la realtà della scuola veniva richiarmi- Mi sentivo in colpa- E finalmente ho passato un tempo infinito nella scuola- Una parte scarsa nella scrittura della mia propia lingua- uno stato abbandonato. Non dimenticato- ma la parte di scrittura è per me un momento vinto sulla realtà, sulla notte, su un giornata senza scuola- un momento di pura felicità senza la lunga attraversata- forse una attraversata cosi lunga e in frammenti che non si puo vedere, si confonde con la vita.
Mi sembra che si qualcuno mi chiede: che hai fatto della tua vita?
La sola risposta che potrei dire è: – ho insegnato.
Se Silvia Avallone rinuncia alla scuola è forse perché non conosce davvero la scuola- Si conosce la scuola, quando insegna. Forse ha capito che il desiderio di scrittura sarebbe più forte.
@ rosanna varoli
sono io che la ringrazio, rosanna, per il lavoro prezioso e delicatissimo che compie ogni giorno. per il futuro, può tranquillamente darmi del tu.
@ marco rovelli
hai perfettamente ragione. è stato proprio quello che evidenzi a spingermi a scrivere. ma la cosa che strideva di più era la costruzione della pagina del corriere. in alto, la cronaca dell’enorme partecipazione all’esame. in basso, la rinuncia in forma di articolo della avallone. già così era palese una evidentissima sproporzione di condizioni e di progetti di vita.
@ veronique verge
credo che il sapere, a qualsiasi livello, più che trasmetterlo, lo si condivida. il problema serio, oggi, non è tanto come e con quali modalità condividere il sapere (i processi della conoscenza sono sempre perfettibili), ma la sottrazione delle condizioni materiali sufficienti per poterlo condividere.
Gentilissimo Giuseppe,
ringrazio per il passaggio al tu. Leggo con interesse i suoi articoli e “passeggio” volentieri per la Nazione Indiana, quindi vi saranno occasioni in cui utilizzarlo… Cordialmente, Rosanna
P.S. Se dovesse avere bisogno di testimonianze dirette dall’interno della quotidianità scolastica – di vita di scuola, nel nostro paese, si parla pochissimo, a iniziare dal nostro ministro, e quanto bisogno invece ne avrebbe la nostra utenza! – chieda pure: fortunatamente, faccio parte di un gruppo di colleghe appassionate e disponibili, con le quali, di volta in volta, inventiamo modi ed espedienti per far fronte, ogni giorno, all’emergenza, e siamo disposte a raccontare, a mettere a disposizione le esperienze…
Mai abdicare. Vero.
Mi spiace, ma da insegnate precario appeso con la corda al collo delle chiamate al cellulare per le supplenze penso semplicemente che la Avallone (che, per inciso, non so chi sia) abbia pienamente ragione: la scuola è diventata una trita-dignità del corpo docenti e di chiunque vi lavori e la frequenti(studenti inclusi, viziati dai genitori e temuti dai docenti, quindi mai chiamati a rispondere dello studio e quindi sempre più ignoranti), e tutti noi dei luridi finanziatori di università (il TFA è il colmo dello schifo, una estorsione legalizzata) e ministeri. Costretti a vita a una formazione costante per prorogare un’illusione di poter raggiungere una stabilità che spostano sempre un centimetro più in là dal poterla afferrare. Via dalla scuola!!!
l’avallone va via coi sordi. noi senza. MA VIA!
Non so chi sia Silvia Avallone, ma dall’articolo deduco che ha la mia età e scrive sul Corriere della Sera, sti cazzi.
Quello che mi irrita è il solito tono piagnucoloso di chi considera gli eventi ineluttabili perchè non ha voglia, palle o interesse ad opporvisi; vieppiù irritante la pretesa che rinunciare ai Tfa sia una scelta, e non un obbligo dovuto all’insopportabile steccato dei costi imposti ai fini della partecipazione: 100 o più euro solo per il primo test d’ammissione, quella pagliacciata per cui la conoscenza in ambito letterario si misura nella quantità di versi imparati a memoria, giusto per fare un esempio; 2500 euro per i salmoni superstiti alla risalita del torrente attraverso altre due selezioni, una scritta e una orale; poi, come è scritto nella nota a margine sui TFA del MIUR (focus dell’8 maggio), punto 3:
“Contrariamente a quanto previsto dalla precedente legge n.124/99 secondo la quale il conseguimento dell’abilitazione comportava l’automatica inclusione nelle graduatorie permanenti (oggi GAE), allo stato della normativa vigente (l. Finanziaria n.244/2007 art.2 comma 416) l’abilitazione che si consegue a seguito della frequenza del TFA o dei corsi di laurea in Scienza della formazione primaria rappresenta solo la conclusione del percorso di formazione iniziale dell’insegnante e costituisce il presupposto per la partecipazione alle procedure concorsuali.
Abilitarsi, dunque, non significa diritto al posto e quindi non significa neppure aggravio della spesa pubblica”.
Ovviamente, essendovi oramai una generazione e mezzo in esubero che può ancora disporre dei capitali redistribuiti alle generazioni precedenti, molti hanno tentato questa disperata e costosa impresa a caccia di un pugno di mosche, con la rassegnazione depressa che contraddistingue l’umore di un popolo incapace a ribellarsi, immerso com’è nel dispositivo del mercato del lavoro, ovvero nella concorrenza sfrenata e spietata di una forza lavoro eccedente che tenta di rendersi appetibile a una massa di selezionatori limitata, la quale può permettersi di rialzare le proprie richieste sino a livelli indefiniti, a causa di un rapporto domanda offerta nettamente vantaggioso e in trend positivo.
La necessità per la forza lavoro di rendersi sempre più appetibile, oltre a spingere verso lo zero o il segno negativo le sue richieste salariali (e non parliamo di qualità del lavoro), la spinge a ricercare una quantità e qualità sempre maggiore di titoli; d’altro canto, la disponibilità abbondante di forza lavoro sempre più qualificata, spinge la domanda a richiedere sempre più titoli, fino ad arrivare a utilizzare i titoli stessi come moneta di scambio (quanti tirocini e stage gratuiti in cambio di un attestato o due righe di curriculum?).
Cosicchè c’è poco da stupirsi (come invece fa Silvia Avallone quando dice “e dire che mia madre, a soli vent’anni dopo aver vinto il concorso di Stato era già di ruolo”) se posizioni professionali che un tempo erano attingibili con un diploma, ora non lo sono nemmeno con una laurea specialistica.
Ora, chi ci governa, legittimandosi attraverso la narrazione del vincolo esterno (l’Europa, i mercati) e la demonizzazione della spesa pubblica, e quindi attraverso meccanismi kafkiani come questo per l’abilitazione all’insegnamento, che s’inserisce nel quadro di un progressivo ridimensionamento qualitativo e quantitativo dell’istruzione pubblica (in quanto spesa pubblica improduttiva), opera attivamente in favore della compressione della domanda di forza lavoro, alimentando volutamente il meccanismo perverso di cui ho parlato sopra, a vantaggio delle concentrazioni di capitale e in vista di una già paventata liberalizzazione dei titoli (attraverso l’abolizione del valore legale del titolo di studio) che allarghi ulteriormente il già florido mercato dei titoli di studio e alimenti ulteriormente il volume di scambio titoli-lavoro; un meccanismo che si regge sull’estrazione di valore (tra l’altro con costi in capitale fisso relativamente molto ridotti) dai redditi delle famiglie che mantengono la generazione e mezzo in esubero condannata a questa rincorsa (che non mangia nè paga affitti, con i titoli), la cui insostenibilità economica a medio termine (se non a breve) è palese e i cui costi sociali sono già sotto gli occhi di tutti.
Questo Silvia Avallone, dall’alto della sua posizione di benedetta dal divino successo e dalle pagine dell’organo di alcuni dei principali beneficiari di questa poderosa spinta alla compressione dei salari e delle richieste dei lavoratori, non può certo dirlo, limitandosi alla pura e semplice lamentazione e dandoci un ulteriore esempio di quale sia il livello di capacità d’analisi richiesta agli “intellettuali” dagli organi di informazione mainstream…
(ps non capisco come mai wordpress stia impazzendo e non lo pubblichi ne segnali una moderazione)
errata corridge:
…e quindi operando attraverso meccanismi kafkiani come questo per l’abilitazione all’insegnamento,…
(e ridaje, sesto tentativo, ma finiscono nel vuoto atemporale fagocitati dall’abisso di WordPress o ve li ritrovate da qualche parte?)
Da ex internato nella ssis e supplente a chiamata da un lustro, condivido le parole di Giuseppe. Dalla prosa di Avallone emerge che le motivazioni che la spingevano a tentare la strada della scuola erano troppo deboli (suggestioni infantili e ricerca di un paracadute).
Non credo c’entri la rendita di posizione, però: molti tq potranno smentirmi, ma credo che prima di campare con i proventi della scrittura o del freelencismo ce ne voglia. Forse Avallone, temendo che il secondo romanzo non avrà lo stesso successo del primo, aveva fatto un pensierino sul riparo della scuola. Poi, vista la guerra di posizione che la aspettava, ci ha ripensato. Ma siccome le avrebbe fatto comodo quel riparo, ha voluto denunciarne l’irraggiungibilità immediata.
Un modo post adolescenziale di affrontare una questione così drammatica?
Tra i nemici della scuola, ricordiamocelo, ci sono anche opinionisti in vista e persino alcuni insegnanti magari di ruolo, che amano demistificare la costruzione scolastica del sapere. C’è chi ha letto Deleuze e si dimentica dell’acqua che è passata sotto i ponti. A volte si leggono su certi quotidiani considerazioni sprezzanti sugli insegnanti, considerati vestali di ogni conformismo, quando invece la realtà è esattamente opposta, essendo la scuola, ormai, forse l’unico luogo di residua resistenza, di pensiero divergente.
Classi pollaio, divisione degli alunni durante le assenze dei docenti, mancanza degli insegnanti di sostegno, mancanza di continuità per la girandola dei precari. Nonostante gli studenti italiani siano quelli che (negli anni della scuola dell’obbligo) passano più ore in assoluto sui banchi, il risultato finale è il numero di laureati più basso rispetto al totale della popolazione tra i paesi occidentali.
Lei lascia, noi l’anno scorso abbiamo regalato il nostro tempo alla scuola, di ruolo e precari, tutti, gente con figli e giovani acerbi. Sciopero attivo: serate a scuola a far lezione, ad alunni e genitori.
Avallone si potrà anche arrendere, ma parli sinceramente di resa e di debolezza. Poi magari anche di attacco alla cultura ed all’unica sede della cultura d’opposizione, certo. L’insegnante istruisce e mette in guardia, apre gli occhi e solleva le schiene, insegna le regole fondamentali del vivere civile, si trova spesso a fare il sostituto dello psicologo, supplisce ai genitori in molti casi, supplisce alla società. C’è perfino un disegno politico di rivendicazione dell’ignoranza da parte dell’ elite al potere, contenta di leggere dichiarazioni di resa e di sconfitta.
Un po’ troppa retorica, depressiva nell’articolo della Avallone, civistico-eroica in alcuni commenti. Spero non si offenda nessuno, vorrei riflettere e non polemizzare.
La riflessione pubblica sulla scuola avrebbe bisogno di lucide analisi, senso critico equilibrato, passione e volontà decise ma non confusamente sentimentali. Piagnucolare non serve a molto, difendere la scuola solo sulla scorta dell’orgoglio di appartenere a una specie di nicchia e in via d’estinzione che educa le preziose coscienze delle future generazioni e le difende dall’abisso spaventoso di un mondo in delirio neanche. Infatti il primo atteggiamento, quello della Avallone, ha tutti i difetti che Zucco ha giustamente messo in evidenza; il secondo invece, pur se valorizza in effetti la forza morale e intellettuale di molti insegnanti, forse dimentica che la nostra scuola di difetti ne ha, e molti, e non solo per il disinvestimento politico, ideale, economico di cui è oggetto, ma anche per altre ragioni, tutte strutturali, sedimentatesi nel corso di decenni e che ci vedono tutti un po’ corresponsabili, delle quali però sarebbe troppo lungo discorrere qui.
Bisogna uscire dal guado, siamo a metà di un percorso iniziato poco più di dieci anni fa. Certo, con gli attuali tagli, enormi, nel guado rischiamo di affondare e morire, e dall’altra parte non arriveremo mai. La specializzazione postlaurea, a pagamento, non è in sé un’estorsione, come molti lamentano. Un lungo percorso di formazione è necessario, se vogliamo che gli insegnanti diventino professionisti (come avvocati, medici, architetti, …) ed escano dalla condizione semiimpiegatizia nella quale sono stati collocati per decenni con il concerto e consenso di tutti. E’ elitario o classista? Non tutti dovrebbero fare gli insegnanti, ci vogliono grandi qualità e la selezione dovrebbe essere alta. Ovviamente la qualità intellettuale non ha alcun legame con il censo, per cui dovrebbero esistere borse di studio che agevolino il lungi percorso formativo per chi non ha una famiglia alle spalle che gli paghi gli studi.
Le Siss prima e i Tfa poi avrebbero dovuto servire a questo. (Poi gli insegnanti dovrebbero lavorare in modo diverso, non di più ma meglio: uscire dall’individualismo, collaborare con i colleghi, ridiscutere i contenuti e metodi che l’accademia gli mette davanti come se quelli attuali fossero gli unici contenuti e metodi pensabili per insegnare, accettare un (serio!) sistema di valutazione che li sottoponga a ciò che a nessuno piace, un giudizio di qualità, e molto altro).
Siamo a metà del guado perché tutto ciò costa e i soldi invece di metterli sul piatto li stanno togliendo. Per questa ragione ci ritroviamo in questa condizione assurda, per la quale diventare insegnanti oggi costa tantissimo, come se fossimo davvero dei professionisti, ma i soldi investiti non portano molto lontano, al massimo al lungo e stento precariato. Questo, sì, è intollerabile. Chiedono tanto e danno poco.
Ma se non usciamo da questo pantano non basterà più invocare il senso di responsabilità e la coscienza morale degli insegnanti, perché chi avrebbe qualche dote intellettuale da spendere nell’educazione delle giovani generazioni, di fronte a questo muro prima o poi andrà a far altro: se lo troverà, a fare un altro mestiere – non necessariamente intellettuale, certo di accomodamento coatto al sistema economico -, se non lo troverà, a tentare la fortuna in paesi politicamente un po’ meno ottusi del nostro.
Io vorrei chiederle cosa c’entrino test come quelli per l’ingresso ai TFA con la qualità dell’insegnamento.
Inoltre vorrei farle notare che le sensibilità e le competenze per l’insegnamento elementare, medio e medio superiore non sono quelle richieste per l’insegnamento universitario (sono molto più comuni e meno “professionalizzanti” o di “eccellenza” o qualsiasi parola mistificante intrisa di élitismo lei voglia usare), cosa che purtroppo i professoroni universitari che hanno voluto una extratitolazione di quelle posizioni lavorative non riescono, non dico a comprendere, ma nemmeno a concepire (ricordo il vecchio preside della mia facoltà di lettere, buon anima, rivendicare con orgoglio di aver richiesto, tramite la Conferenza nazionale dei presidi di lettere, che il percorso di abilitazione all’insegnamento fosse superiore e successivo alla laurea quinquiennale, come un percorso di dottorato; per me è una cosa totalmente fuori di testa).
Questa sovratitolazione si è risolta nella costrizione per una marea di persone a svolgere percorsi che per la maggior parte sono completamente distaccati e dalla pratica dell’insegnamento, e dai livelli di conoscenza richiesti nei programmi, e dalle effettive competenze che un insegnante deve avere per trasmettere quelle competenze.
La verità è che questi percorsi a ostacoli nascono semplicemente perchè c’è una quantità di persone che richiedono di accedere alla professione, con sufficienti requisiti, completamente interscambiabili e sostituibili tra loro, nettamente superiore a quelle che il sistema scolastico è disposto ad accogliere; non c’è nessuna reale volontà professionalizzante che vada aldilà di una blanda abilitazione ai percorsi kafkiani della burocratizzazione dell’apparato scolastico, che sa più di addestramento in stile marines alla distruzione di ogni entusiasmo e approcio creativo verso la professione, che ad altro; l’unica reale volontà è quella di operare una esclusione che non può che essere arbitraria fingendo di scegliere i migliori; oltre, ovviamente, alla succulenta boccata di ossigeno che ogni corso post-laurea (costoso come un corso post-laurea) costituisce per istituzioni universitarie ormai alla canna del gas.
Pensare che la Ssis e i TFA abbiano mai avuto il reale obiettivo di migliorare la qualità dell’insegnamento è una grande ingenuità, che non tiene conto dell’obiettivo fondante che governa le politiche scolastiche da quando è stato avviato il processo di Bologna: armonizzare i percorsi scolastici alle esigenze del mercato del lavoro, a sua volta concepito come spazio della liberalizzazione dei rapporti tra domanda e offerta di lavoro, ovvero del progressivo smantellamento delle garanzie e/o protezioni legislative acquisite dalla parte più debole: l’offerta.
In questa armonizzazione non c’è spazio per il riconoscimento del lavoro medio d’insegnante, solo per il lavoro d’élite di professorone: il “chiedono tanto, danno tanto” che sembra essere una buona misura di compromesso è un premio raggiungibile solo per i migliori. Si da il caso che il lavoro della schiacciante maggioranza degli insegnanti sia uno sporco lavoro mediano, niente affatto di élite (detto da uno che ama stare nel medio della folla, non è affatto inteso in senso spregiativo come nella vulgata dominante), d’insegnamento di un bagaglio che sia “quel che serve, per tutti”, non “il massimo per chi ci arriva scoppiando e gli altri si impicchino”. Questa sarebbe la differenza tra il modello scolastico alla europea e quello anglosassone verso cui siamo irrimediabilmente e dilettantescamente lanciati.
D’altronde, voglio ricordare che i TFA non danno diritto ad alcun posto di lavoro, sono una blandissima promessa di una remota possibilità di avere forse un giorno lontano qualche straccio di supplenza (quelle che raccattano disperatamente i fuoriusciti dalla Ssis che conosco); quindi possiamo dire che no, non sono un’estorsione, sono una presa per il culo.
Caro UndadoA042facce, provo a risponderle.
1) La cultura degli insegnanti. Certo che gli insegnanti di ciascun livello hanno caratteristiche diverse e devono o dovrebbero avere formazioni e persino “teste” diverse. Non ho capito da quale parte del mio intervento abbia desunto l’opinione contraria – che non mi ha mai sfiorato -: forse dal punto in cui parlo di una formazione lunga e seria. Ma una formazione può essere lunga e seria senza per forza essere di tipo specialistico-erudito (che va bene all’Università), ovvero essere un ulteriore accumulo di nuove nozioni o contenuti. Non esiste l’élite universitaria e la manovalanza dei docenti degli ordini inferiori di scuola. Mi permetta di dirle che proprio descrivere, come fa lei, quello di insegnante come un mestiere mediano da “sporco lavoro” non fa che ribadire questa contrapposizione falsa e falsata. Insegnare è un mestiere difficile a tutti i livelli, perché agisce su quel sottile e scivoloso terreno che congiunge teoria e pratica: non possono bastargli né metodi fondati e belle teorie, né pratiche meccaniche e rassicuranti. Ecco perché gli insegnanti, tutti, ad ogni livello, sono degli intellettuali, nella accezione più larga e bella della parola. Per fare il loro lavoro devono pensare e pensarsi, ciascuno in relazione all’età e alle capacità degli studenti che ha di fronte. Proviamo a discutere di quali siano i mezzi di selezione più adatti per individuare quelli che sanno farlo? “Professionalizzare” significa, per me, solo questo.
2) La formazione postlaurea degli insegnanti (Tfa e Sis). Ho usato scientemente il condizionale passato (“avrebbero dovuto servire”), perché ho perfettamente chiaro che così com’è, non va proprio.
Ho letto con grande rabbia le domande del test d’ammissione al Tfa di quest’anno. Non ho capito se chi l’ha costruito ci sia o ci faccia: quell’erudizione minuta di date e titoli di opere e confini geografici di stati africani o è frutto del lavoro di un topo da biblioteca ignaro di ciò che esiste nel mondo o di una persona fin troppo consapevole, che ha costruito un test impossibile per lasciar fuori tutti, non so a beneficio di chi (spero non di qualche raccomandato). Ma dire che un test d’ammissione siffatto è ridicolo e vergognoso non equivale a negare validità ai percorsi formativi in sé.
Le Sis (le conosco per averne fatta una, e ancora navigo nel mare del precariato) forse fallivano il loro obiettivo di insegnare a insegnare, per ragioni che sarebbe troppo lungo elencare. Ma forse si sarebbe dovuto lavorare per migliorarle, invece di buttarle via insieme all’acqua sporca.
Che le università facciano cassa con i corsi postlaurea è vero (anzi con i Tfa ritengo che l’abbiano fatto anche in modo molto sporco, attivando il corso per classi di concorso attualmente già in esubero, facendo finta di non vedere che avrebbero abilitato, nella migliore delle ipotesi, dei precari, nella peggiore, della gente che sarà discoccupata tout court), ma non è questa l’obiezione da fare; semmai si dovrebbe pretendere che quei corsi siano seri e preparino davvero a questo mestiere. (Certo, se si accetta il presupposto che fare l’insegnante quel percorso lungo e serio lo richieda).
3) La scuola, il capitalismo e il mercato del lavoro. Solo degli insegnanti intellettuali saprebbero formare delle persone al di fuori della logica funzionalistica dell’attuale sistema economico, perché solo insegnanti del genere saprebbero essi stessi non divenirne preda, o almeno – che è forse l’unica forma di azione che resta – resisterle silenziosamente come efficaci sabotatori. Il lessico dell’utilitarismo e dell’efficientismo è entrato nella scuola insensibilmente e lo usiamo come se niente fosse (competenze, saper fare, ecc…): più insegnanti, uniti e collaborativi, capaci di metterlo in ridicolo, saprebbero rifondare un nuovo lessico (è una metafora, non la prenda per un’ingenua utopia).
Le Sis e i Tfa e la scuola sono solo meccanismi armonizzati al mercato del lavoro? Se sì, e se lo sono integralmente, bisogna abbatterli e c’è un’unica strada, la rivoluzione. Se invece, come credo, essi hanno tanti difetti (molti dei quali dipendono anche, certamente, dallo smarrire la propria identità con grande facilità a causa delle pressioni di un sistema economico che le vuole addomesticate ai propri scopi e suoi emissari), ma contengono o almeno possono contenere anche la volontà limpida di formare studenti e insegnanti culturalmente consapevoli e intellettualmente responsabili, allora bisogna riformarli, e per farlo c’è bisogno di intelligenze che sappiano non solo additare ciò che non va ma anche indicare delle possibili vie d’uscita.
sui test d’ingresso, credo che sia la sindrome di Bongiorno/Scotti/Amadeus che ci ha definitivamente parassitato le menti a tutti i livelli…secondo me i signori estensori dei test hanno guardato troppa televisione, semplicemente.
Concordo con Daniele. Il fatto che io riconosca alla scuola un ruolo, sempre più, di “contropotere” – con buona pace degli ultimi descolarizzatori – non significa che non ne veda le magagne. Di qui al comodo disfattismo della Avallone, tuttavia, ce ne corre…
Però gli esaminandi lo sanno che tra test di questo genere e il Trivial Pursuit non c’è poi molta differenza. Mentre c’è un abisso tra le declamazioni a favore di una scuola all’avanguardia, moderna, innovativa e basata sul merito e la mediocrità solita delle vicende di cui leggiamo. A parte che le domande e le risposte del Trivial Pursuit in genere sono sempre esatte.
Cominciamo a parlare chiaro.
Alla classe politica non interessa la scuola. Non interessa null’altro che non sia la preservazione della poltrona, simbolo di un intreccio di privilegi. Allo stato attuale, vista la serrata oligarchica della nostra società, non è probabile che dall’interno della classe politica si possano proporre significative svolte. Vista anche la deriva dei movimenti popolari, non vedo speranze. Non è questione di disfattismo. Nei trent’anni che vanno dal 1982 al 2012 (dall’epoca delle prime edizioni del Pensiero debole di Vattimo al governo Monti) in Italia si è attuato il compimento di un putch sociale che è consistito:
1) nella destrutturazione culturale del Paese, e nella sua legittimazione filosofica;
2) nell’instaurazione definitiva e capillare di una mafiocrazia e nel sistematico scoraggiamento di ogni innovazione economica o scientifica;
3) nel costituirsi di una rete di grigi comitati di pietra piccoli e grandi, a ridosso delle strutture assembleari e rappresentative, e valle delle reti clientelari della societas alto-borghese e post-aristocratica.
La scuola, per quest’Italia, è solo un relitto dello Stato moderno, che va definitivamente cassato, per sostituirsi allo Stato neo-tribale “postmoderno”, col suo rigurgito di trifunzionalismo settario (gerarchia cattolica, mafia + polizie, produttori terzo stato). Il resto è illusione e presa in giro. Le denuncie giornalistiche del fenomeno sono deboli, fiacche, contraddittorie, essenzialmente prive di credibilità, spesso funzionali a una facile demagogia pre-elettorale. Spesso, come hanno detto altri prima e meglio di me, sono espressione dello stesso giornalismo che per trent’anni ha preso in giro i docenti denigrandone le aspirazioni, quanto a miglioramento della loro condizione professionale (tipico slogan “che ha di più il professore dell’operaio”, quando si sapeva che in realtà il problema non era quello).
Per la scuola io mi augurerei soltanto che finissero le riforme, perissero tutti i saggi, sprofondassero le denunce e i pareri illuminati e illuminanti, e ci lasciassero fare il nostro lavoro, con l’ulteriore possibilità di cassare dall’universo scuola quelli, fra docenti e alunni, che non sono in grado di concepirsi in esso in modo civile.
Il resto viene dal maligno.
Credo che ci sia un po’ di confusione in giro. Che la scuola richieda una formazione didattica specifica, credo sia inoppugnabile (vogliamo fare il conto, ognuno di noi, di quanti insegnanti incapaci ha incontrato nella sua vita?) ed è una prassi ormai invalsa in buona parte del mondo. Che questa formazione possa avere un costo, anche questa è una condizione comune a buona parte del mondo, e quello del tfa è irrisorio rispetto ai percorsi di altre nazioni, ad esempio quello inglese. C’è molto da discutere su altri aspetti, invece: il metodo di selezione, le prospettive che vengono offerte al termine di questo percorso. Poi una seria riflessione sullo status degli insegnanti in Italia sarebbe da avviare, perchè è vero che si tratta di una categoria immotivatamente vessata e avvilita, di un percorso di guerra che credo non abbia eguali in nessun’altra parte del mondo. Come si è giunti a questo? E perchè si accetta tutto e si permette tutto, perchè non ci si organizza, non si comincia ad alzare potentemente la voce per denunciare? Perchè, se qualcuno lo fa, anche dall’esterno, viene attaccato invece che ringraziato per avere quantomeno sollevato un problema? Al contrario, vedo in queste posizioni un atteggiamento fortemente rinunciatario e rassegnato. Perchè non si mette su un movimento nazionale? Forse perchè siamo troppo impegnati farci la guerra tra di noi, esattamente come voleva chi ha condotto la scuola a questo punto?
[…] questo quadro la scrittrice Silvia Avallone. Comprensibile. Anche se siamo più dell’idea di Giuseppe Zucco: “Il verbo che non possiamo più permetterci oggi è abdicare. Altrimenti, a furia di […]