b t w b h / 15 poesie da Nel malintendere (2009-2012)

di Fabio Teti

[...]


con espiantati, non espiati, così che possano, che passino,
fatto un silenzio degli organi, nel fitto

del rumore degli organi – e «è complicato».


lui poi a che pro chiede se senza
lavoro un link gli scorta
il morto nella casa, nel video non montato
è in piedi poi sdraiato e sangue in terra, gli scorta
il foro nella testa e fra i cappotti lì nel tram
su viale libia, a dita sopra schermi –
come fosse poi diverso      
come questo fosse altro
da scortargli i predicati 
– scortargli

ai nervi e già disposta la cosa

ah e pazzesca la tripletta
contro il lecce di boateng





palmi serrati sul rosso, adesso, dell’otorragia.
i battiti accresciuti         nel cavo         lo sbocco
         se in acufèni         .          dovendo dirlo come
lo dicono gli occhi, c’è una stanza
nera nella predisposta     
metratura della stanza – una cornea, 
la normata, fa passare
la caverna che governa – l’altra a strappi 
tenta essere di questo   
animale che ricerca, invece; 
che ricevendo rimette,
modifica







le cose viste stando prima no non stando
solo prima delle frasi – ricevendola è prodotta la figura,
d’impedimento, in porta e ottone, in maniglia che ha dentro
il vedersi colliquare – troppo sporco regge allora
l’intenzione, questa di vertere su vertebre,
dei fatti fare, dei fatti fuori, taciuti dalla: 
la frase non li sbalza ai celesti del Bilderberg,
qui non sgancia chi la scrive dalla stanza
dei comunque necrofagi: prodotta forse la figura,
d’intendimento, non ha statura
per tenerla – sé come in deficit,
ha sentito, di finzione –
potrebbe

cliccare su undo, rianodizzare le rétine







ché qui cosa diventa, la frase «il mondo esiste»

più ioni e zone del disfarsi, della disfigurazione, del film
di «il mondo esiste». il router per falluja, 
uranio e tolti gli occhi, la testa dentro il sacco 

questo è detto e questo è guasto, il questo proprio.



non è quel mondo e le interfacce, di glifi:
anche è richiesto dal robot, dimostra di non essere
un robot: derclitic, iighatic, ionssùr, eriodo
attuale, maastrichtiano, età oscura della terra
(la distolta – la distorta – la distale).
è una domanda – lo è? – non poter fare
e fare come si potesse, ancora dire,
né come dove: ominazione, smessa è stata
smessa – rivà in sé -gmenti, qui -guìta, -minata?
dopo giorno dopo giorno e 
meno zanne, nihilati, miniata 
in reintentarsi
. . . 





gli danno da assemblare un’ecfrasi, comunque
– è l’arredo. però sul foglio d’istruzioni annota dopo
quest’appunto o è un  suo messaggio per lu-xun:

«dentro un’apnea. che niente ferro. niente
svegliarli per uscire. l’hanno gassificata». e il compensato,
la compensazione poi e sul tardi, pioggia,
si è a gettare via i cartoni degli imballi,
sfondamento – chiodi avanzati. misurazione
dei vent’anni in traslochi perché serve ancora l’ultima
frase che trascina   le scorie a storia verso
il lato interno – fossa del cranio,
che allora complica
. . .





da una ad altra sempre (ma stessa) 
stanza e va lasciando tinteggiata, e sempre
è in predicati, qui, e ora una carta che protegge
pavimento  
battiscopa  
plafoniere:
la faccenda dei celesti, sacchi, vénti in séguito a monossido
e nell’ordine estrazione, ficcare, la chiusura, delle cerniere, 
stati stesi lungo e / niente, piegata o già le bianche
dalle setole, scolare, dai muri – se venivano
per questi, loro, se per questa
posizione – essere altri i fatti frasi
calcinate, inte-
rrotte






quarto e quinto da gastro (conato)
(costato contro il freddo) – uno ha il joystick
gli altri giù nello scotòma – non è una
scelta, sapere, o è una scelta, la frase: attraversando
il corridoio è attraversato, la frase: citofono
sentito con il nervo, e sottovoce chi da dentro
«amècche, bengasi, zabí almi». la frase allagamento,
da questo, né come; fino al
balcone va che è un margine
di corto, guardare – non fa
vedere chi le ha dette le parole
della mosca masticata 
nel sonno
. . .



essendo poi lo stesso non sapere che sostanzia
i materiali e scarsi nessi della frase     fase dove l’anno
non è quello e lui spalanca   scatola in cui tiene
plastica ocra dei soldati, trovata vuota, trovate anzi
alcune parti di neviera      lacune      acacie      poi la zucca
cava marcia coi barbieri
che in latino gli stenagliano
via i denti – 

il solo fosforo vicino è alle lancette,
quando si sveglia. continua la torsione della faglia. 
continua questa guerra
di ipotetica frizione con la guerra



la decisione è dall’ammasso
degli assiomi che lo hanno (che anche fanno
la somma che assonna – è il neutro artato, 
uno, e zero sempre d’ombra intorno – di qui scurirlo, 
scucirlo dalla, parola casa (passi che andando
dal balcone alla cucina – con qui inasprirle, 
sugli occhi, le quattro nocche fino a farsi
fare rossa e messa in forse la vista, vedere in questa 
andarci storto il forno doppio alla giunzione
che se funziona ha una verifica 
in conati. («la conoscenza, 
quasi», si dice; 

non ripulisse il vomito da terra
. . .
                                             


                                                    dein aschenes Haar Sulamith












immagini anche quelle come con le
ali i piraña, ridanno ora sfondati, dei vetri,
un getto di soldi per questo per molto
nascondere la stanza quella lorda nell’ascolto
dato agli indici o una permuta, invece, dei dati
qui se il dubbio nello spazio è dello spazio, seguìto
è un ragno oltre lo schermo vede i cavi
poi la polvere, l’incàvo
lì sarebbero le lampade
infilate, le chimiche, nell’ano,
le spaccate sulla pelle,
il fosforo che
brucia 




                                          storpiati,
nel modo di frainteso che
muri metri che hanno dentro il versamento, 
e non lo hanno, di altri metri – e loro «andare e rivolvere,
molte cose» e ad un istante «non vedi,
sono fabio» – ma ha ragione: trovata foiba,
foiba compresa ora nel proprio del nome,
e non tenére di quello. (niente, 
lei alzata, dormendo, si è alzata,
«che fai qui», ti chiede,
e le sclere:

«che tu qui non dovresti esserci» –

e avesse detto, certo, avesse invece
detto essere                cosa avresti poi potuto
                    obiettare







risposto niente, infatti, non sa per cosa
avuto un corpo e questo corso da quaranta
e più chilometri di nervi – sfila avanti
sta assorto ad assolversi è vista allo spiazzo
la pancia del papa, soltanto, sta vuota – lì avrebbe
capito cos’è un simbolo, perché va odiato – la vecchia
il suo ammasso di cenci a pochi metri – la notte
che è fatta filtrare nel sonno – nel guanto
tagliato si è mossa una mano – per l’ingresso
dove lascia sullo specchio scritto 
questo – col muco – è un necrofago

dovrà passare ogni inquilino della casa



c’è un qui e il qui conta, è contratto, un
da dove. ratta sognata, da Günther, diceva:

«c’era». pure è ridisposta come ogni e va rifatta
la struttura del risveglio – seguìto è il gas dove porta
l’arco azzurro poi arancio
lungo i quattro minuti della moka – 

stanno pesci con in bocca
occhi staccati dal nervo
nello spazio non è chiaro
cosa chiamino a vedere
ma un lavoro, ha imparato,
è consentirne la
presenza







o l’ha calato, da mano a spalla nella gola;
trovando il fondo, no, trovato il tenero dov’era
quella, dov’era l’unghia, e scuro un fóndaco, ecco,
con seviziati...  (cosa serrata nel cranio, fai non sedata).

[ nome, anche diceva, è dopo grumo
di carne di sangue, e ricevuto; e il ricevuto
no, suo andare identico, murato, 
da un archivio a un archivio, 
e architettando pareti, per scorte, 
poi scarti, parnasi: panneggi 
buoni, sapendo, al non sapere...
[ la cava cavia invece che puoi farne,
fra uno e uno; che tiene aria, 
dentro; che attra
versata







farlo passare, non è di antère, qui se con dire
«io è una fìstola» è slittato un altro marzo nel marzo,
a insanguinare; frasi hai da questi, passi sul viale,
mentre sei dentro: che baciano una testa mozzata di cane,
che ingoiano una cruda carne morta di cane –
è la lacuna dove li hanno e hai adunati,
sulla sabbia, in ginocchio: se
te non specchia il vetro rotto
che con gomito (o pietra); né
lascia dire la parola «abitacolo»
la midriasi trascinata
in pieno giorno
. . . 

14 COMMENTS

  1. la violenza della storia, e insieme del quotidiano: calata in versi che la sottraggono all’abitudine e alla banalità dei telegiornali e del linguaggio comune, facendola passare direttamente per i «quaranta / e più chilometri di nervi». complimenti!

  2. vi ringrazio per la lettura e i segnali di passaggio che avete voluto lasciare.
    Le parole di Bonifazio (inevitabilmente) mi fanno molto piacere perché colgono, e mi restituiscono, un approccio nervoso al discorso (al mondo) che devo supporre alla base di questa scrittura e che più spesso è stato invece addebitato – magari per l’assenza di eloquenza ed esibizione – ad aridità e intellettualismo.

    A Viola dico che, sebbene i versi che cita si prestino meravigliosamente ad essere ritorti in generale contro il loro facitore, quella incapacità di essere all’altezza della situazione (volendo: “human kind / Cannot bear very much reality”; ma vale drasticamente anche l’inverso, specie se sostituiamo “realtà” con “mondo” – “world” ma “words”, anche, sempre slittando…) è uno dei termini principali del problema di questi testi, e spero sia adeguatamente verbalizzato anche altrove (mettiamo: “la conoscenza, / quasi”, si dice; // non ripulisse il vomito da terra”).

    Un caro saluto, e grazie ancora dell’attenzione,

    f.

  3. lo sguardo/ascolto sul/del mondo di fabio teti è impietoso, seppur pieno di pietas.
    è, in questa poesia, il ciò che accade, la sua tragedia inavvertita. qui il surplus significante: nel gap tra primi piani e profili, tra dritto e rovescio. in quella zona d’ombra dove tutto è più arduo da connettere, dove il fallimento è l’apriori mai nichilisticamente sterile e castrante, anzi la forza motrice del sondare, si installano i tentativi di conoscenza di teti.
    Il negativo, dialetticamente inteso, la fenditura, l’interstizio dove si annida l’accumulo, lo scarto, l’errore, è costantemente pattugliato, registrando, fotografando, ossessionando la lastra del reale delirante che gli si espone davanti ad exemplum del nastro storico-esistenziale allucinato e taciuto in cui si scorre. Sono testi continuamente interferiti, mossi, diffratti, dove nulla è dato, soprattutto lo scontato, dove il percepito è nuclearizzato in frammenti minimi legati in una intelaiatura fittissima e salda, esposta nella sua fallibilità, nel suo franare che si ridesta di continuo. Ravvisabili sono i conflitti dove la materica violenza dell’oggetto, assieme alla sua vertiginosa analisi raziocinante, sopravanza al contempo di una nominazione ferrea, laboratoriale, dove il postumano e il subumano, sono la linfa disturbante di una mappatura antropoblasfema, in piena atmosfera tecnocratica.
    la levatura, la maturità, la capacità detonatrice di questa scrittura si inscrive in una tensione etica che ne corrobora le strutture, le necessità insite in una menomatologia della percezione, l’unica tentabile in ottica di approssimazione al vero. quello conoscibile.

  4. ho l’impressione che questo sia un ascolto ben più potente di quello che starebbe commentando. che dire: grazie.

  5. molto colpito. almeno si percepisce che c’è un progetto, un lavoro sulla lingua e sul senso, sulla sintassi. Un ventenne che non ci sbrodola addosso! bravo e in bocca al lupo

  6. Eh no, non si scampa, l’autore si suda qui le sue brave sette camicie e non ce n’è per nessuno: né per ricognizioni generazionali, né per categorizzazioni neo-, post-, dada-, meta- e compagnia bella, né per smagliature di sorta. Questa poesia fa sul serio, a me pare. E se (come sembra) le poesie della seconda parte (dopo i capelli di Sulamith) sono di una fase compositiva più recente, beh, onore a questo scarto ulteriore, dove sulla “intelaiatura fittissima e salda” di cui ben dice Simona Menicocci, si intesse un abbandono di sé che arriva al nerbo delle cose.

  7. Quanto all’articolazione dei ringraziamenti, cara Renata, penso mi tocchi glissare e drasticamente: altrimenti contraddirei seduta stante @vanaspes, sbrodolandomi addosso a tutto spiano.

    Rispondo invece alla tua impressione temporale: questi testi non sono disposti secondo la loro stesura cronologica, e nella parte che precede i ‘capelli di Sulamith’ ce ne sono di recenti. si muovono però, non linearmente ma tutti (lo vorrebbero, quantomeno), proprio nella direzione che ti pare di ravvisare; c’è un progetto di libro (libriccino) e di conoscenza (bacatissima) che ha (o crede di aver trovato, facendosi) proprio in quell’abbandono ed escavazione di sé, e nel tentativo forse paradossale di risolverli in accrescimento dell’attenzione, della responsabilità nominante, delle possibilità di passaggio e re-irruzione di quanto è delocato, uno dei suoi magneti, e forse addirittura dei suoi obiettivi.

    Grazie ancora,

    f.

  8. Dopo un verso come (giusto per fare un esempio)

    “questo è detto e questo è guasto, il questo proprio.”

    non ci dovrebbe essere nient’altro da aggiungere. Anzi, non ci può essere nient’altro. Se c’è, è guasto.
    L’oggetto già non è più il senso, ma qualcos’altro. Se c’è, è la cosa. Oppure è ridondanza.
    Una poesia difficile da scrivere e da leggere, e non perché “non si capisce”, ma perché ripropone l’antico dramma della condizione umana attraverso una prospettiva inedita che ci priva di ogni alibi, dunque di ogni difesa.

    Luigi B.

  9. Il modo di trarre coerentemente le conseguenze da quel verso, da quel testo che è l’ultimo scritto in assoluto, non sono ancora sicuro di averlo trovato. Non so neppure se tutto ciò che faccio seguire, ridisponendo, sia in grado di sorreggere e rispondere a quel problema.
    Quanto al resto, e nonostante l’abbia appena fatto anche in privato, ci tengo a ringraziarti ora e qui, Luigi. Davvero.

    f.t.

  10. questo fatto palese – ma poi non da molti assunto col coraggio del fare e dello starci dentro – che siamo gangli di un multiforme multidirezionale linguaggio, che si origina da se stesso circolarmente, sia che sembri provenire dalle montagne alte e metafisiche, o dai centri del potere economico, o dai ripetitori del potere mediatico, o dai bassifondi degli inconsci individuali e collettivi, o dagli organi della memoria e della preveggenza – questo fatto palese ma non da tutti assunto sulla propria lingua fino alle estreme conseguenze, che in genere, come minimo, implicano il cariarsi dei denti e l’asportazione delle tonsille – questo fatto, magari fatto anche nostro malgrado, magari a nostro discapito, magari che ci piaccia o meno – questo fatto Fabio Teti se lo assume nel corpo, nella penna, nella glottide e nella mente, nella struttura profonda dello stare in sé e dell’uscire fuori di sé, producendo testi segnati da una necessità filosofica profonda e intraducibile. le parole si dipanano e dispongono rivelando il loro essere completamente eterodirette, essendo esse tramite comunicativo dell’autore, certo, ma dell’autore in quanto terreno di scontro di forze contrastanti, umane, preumane, postumane, disumane e a-umane. sotto a ogni componimento sta il grido “il re è nudo”, anche se non lo si sente, perché al risuonare di quel grido tutto scompare, resta solo un’eco che esclude anche l’unico spettatore rimasto:
    “ché qui cosa diventa, la frase «il mondo esiste» / più ioni e zone del disfarsi, della disfigurazione, del film / di «il mondo esiste». il router per falluja,”
    dunque la poesia è governare il disvelamento? forse, con passione conoscitiva, gnoseologica, dove continuamente emerge – per essere risommerso prima che diventi comico o tragico – l’impulso etico, la commozione per la persistenza del significato assoluto dell’umano come ci immaginiamo che dovrebbe rivelarsi al cospetto della morte, senza più relativismi e sopraffazioni, senza l’umiliazione.
    filosofia operaia, operativa, quella poetante di Fabio, priva dell’arroganza del “voler dire”, “voler significare”, e meno che mai voler convincere: si tratta di esposizioni assiomatiche, quasi ‘scientifiche’, in ogni caso, evidentemente, vere; e questo vero, con elegante, fragile rivoltamento, si profila nello spazio del fallimento, quello ben noto e di ascendenza beckettiana, dove l’icona di Beckett è però del tutto sovrapposta al kubrikiano computer Hal – “dimostra di non essere un robot” – e non se ne esce, perché qui si è già fuori, si è fuori il più possibile, e in questo fuori c’è il nostro qui – “c’è un qui e il qui conta, è contratto, un / da dove” – c’è il da dove veniamo, ci sono le cose come stanno, o almeno come appaiono – “le cose viste stando prima no non stando”
    è un viaggio tra i poli del freddo e del caldo, tra l’esperienziale e il puramente linguistico; si passa attraverso molte vestigia organiche su cui si scivola rapidamente, anche se l’occhio, anzi la pelle, vorrebbe trattenerne traccia e sentore (conati, vomiti, carni, occhi, nervi, liquami…); si passa accanto ai clamori della guerra (come riportati dai media) ma si punta infine – contro ogni aspettativa, al “risveglio” – che forse è che conquista del presente, della “presenza”, dentro il disvelamento. ovvio: tutto da rifare. sempre.
    “«c’era». pure è ridisposta come ogni e va rifatta
    la struttura del risveglio”
    poesia rara e preziosa, giustamente oculata e priva di compiacimento, in equilibrio sul punteruolo della necessità, quella di Fabio. grazie Fabio

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