Nuovi autismi 24 – La mia agente letteraria
di Giacomo Sartori
Ieri pomeriggio ho ricevuto una mail della mia agente letteraria. Fa sempre piacere trovare una mail dalla propria agente. O almeno fa piacere a uno come me, che nel cosiddetto mondo dell’editoria ha vendemmiato suo malgrado non poche ruggini. Come dire, è segno che le cose avanzano, o che comunque qualcosa bolle in pentola. Quando è calma piatta l’agente non ti scrive, puoi stare sicuro. Scrive ai suoi pupilli, gli scrittori che vendono bene, e a te nemmeno ci pensa. O anche li chiama personalmente, i suoi preziosi pezzi da novanta, e sta tre ore al telefono con ciascuno di loro, magari anche solo sguazzando nelle indiscrezioni della cosiddetta repubblica delle lettere, quei meschini pettegolezzi, per non chiamarle maldicenze, che sono il prezzemolo delle cucine in cui si sfornano i libri. Per quanto ho avuto modo di vedere nove volte su dieci gli agenti letterari adorano i pettegolezzi, proprio come i commercialisti, che proprio nella perversa curiosità per le fragilità più umane, per non dire più basse, dei loro clienti, sembrano trovare un contrappeso all’aridità delle cifre che maneggiano tutto il santo giorno. Ma non è questo quello che volevo dire. Quello che intendevo chiarire è che quando l’agente ti cerca, ti cerca lui, dopo un sacco di tempo che non lo senti, vuol dire che una casa editrice è interessata all’ultimo tuo manoscritto, o si profila una traduzione in un qualche paese straniero. Una di quelle traduzioni che proprio non ti aspettavi, e come per miracolo si materializza sotto forma di un numero con tre zeri nella colonna dei crediti del tuo estratto conto. Questo è il ragionamento che ha fatto il mio cervello rettiliano. Un po’ alla volta anche in queste cose ci si fa un’esperienza, come in tutte le altre. Non è che le faccende letterarie siano poi così diverse dalle altre, per esempio il mio lavoro scientifico. Anche lì ci sono gli sgomitatori, i millantatori specializzati nel vendere fumo, gli stronzi fatti e finiti, le vedettes che si credono meglio di tutti gli altri, e hanno sete di reiterate conferme, e anche lì ci sono le persone per bene, quelli che hanno diamanti da mostrare e li mostrano. A modo loro, scrivendo. Pochi, pochissimi, ma ci sono. Insomma, sto di nuovo perdendomi per strada: in allegato alla mail dell’agente c’era il resoconto delle vendite del mio ultimo romanzo. Qualcosa dentro di me ha deciso di cominciare da quello. Checché se ne dica fa sempre bene imbattersi in una riprova nero su bianco di un minimo senso – qualcuno preferirebbe forse chiamarlo riconoscimento, o dose minima di gratificazione – dei propri sforzi letterari, mi sono detto. Si ha un bel ripetere che si scrive per se stessi, e che si scriverebbe anche se non si avessero lettori, in realtà l’atto di scrivere è uno struggente appello, una supplica. L’invocazione di un agonizzante, un lancinante urlo di dolore. I manzoniani venticinque lettori sono solo bassa propaganda, la maschera da fraticello indossata dalla montagna di orgoglio allignante nell’autore, lo sanno tutti. Ho aperto quindi il documento allegato al messaggio, e prima ancora che me ne rendessi conto i miei occhi si sono tuffati come avvoltoi verso la riga delle copie vendute. I miei occhi hanno vacillato, increduli della cifra che mettevano a fuoco: centosessantasette. I miei occhi hanno verificato se dopo le tre misere cifre seguisse per caso qualche zero che si leggeva male, ma anche a strizzare come limoni i muscoli degli zigomi non c’era nessun zero: centosessantasette e basta. Centosessantasette è un numero bassissimo. O meglio, ridicolo. Meglio ancora, offensivo. O anche tragico. Ho respirato a fondo, dicendomi che certo i miei occhi avevano preso un abbaglio. Come tante persone che passano la vita a leggere e a scrivere non è che ci veda poi così bene. Ho cinque paia di occhiali, ognuno adeguato a un preciso spettro di condizioni e di esigenze, tanto che ogni volta che vado dall’oculista ci metto mezz’ora a spiegargli perché ne ho appunto cinque paia. Per gli oculisti contemporanei si dovrebbe però avere un solo paio di occhiali, quelle lenti che fanno tutto, e già quando ne hai due paia cominciano a sospirare. Se ne hai tre aggrottano le sopracciglia. Con cinque ti trattano come se fossi pazzo da legare: la calibrazione empirica effettuata da un essere libero di pensare contraddice di netto tutta la loro dottrina, fa a pugni con le loro inflessibili credenze. Per questo nelle mie spiegazioni oftalmiche finisco sempre per ingarbugliarmi: quando ti fissano come se fossi pazzo finisci per sentirti un po’ pazzo tu stesso. Una volta mi sono perfino messo a litigare, con una oculistina che pensava di sapere tutto. Per farla breve, diffidando dei miei occhi ho preso in mano la situazione in prima persona, intenzionato a dipanare l’equivoco che mi aveva inculcato quel funesto spavento. Ho affrontato di nuovo il resoconto della casa editrice, questa volta sotto la vigile supervisione del mio cervello. La dizione precisa, il mio cervello abituato alle analisi approfondite e ai complessi enigmi scientifici sapeva che per fare le cose bene bisognava cominciare da lì, era Copie vendute tramite distributori e privatamene. Il mio medesimo cervello ha poi vegliato che scorrendo verso destra i miei occhi non slittassero di una riga, come può sempre capitare anche agli occhi più allenati. Contro ogni aspettativa la cifra continuava a essere centosessantasette. Ancora centosessantasette. Sempre quel maledetto centosessantasette. Abbinato, non c’era possibilità di sbagliarsi, a quel Copie vendute tramite distributori e privatamente. Più sotto, accanto alla frase un po’ criptica Giacenza nostro magazzino e distributore c’era una cifra che suonava in qualche modo come una conferma: millecentoquarantanove. Millecentoquarantanove è un numero degno di ogni rispetto, accettabilissimo: peccato che avesse pensato bene di schierarsi nel campo avverso. Se millecentoquarantanove esemplari restavano a ammuffire in magazzino, sommando le copie per la stampa e tutto il briciolame delle altre voci, le copie vendute dovevano essere davvero pochissime: i conti tornavano. Era ineluttabile, le copie vendute del mio romanzo erano effettivamente centosessantasette. Solo centosessantasette. Il grande romanzo che mi aveva preso per anni, per il quale avevo dato l’anima, e che consideravo fondamentale nel mio cosiddetto percorso letterario, s’era accasato solo centosessantasette miserissime volte. Io a dire la verità non mi ero mai domandato quante copie fossero state smerciate, ma presupponevo molte di più. Come dire, una cifra non stratosferica ma degna. Per esempio appunto millecentoquarantanove. Certo i miei romanzi precedenti non avevano mai sbaragliato, però nel loro piccolo si erano difesi bene. Ma a quanto pare questa volta le copie acquistate erano centosessantasette, e nemmeno una di più. Il mio cervello a questo punto ha avuto uno scatto di orgoglio, si è concentrato come una micidiale arma di precisione su quello sbifido Copie vendute tramite distributori e privatamente. Sicuro che avrebbe stanato l’indizio ben nascosto ma inequivocabile suscettibile di ribaltare la situazione, traendoci d’impiccio. Io sono un tipo che di fronte alle difficoltà tende a demoralizzarsi, per non dire a deprimersi, se non addirittura a imboccare i vertiginosi sentieri della paranoia, e quindi il mio cervello molto spesso si risolve a indossare i panni del crocerossino. Calcando sugli aspetti positivi mi fa capire che non c’è ragione per vedere tutto in nero, a suon di analisi inconfutabili mi convince a perseverare. Insomma, memore delle esperienze passate il mio cervello si aspettava di tirarmi per l’ennesima volta fuori dalle peste, e io stesso speravo tanto che lo facesse. Non mi restava del resto altra soluzione. E invece senza volerlo questa volta il mio cervellaccio ha aggravato ancora di più le cose, come quei soccorritori maldestri che fanno sprofondare ancora di più nel pozzo scuro e umido il derelitto bimbo gemente, allontanando ancora di più la speranza di tirarlo fuori vivo. Quel privatamente del Copie vendute tramite distributori e privatamente, ha arguito il mio petulante cervello, includeva senza ombra di dubbio anche le copie che avevo comprato io. Quindi la cifra andava rivista al ribasso. E di molto: questa volta avevo acquistato davvero tante copie. Avevo deciso di fare le cose in grande. Mi ero detto che per me questo era un libro importante, per non dire capitale, e quindi era assurdo lesinare sui mezzi che mi sarebbero serviti per promuoverlo. Naturalmente l’ufficio stampa della casa editrice avrebbe fatto il suo lavoro, ma ormai li conoscevo gli uffici stampa, presi per il collo dall’esorbitante numero di libri che devono sostenere, e animati dallo stesso entusiasmo, specie quando l’autore non è tanto noto, di un operaio che sgobba a una catena di montaggio: questa volta dovevo impegnarmi di persona. Certo non avevo tanti contatti, anzi ne avevo proprio pochini, perché ero sempre stato molto isolato, questo nessuno avrebbe potuto negarlo, ma in fondo qualcuno lo conoscevo, qualche pista potevo provare a batterla. Per il romanzo precedente avevo adottato la strategia opposta, e dalla casa editrice, che era un’altra – ogni volta mi epurano e devo ricominciare altrove – ne avevo comprati pochissimi. Nemmeno a certi amici intimi, lo avevo dato, il romanzo precedente, e qualcuno se l’era legata al dito. Questo invece lo avevo distribuito in giro come si lanciano in aria i coriandoli, senza pensare alle fatture che mi sarebbero arrivate da pagare, e che anzi puntualmente arrivavano (se c’è un’attività nella quale le case editrici si mostrano sempre molto efficienti è proprio questo). Ma soprattutto, a parte i conoscenti per così dire privati, lo avevo mandato o fatto avere a un sacco di persone che secondo me avrebbero potuto essere interessate, per non dire avrebbero potuto entusiasmarsi. Avevo passato settimane a trovare i contatti, a cercare di attivarli, a tastare il terreno, a carpire assensi, a mandare pacchetti. Il libro avevo al centro una vicenda storica, e quindi avevo stanato molti storici. Mi ero presentato, avevo riassunto in maniera sobria ma accattivante la vicenda, avevo chiesto se per caso erano interessati a dargli un’occhiata. Specificando naturalmente che non si impegnavano a nulla: se avessero visto che non era nelle loro corde avrebbero potuto buttarlo dalla finestra, o anche da un aereo in volo, o sotto il piede di un mobile traballante, dove volevano loro. Ci tenevo a non apparire insistente, e quindi calcavo sempre molto su questo punto, inventavo sempre nuovi mezzi di distruzione del mio libro. Se c’è una cosa che voglio evitare è proprio assillare gli storici. Molti non mi hanno nemmeno risposto, alcuni invece si sono mostrati disponibili. Tra gli altri uno storico molto famoso, con le quali avevo scambiato diverse cordiali mail. Fatta qualche sporadica eccezione nessuno aveva poi letto il romanzo, nonostante trattasse di un grande personaggio storico che nessuno scrittore aveva mai osato tirare in ballo, e a dispetto dei miei più o meno patetici tentativi di rilanciare la cosa: non avevo avuto quasi nessun riscontro. Nemmeno dallo storico molto famoso che si era mostrato tanto gentile e alla mano. Tutta fatica inutile. Tentativi privi di senso, macchiati da quella stessa indegnità di una madre che si prostituisce per nutrire i suoi figli. Queste cose però le penso adesso, quello che capivo mentre guardavo i conteggi della casa editrice, e che appunto aggrava ulteriormente la situazione, rendendola luttuosa, è che alle centosessantasette copie dovevo sottrarre le molte che avevo comprato io. Il che era come sottrarre il mangiare a chi non ha niente da mangiare. Lì per lì ero troppo confuso per ricordarmi esattamente quanti esemplari mi ero fatto mandare al prezzo di favore stipulato dal contratto, ma dovevano essere almeno un’ottantina, se non di più. Quindi le copie vendute in libreria scendevano, al meglio, a ottantasette. Nemmeno cento. Nemmeno novanta. Comprendendo naturalmente anche le librerie online. Tutti quegli sforzi durati anni, quelle ricerche, quelle letture, quelle cattedrali mentali, quelle abissali riflessioni, quell’accanimento sulla lingua, quelle infinite revisioni, quelle interminabili limature finali, quelle battaglie con l’ottuso editor della casa editrice, e poi appunto quelle mail, quelle telefonate, quell’attenzione a giornalisti insipienti, quelle interviste radiofoniche con conduttori che non avevano letto il testo, quel vano darsi da fare, quell’umiliarsi – perché di questo si trattava, di umiliazione – per spacciare non venticinque copie, il che nella disdetta avrebbe pur sempre rappresentato un traguardo onorevole, ma ottanta. Perfino la tenzone con il famoso critico che sosteneva che il mio libro fosse scritto malissimo, e non vedeva che proprio nel discostamento da quella che lui considerava una bella scrittura erano annidati i segreti più preziosi del testo, prendeva una luce sinistra, alla luce di quel benedetto centosessantasette. Ero proprio abbattuto, non posso negarlo. Io sono una persona che si scoraggia facilmente, l’ho già detto, ma questo non era dei soliti inghippi che la mia indole saturnina ingigantisce e ingrigisce a suo piacimento: era una vera e propria mazzata a tradimento. Una cannonata sparata nelle spalle, un colpo mortale. Il mio cervello non mi diceva più niente, non pensava più niente: era anche lui spezzato, annientato, esattamente come me. È in questo stato di spirito che mi sono ricordato del messaggio dell’agente, che non avevo ancora letto. Certo qualche frase di conforto mi tirerà su un po’ il morale, mi sono detto. Le cose sono andate come sono andare, ma il tuo romanzo è magnifico, mi aspettavo di leggere. L’importante è che tu non ti demoralizzi, perché nonostante tutto sei davvero bravo, molto più in gamba di tanti nomi che sono sulla bocca di tutti. Verrà il momento in cui i tuoi testi verranno apprezzati, puoi starne certo. O insomma qualcosa del genere. E invece l’agente mi comunicava che nel corso degli ultimi mesi aveva riflettuto sul nostro rapporto di lavoro, testuali parole, e le pareva che in fondo questo non si fosse rivelato molto soddisfacente per nessuna delle due parti, testuali parole. Pertanto le pareva più corretto che la nostra collaborazione, parole testuali, cessasse a partire da quel giorno stesso, cioè ieri. Mi ringraziava per la fiducia che le avevo accordato in quel periodo e mi faceva, testuali parole, i suoi più sinceri auguri. Quindi da oggi sono anche senza agente.
[l’immagine: Louis Soutter]
Bel pezzo di peripezia dell’editoria dall’interno.
Sperando che l’apporto immaginifico surclassi alla grande la biografia d’ispirazione.
Un saluto!,
Coda
“Il consiglio di Pesca alla trota in America
Potreste leggere Pesca alla trota in America in un giorno di pioggia, a seimila miglia di distanza dalla statua di Benjamin Franklin, in Washington Square, a San Francisco, e averne una nostalgia infinita.
Potreste acquistare qualche metro di torrente in saldo, in questo libro, e pescare a casa vostra: trote iridee, temoli, perfino trote gobbe.
Mentre quelli della sesta classe si divertono a scrivere Pesca alla trota in America sulla schiena dei primini, potreste risalire un torrente in California o nell’Idaho, e incontrare Pesca alla trota in America che chiacchiera con uno scrittore, e sorride a sua figlia che gli infila sassolini colorati in tasca.
Pesca alla trota in America è un alberghetto gestito da cinesi piuttosto ambiziosi, vicino all’incrocio fra la Broadway e la Columbus: non fate caso se l’ingresso sa di lisoform e non fate caso alla tappezzeria; se anche la cambiano in continuazione, non si distingue la nuova dalla vecchia.
Non fatevi scoraggiare dal diario di Alonso Hagen, solo perché si capisce che in centosessanta uscite a pesca ha perso più di duemila trote: non è quello il punto.
Scusate, dovreste leggere Pesca alla trota in America.”
http://pjd.myvnc.com/Music/Chris_Rea/The%20Very%20Best%20Of%20Chris%20Rea/17-Chris%20Rea-Saudade%20Parts%201%20and%202%20(Tribute%20To%20Ayrton%20Senna).mp3
RICHARD BRAUTIGAN
Pesca alla trota in America
Cavolo.
Dico, cavolo.
Voglio leggere “Pesca alla trota in America” di Richard Brautigan.
… ci devo pensare….
a Brautigan?
no, alle molteplici paia di occhiali, a volte moleste e a volte utili per tralasciare alcuni particolari ininfluenti, tipo l’agente letterario
diversi anni fa mi è capitato di leggere un libricino sulla vista, in francese, intitolato “Accetta il tuo flou”, o qualcosa del genere; la tesi, distillata in modo baldanzosamente convincente, era che quelli non ci vedono tanto bene dovrebbero accettare il fatto di non vederci tanto bene, senza fare tante storie, e senza costringersi a portare lenti che fanno girare la testa, stancano, accecano progressivamente …; il che si avvicinava un po’ a quello che avevo sempre pensato io, quindi per diverso tempo sono andato in giro senza occhiali, o insomma con degli occhiali ancora più deboli del solito; poi però una sera ho fatto un volo della madonna in bicicletta (io in bicicletta vado sempre piuttosto veloce, ognuno ha le sue), complice la pioggia e appunto il buio, perchè non avevo visto uno scalinetto traditore che tagliava la pista ciclabile); per farla breve, porto ancora degli occhiali sottodimensionati, ma sto più attento;
a proposito di riferimenti mi ricordo di un racconto di Igeborg Bachmann nella raccolta “tre sentieri per il lago” assolutamente “illuminante” circa la possibilità di essere esonarati da incombenze sociali a causa di “dissonanze ottiche” (quando non porto gli occhiali mi sembra pure di essere meno sensibile ai rumori esterni)
leggo sempre volentieri queste vicende editoriali come le racconta sartori.
non capisco il ruolo dell’agente: spinge quelli che non hanno bisogno d’esser spinti perchè sono già dei nomi? facile come lavoro.
non lo so… un agente non dovrebbe fare cose del tipo alzare il telefono o scrivere una mail a sartori ma per dire: quei pezzi che pubblichi on line che parlano di disavventure editoriali, provare a ordinarli tutti insieme e vedere cosa vien fuori, che ne pensi?
no, no, naturalmente se esistono servono; se per esempio sei uno scrittore di grande successo e vuoi guadagnare ancora di più, o se sei uno scrittore di non successo e non vuoi farti maltrattare eccessivamente (o insomma non in forma così diretta e insolente, così smaccata) dalle case editrici italiane, o se sei uno scrittore di medio successo … ;
e può anche essere un bellissimo lavoro, immagino;
certo, è come dici te. naturale anche che spendano più tempo e energie verso quegli autori per loro più remunerativi.
Conosco la scrittura di Giacomo Sartori solo tramite il sito di Nazione Indiana e, nel mio ininfluente giudizio di lettore appassionato di letteratura, la sua scrittura ha qualità in sé superiori a parecchi autori per i quali ho sentito le lodi più sperticate ma la cui qualità principale, e comunque indiscutibile, è un istrionismo, una gigioneria, un elio alfabetico che forse vale il prezzo di quei palloncini bucati che sono i loro libri il cui successo si sgonfia davvero in men che non si dica.
Da lettore “autodidatta” ammetto che in nessun modo ho mai avuto notizia della pubblicazione dei suoi libri, nemmeno dell’ultimo che per pudore – secondo me eccessivo – neanche Sartori cita nel pezzo. Io non credo che per i libri di qualità non ci possa essere fortuna editoriale, credo però che per un libro che scommette su un linguaggio volutamente discostato dalla “bella scrittura” una attività promozionale che faccia da battitore libero sia fondamentale.
Mi interesserebbe sapere se al di là del fallimento commerciale registrato, qualche scambio fruttuoso a seguito della pubblicazione del libro ci sia stato, qualche accoglienza che abbia risposto con pari entusiasmo, qualche lettore che abbia in qualche modo colto il suo lavoro e glielo abbia manifestato. Per uno scrittore questa può essere una consolazione e – tal volta – una gratificazione che corre in parallelo alle migliaia di copie vendute.
Un saluto,
Antonio Coda
sì, sì qualche appoggio incondizionato c’è stato: mia mamma (quando non scrivo sulla famiglia è sempre contenta), mio fratello, un mio caro collega di lavoro …
a parte gli scherzi: naturalmente ogni persona che scrive, me compreso, ha attorno un piccolo nucleo di persone (“gli interlocutori”, per dirla con Natalia Ginzburg) che conoscono a fondo il suo lavoro e lo apprezzano, giudicandolo in genere in anteprima (e dando consigli etc.); nel mio caso sono appunto fondamentali, e quindi sono ancora più riconoscente nei loro confronti; senza di loro, come si suol dire, non potrei;
ma appunto si tratta di poche persone;
ottimo pezzo, se ci fosse maggior chiarezza sui dati di vendita dei libri ci sarebbero anche meno losche opacità e si sfaterebbero molti miti.
gli autori (ma anche le case editrici) tendono a aumentarsi il numero delle copie vendute, come le signore di una volta si diminuivano gli anni, no?; del resto li si può capire, è in gioco la loro sopravvivenza …
è un’impressione paradossale che ricavai da un’inchiesta uscita su D di Repubblica, in cui molti scrittori italiani più o meno miei coetanei dichiaravano il loro reddito annuo, e siccome alcuni li conoscevo di persona trovai le cifre un po’ gonfiate, mentre per tutte le altre professioni avviene di solito il contrario. è che ci si vergogna di ammettere quanto poco si è “ascoltati, sebbene la colpa non sia solo degli autori. l’opacità dei dati riguarda tutto il sistema letterario, si pensi invece al cinema di cui si può conoscere già il lunedì quanti biglietti sono stati staccati per ogni film nel weekend appena trascorso; di contro all’elusività sui dati di vendita dei libri, che l’autore può conoscere solo a maggio-giugno e con cifre che si riferiscono alla fine dell’anno precedente (come hai scritto nel tuo pezzo che sa quasi di confessione in pubblico). le scuse sono i resi, ecc, però pochi dicono che gli editor con buona approssimazione sanno settimanalmente (il giovedì), tramite bookscan della Nielsen ed altri rilevatori, quanto vendono i loro autori. oltre a questo, sottolinerei che i nudi dati di vendita sbugiardano in modo clamoroso la cricca degli addetti ai lavori e i loro giudizi dopati. gente che può dispensare premi, recensioni entusiastiche e inviti a festival, ma la cui autorevolezza è ritenuta totalmente screditata; e a fronte di questo io trovo stupido rifugiarsi nel consolatorio cliché del popolo bue che si suca qualsiasi cosa, perché non è sempre così. (ah, dato che non è giusto invocare chiarezza senza farla anche per sé, comunico di aver venduto poco più di 3000 copie del mio libro)
Non mi piace per niente istituire il nesso biografia-letteratura. Quindi assumo, per ipotesi, che il testo di Sartori sia un’abile finzione. Come gli altri autismi. O, per essere più precisi, una confusione voluta tra vita vera e scrittura. Il tasso di biografismo è infatti irrilevante per chi dovrebbe leggere un’opera.
E tuttavia continua a restare radicata in me una convinzione profonda: che questa non è letteratura. E che, di conseguenza, per quanto lo si desideri, non sta scritto da nessuna parte che si debba “sfondare” come scrittore di successo. Ci vogliono talento e fortuna. E a volte ancora non sono sufficienti.
In alternativa, si potrebbe prendere a modello Kafka e restarsene chiusi per tutta la vita a scrivere, senza presupporre l’esistenza di lettori.
Mai pensato a questa soluzione?
una delle tante cose strabilianti di Kafka è che non rimaneva affatto chiuso tutta la vita a scrivere, perchè come è noto dedicava pochissimo tempo a scrivere (e trovo impressionanti i suoi manoscritti senza la minima correzione: il testo è già lì come lo conosciamo, zampillato come per miracolo da una penna); e comunque come è noto anche lui aveva degli “interlocutori” molto presenti e molto attenti;
ma mi attribuisci vagheggiamenti che non ho mai espresso: non mi sembra di aver mai parlato, nè che altri lo abbiamo fatto al mio riguardo, di “sfondare”; scrivo, da anni ogni tanto pubblico, mi va benissimo così; forse non è “buona letteratura” (credo che per “letteratura” tu intenda questo), questo non sta a me giudicarlo;
mi piace molto questa risposta, e mi piace la persona che intravvedo dietro alla risposta. Il pezzo che hai pubblicato chiarisce l’inesorabile dispiegamento di forze in campo: l’editore, il distributore, il recensore, l’agente, il lettore. Tutte forze e volontà ingovernabili di fronte alle quali l’autore è bene che risponda: “vada come vada, preferisco vivere”.
dimenticavo: d’accordissimo invece sull’irrilevanza – di per sè – della “componente biografica”
Ahhaha, a un certo punto ho temuto ci fosse il lieto fine. Ma si, che t’importa. Quello che conta è che hai fatto una cosa che ti sentivi di fare punto.