Scrivete sonetti!

Carlo Oliva – foto di Marina Magri

Oggi pomeriggio, al cimitero di Lambrate, si sono svolti i funerali di Carlo Oliva. Uomo di rara e acuminata intelligenza. Chi l’ha conosciuto – e io mi fregio della fortuna – sa di cosa parlo. Per ricordarlo “rubo” dal suo sito un pezzo che qui ripropongo. Ciau Carlett, te voeri bén. G.B.

Appello ai nuovi scrittori italiani di giallo e di noir
(sperando che smettano di essere tali)

Amici carissimi, so che la stagione vi è propizia e che, probabilmente, vi par d’essere nel paese della cuccagna. Gli editori vi aprono le braccia, prendono qualsiasi cosa gli proponiate e la riversano senza pietà sugli scaffali delle librerie e sulle scrivanie dei critici, che ormai gemono sotto il peso. Probabilmente non vi pagano molto, ma c’è sempre la prospettiva di giungere, presto o tardi, in televisione, con una miniserie, una fiction, una rubrica, o semplicemente una bella comparsata in uno spazio che conti, e allora sì che ci sarà da mietere. I gialli, come si sa, “tirano” e ormai si sono messi a scriverne anche autori che fino a dieci anni fa non li avrebbero toccati neanche con un palo lungo dieci metri. Perché non dovreste farlo voi, che di questo peccato originale siete ovviamente immuni e godete dei vantaggi generazionali e culturali di chi è cresciuto in questa triste Italia slabbrata e casinara e sa, se non altro perché l’ho scritto io, che non è più la tragedia, come ai tempi di Eschilo e di Shakespeare, ma appunto il giallo lo strumento per rendere conto del dissesto dei tempi? Se non ci si deve più vergognare di trafficare in thriller mystery e non è più obbligatorio celarsi dietro qualche pseudonimo anglosassone, ma si viene, anzi, considerati da tutti come autori impegnati e meritevoli di ascolto sui principali problemi del paese (uno, anche se, credo, non dei più giovani, è persino finito in Parlamento), perché non cogliere l’occasione? E allora dagli a pestare sui tasti del computer e speriamo che duri.

Ecco. Non vorrei fare, proprio in questa fase della mia vita, la parte del menagramo, ma io non sono affatto sicuro che duri. Siete troppi, ragazzi miei, e scrivete troppo. Per di più gli editori, dimentichi dei saggi principi cui si attenevano, un tempo alla Mondadori, alla Garzanti e alla Longanesi i nostri padri spirituali (gente del livello di Alberto Tedeschi, Mario Monti e Oreste Del Buono) di tascabili, paperback e fascicoli da edicola non ne vogliono più sapere: pubblicano i vostri capolavori in edizioni rilegate, delle specie di in folio di dimensioni tali da determinare la più clamorosa impennata dei costi e del prezzo sul mercato (e per di più pesano, occupano spazio e non si possono leggere in tram o nella vasca da bagno). Presto o tardi, la gente comincerà a comprarne di meno, anche perché tenersi in pari con il flusso incessante delle novità è sempre più difficile e cresce di continuo la pila degli arretrati da smaltire. E se gli acquirenti comprano meno, gli editori, si sa, meno pubblicano e se si innesta l’effetto valanga si fa presto, ahimè, a tornare alla situazione in cui di gialli non ne vuole sapere nessuno. Meglio fareste a prendere esempio dagli sceicchi arabi e simili potentati esotici, che sanno quanto giovi, anche al fine del mantenimento del prezzo, ridurre la produzione (del petrolio, nel loro caso, ma lo farebbero – ne sono certo – anche con i gialli). Tutti i lettori, occasionali e professionali, ve ne sarebbero grati.

Fosse tutto qui, poco male. Ma c’è di più. C’è il fatto, ragazzi miei, che exceptis (i pochi) excipiendis, voi non siete poi bravi come pensate di essere. Lo sa chi, come me, è tenuto a tener d’occhio le novità e per fortuna che l’Einaudi Stile Libero non mi manda mai niente, per cui la galera ne risulta un poco ridotta. Scrivete tutti le stesse cose. Avete rinunciato, lo ammetto, alle storie del classico maresciallo dei carabinieri che gioca a bocce e, sotto sotto, ha simpatia per il ragazzaccio scapestrato (non ne scrivono più neanche le professoresse che partecipano al premio Tedeschi), ma questo, francamente, non basta. Di thriller metropolitani (che rappresentano poi l’espressione moderna del genere) ne tirate fuori davvero pochini: sono più difficili da scrivere di quanto non sembri e poi, che volete che vi dica, questo tipo di romanzi ambientato nelle prospere cittadine della Toscana e dell’Emilia, per quanto vi sforziate di dipingerle come sentine di nequizia, suona un po’ farlocco. Al contrario, di esangui mistery di provincia, tutti con il loro bravo commissario dal volto umano, sempre di mezza età, magari con l’ulcera o la psoriasi, o qualsiasi altro fastidio di livello medio alto, meglio se afflitto da qualche casino in famiglia e uso a scazzi ripetuti con i superiori, ne scrivete davvero troppi. Al massimo, visto che gli investigatori privati hanno libero corso – a quanto sembra – solo nel Canton Ticino, fate lo sforzo di trasformare il commissario in un magistrato o qualcosa di simile. Sì, d’accordo, Simenon, Mankell, la Elizabeth George, Camilleri, Markaris e tanti altri ci hanno fatto dei bei soldi, ma appunto per questo potrebbe valere la pena di cambiare. E non è detto, naturalmente, che i vostri eroi si conquistino tutti la loro serie televisiva, con il conseguente incremento delle vostre finanze. Il sottogenere è saturo, bei giovani, lasciatelo agli specialisti, finché ce la fanno anche loro.

Che c’è d’altro? Pochissimo, in verità. In Italia, per fortuna, si scrivono meno gialli storici che altrove e meno romanzi con la setta misteriosa che tramanda un antico segreto, spargendo peraltro per ogni dove gli indizi necessari a scoprirlo, ma quelli che ci sono restano sempre troppi. C’è, in compenso, tanta, troppa Letteratura. Non nel senso della letteratura italiana, che è una cosa seria, ed è ovvio che la narrativa di genere ne faccia parte, non siamo fermi a quelle polemiche lì. No, io dico la Letteratura con la maiuscola e, magari, le virgolette: quella di cui il vecchio De Sanctis deprecava con tanta energia la presenza nella produzione nazionale dal XVI secolo in poi. Dico l’insopprimibile pulsione verso la bella pagina, la passione per i valori formali, per il gioco di parole, per il mix linguistico dialettale, per la citazione dotta abilmente nascosta, per la descrizione a catalogo dei tratti boschivi, per il gusto dei termini tecnici e rari e quello della variazione raffinata su temi già noti, insomma, tutto quell’apparato da poetae novi che con la narrativa – e voi siete narratori, no? – stride sempre un poco. E non mi dite che queste cose sono anche loro al servizio della trama (il plot, o il mythos, come lo chiama Aristotele), che rafforzano, evidenziano nei suoi svolgimenti e arricchiscono di dimensioni ulteriori . Questa dovrebbe essere, in effetti, la loro funzione, ma perché funzioni (scusate il bisticcio) una trama, una vicenda ben congegnata, deve ben esserci. Invece no: voi, cari amici, ricorrete alla Letteratura come fine a se stesso, come esibizione di qualità e autoproposta di promozione, come mezzo per dra di gomito al lettore ogni due pagine e dirghli “Ahò, hai visto come so scrivere bene?” E di questo, alla fine, potrei perdonarvi, perché un po’ di narcisismo vive in noi tutti, ma il peggio è che ve servite soprattutto a fini cosmetici. Non so se l’avete notato ma il giallista che fa soprattutto della Letteratura è quello che dispone, al massimo, di una mezza idea di trama, di solito ripetitiva o sussunta chissà da dove, con una storia che parte per caso, si impantana dopo due coincidenze e si estingue senza motivo (magari con un bel massacro finale), coinvolgendo dei personaggi dei cui casi non potrebbe importare di meno a nessuno: tutta roba che se, raccontata pulita pulita, susciterebbe orde di lettori a marciare verso le librerie imbracciando picche e agitando fiaccole accese. E allora, via con il Letterario, inteso come un velo che abilmente ombreggi i difetti di quanto sta sotto, la fragilità dei personaggi, la banalità delle situazioni, la povertà dell’ideologia di fondo. Pastiches linguistici, dilatazione del vocabolario, incursioni in ambiti semantici diversi, contrapposizione di registri espressivi discordanti, estraniamento polisemico? Ma sì, grazie. Sfasamenti della sincronia narrativa, montaggio alternato di piani temporali diversi, deviazioni dall’asse narrativo, compresenza non dichiarata di più punti di vista, messa in crisi dell’io narrante, uso non sistematico e sussultorio della terza persona… D’accordo, d’accordo. Tutto fa brodo e fa, soprattutto, impressione. Il risultato narrativo sarà forse un po’ misero, ma tanto si spera che non se ne accorga nessuno.

Di tutto questo, tuttavia, il pubblico finirà presto o tardi con lo stancarsi. Ed ecco la necessità di prendere qualche opportuno provvedimento. Il primo dei quali, appunto, è che smettiate di scrivere. Il sacrificio, me ne rendo conto, sarà doloroso, ma è indispensabile. Qui c’è il rischio che vada in malora tutta la baracca, travolgendo quei pochi che ancora onestamente vi agiscono. È per il bene del giallo italiano, credetemi, che ve lo chiedo.

Oppure, in seconda, assai più deprecabile, istanza, potete provare a cambiare. Potete prendere esempio, tanto per dire, dai vostri colleghi del genere avventuroso di azione, quello contaminato dalla spy story, che infatti è stato confinato per anni dalle parte di “Segretissimo”, dove, non a caso, capita ancora a parecchi di dover inalberare improbabili pseudonimi anglosassoni, francesi e catalani (e non tutti dirigono una casa editrice in cui ripubblicare a nome proprio). Non sono, credetemi, cattivi scrittori, anche se si servono, di solito, di una sorta di basic italian essenziale, con ben pochi abbellimenti e lenocini di quelli che piacciono a voi (magari un certo abuso di termini tecnici, soprattutto in tema di armamenti e arti marziali, ma è un peccato veniale). Hanno persino imparato, con gli anni, a maneggiare il congiuntivo e il trapassato, che pure continuano a trattare con una certa, eccessiva cautela. Eppure, vi assicuro, sanno raccontare una storia e le loro storie, per quanto trucide, improbabili, tirate, eccessive (ma si potrebbe anche considerarle “stilizzate”) riescono più spesso che no a dire qualcosa sul mondo in cui viviamo.

Certo, la loro non è Letteratura, nel senso in cui dicevamo prima. Ma, in fondo, se la Letteratura via piace tanto, nulla vi impedisce di coltivarla liberamente. Soltanto vi prego, per favore, di non metterla nei gialli. Non è obbligatorio. Saltate il fosso e passate direttamente al Parnaso.

Potreste, per esempio, mettervi a scrivere sonetti. Non è difficile, ve lo assicuro: mi ci sono provato, ogni tanto, persino io. Quattordici endecasillabi, nella forma tipo: due quartine a rime alterne o incrociate e due terzine a rime parimenti alterne, o – per chi proprio vuole complicarsi la vita – a tre rime ripetute. Nulla vi vieterà, naturalmente, di introdurre tutte le varianti del caso, creando, con soddisfazione sempre crescente, sonetti caudati, rinterzati, doppi, continui, minori e minimi (troverete le relative definizioni su qualsiasi buon manuale a uso dei bienni delle medie superiori, o, naturalmente, in Internet), ma vi assicuro che lo schema base dà già abbastanza da fare e già garantisce, in caso di successo, sufficienti soddisfazioni. È faticoso, certo, ma non più di ammucchiare mattoni, bacchiare le olive, lavorare in miniera o scrivere un giallo quando non si hanno idee in testa, come certamente saprete. Per cui, procuratevi un buon rimario e buon lavoro. Seguirò i vostri progressi con la più partecipata attenzione.

Milano, 3 maggio 2008

Cordialmente vostro
Carlo Oliva

 

18 COMMENTS

  1. Nessun giallista commenta questo scritto? Comunque a me è piaciuto molto. Anche se l’estensione del VOCABOLARIO è una debolezza di molti di noi scriventi. Buona notte

  2. Carlo Oliva aveva perfettamente ragione, mi verrebbe da dire: non ci sono più i giallisti di una volta, ma peccherei di ritrosia. Forse la vera colpa, se così possiamo dire, sta nella poca professionalità. Ed è così in molti settori lavorativi, non solo nell’editoria. Comunque rivendico il diritto di scrittura, ognuno con i propri limiti certo, però leggere e scrivere sono due bellissime passioni, la prima da “vivere” e assaporare in perfetta solitudine, la seconda da condividere con più persone possibili. Ecco perché molti di noi, io compreso, amiamo pubblicare, sui nostri blog, su FB e altre piattaforme, i pensieri e l’emozioni che ci sentiamo di condividere ed esternare al mondo intero. Capisco benissimo che questo non significa essere dei bravi scrittori, meritevoli di pubblicazione. Quindi concludendo, Carlo Oliva punta il dito, a ragione, su chi si crede un talentuoso scrittore, senza magari un briciolo di fantasia, creatività, idee e non ultimo, umiltà. Come dargli torto?!

    P.S. complimenti per il vostro bellissimo sito.

  3. Carlo Oliva, un signore mite e affabile, con un occhio critico implacabile e uno stile da critico militante come se ne facevano una volta. I suoi elzeviri su Radiopopolare erano tra le cose migliori, che si sentivano su argomenti letterari e di società. E questo pezzo credo che ne sia un buon esempio. Di come si può scrivere divertendo e stilettando, parlando di letteratura e di industria culturale, di società e di stile, senza infilare solo luoghi comuni e senza pedali magniloquenti da cattedrattico (con o senza cattedra).

  4. Grande Oliva, sempre acuto, sempre caustico. Non sapevo della sua scomparsa. L’ho conosciuto quando abitavo a Milano (e, Jan, è andato in pensione come insegnante, sì), persona affabile, ricordo che andai a casa sua col basco in testa, mi squadò e disse: “ma guarda un po’, adesso siamo rimasti in due a portare il basco!”

    • Mi prende una grande amarezza, Mauro. E’ andato in pensione come tanti in quegli anni, con 23 anni di contributi (più forse la laurea, il militare eccetera) e probabilmente una pensione più che dignitosa. Ha avuto 22 anni per essere acuto, intelligente, attivo nella società. Io che non sono certo come lui, andrò in pensione da grande anziano col doppio degli anni di contributi, se mai ci andrò, con una pensione insufficiente a sopravvivere: e gli ho pagato la pensione per 22 anni. Mi dà una grande amarezza pensare questa cosa.

      • Poni una questione molto difficile, Jan. Io sono messo come te. Non so neanche quanti altri rinvii ci opporranno gli scherani che ci governano. A quei tempi gli insegnanti andavano in pensione ancora giovani. Un mio caro amico l’ha fatto. 45 anni addirittura. Era giusto? Era sbagliato? Quanto dovrebbe lavorare una persona in una società socialista che prevede il lavoro per i bisogni e non per lo spreco? Non so. Però so che la casta che, in questi anni, ha lavorato con impegno e fantasia per dare a se stessa i privilegi più incredibili, e alla quale paghiamo le superpensioni, mi provoca una tale rabbia che finisco per farmi del male.

  5. L’articolo è stupendo -spero solo che la prole oscura dei carofiglidi non scriva davvero sonetti, se no sai che ne esce…

  6. I classici per me sono quasi generi a sé. Anche perché spesso non rispettano tutte le “regole” del canone. “La cognizione del dolore” di Gadda non mi sembra poi etichettabile come giallo vero e proprio. I classici hanno quel di più da essere – a mio parere – libri d’autore e non soltanto romanzi di formazione, gialli, romanzi autobiografici etc…

    • Bè, ma questo è barare. In coda di lettura ho un giallo Sellerio – di Geoffrey Holiday Hall – che può vantare una introduzione di Sciascia, il quale dice di averlo letto una prima volta e di esserne rimasto impressionato, una seconda volta, e una terza volta a 37 anni di distanza che non ha fatto che confermare il suo apprezzamento (dice persino che gli ha ricordato Faulkner). E’ un classico? Un classico misconosciuto? Ma un classico è un classico se cade nella foresta e nessuno lo sente?
      Non c’è nulla di male nel non sentire affinità verso un determinato genere. Ieri sul blog del Guardian dicevo come Wolf Hall e Bring Up The Bodies di Hilary Mantel, vincitore del Booker Prize 2009 e principale favorito di quest’anno, non mi attirino a causa delle loro premesse (romanzi storici su Cromwell) ma il romanzo immediatamente precedente della Mantel (Beyond Black) è uno dei migliori che ho letto negli ultimi anni, ed ho tutte le intenzioni di esplorare la sua backlist.
      Le “regole” del genere possono essere trita ripetizione che, come certe insistenti canzonette, fa presa su alcuni e irrita altri, ma anche affilati strumenti che possono essere usati in modo originale per meglio inquadrare e irregimentare una visione personale.
      Personalmente ho trovato perle in quasi ogni genere, anche in quelli che mi sono meno congeniali.

      Lo stesso Oliva che ha scritto questo articolo, va detto, di gialli era scrittore, traduttore e appassionato.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Nel 2011 il romanzo noir I materiali del killer ha vinto il Premio Scerbanenco. Nel 2018 il romanzo storico Come sugli alberi le foglie ha vinto il Premio Bergamo. Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.