Atene / Marco Benedettelli
C’è una strada che si dirama a spina di pesce, proprio sotto l’Acropoli di Atene. Una lingua d’asfalto sul dorso di un colle, un’arteria che si irradia in altri vicoli, altri vasi sanguigni. Le vie si otturano contro le pareti marce dei palazzi che squilibrati presidiano lo spazio e gli angoli dei balconi si sbriciolano atrofizzati nell’immobilità del sole bollente di luglio.
Sotto le finestre slabbrate, sul fondo di marciapiedi inondati di spazzatura, oltre un bar piantonato da donne grasse e incappellate con parrucche lucenti e ricciolute, due uomini stanno accostati al portone di una casa, in piedi e tremanti. La loro testa è china, la schiena è ricurva e i singoli dischi delle colonne vertebrali imprimono sulle loro magliette lo scheletrico profilo arcuato dei corpi alla deriva. Armeggiano nei bassifondi della disperazione senza alzare lo sguardo. Poi uno dei due si cala le braghe e i lembi della maglietta continuano a coprirgli le natiche mentre si profila miserevole lo spettacolo delle gambe scure, rinsecchite e cosparse di peli fragili ed arricciati. L’ago di una siringa scintilla fra le loro piccole mani e poi scompare, risucchiato nel vortice che la ritualità dei loro movimenti meccanici innesca. Il silenzio che i due condividono in quell’attimo si fa trepidante, poi arriva una microscopica lacerazione, applicata forse sul glande, o sull’inguine a pochi millimetri dall’attaccatura dello scroto, una puntura acutissima che inonda d’un liquore caldo l’antro dentro cui i due barcollano ciechi.
Una donna ha la pelle d’iguana, dura come il cuoio, lucida di putrefazione. Un reggipetto nero stringe le sue mammelle flosce che le esplodono sotto il mento. Il suo ombelico artatamente scoperto è un miserevole occhio di gallina che trema nell’ombra del porticato di cemento dentro cui la donna, lungo una catena indefinibile di giorni, ha scavato la sua nicchia infernale. Al suo fianco in tre o quattro sbandano e forse sbavano, spettinati, alti e ossuti, spolpati dal vento bollente che evapora dall’asfalto e martoria loro i crani. In un angolo, davanti a un negozio di elettrodomestici sbarrato e alle mensole nella sua vetrina ricoperte di polvere, dei ragazzi immobilizzati per terra fra la vita e la morte sembrano più detriti che naufraghi. Hanno la faccia rappresa in una smorfia gonfia, sprofondano sul grigio duro dei marciapiedi, racchiusi in se stessi come embrioni, schiantati da un veleno radioattivo gocciolato dal sole. Fiotti di pus lavico schiumano dalle fessure del loro futuro frantumato in un manto di brina che ottunde anche la memoria del canto di sirene lunari.
La stessa abolizione del sonno e della veglia scandisce il fluire del tempo all’Hotel Zenith dove i movimenti ristagnano in pozzanghere nelle stanze e lungo i corridoi. All’ingresso, sopra la tettoia dell’hotel, pende imbullonata l’insegna a forma di approssimativo ziggurat. La vetrata del portone è crepata. Le presenze nella penombra fra i palazzi sono poche. La donna all’imbocco della via che porta all’Hotel Zenith tiene la testa sprofondata fra le mani, ha le calze smagliate e una postura spaventosa. È seduta su un gradino e il suo corpo dondola con delle oscillazioni spastiche, dalla fluidità contratta, come una lancetta che ticchetta incantata su un quadrante ridotto a un bubbone, un relitto d’un orologio squagliato da un calore inimmaginabile. La cantilena che la donna scandisce col suo corpo è naif e contemporaneamente straziante. Accasciata sulle ginocchia si copre gli occhi col palmo delle mani e l’assenza del suo volto amputa qualsiasi possibilità di trovare il bandolo della matassa e risalire alle radici di quello strazio. Degli uomini le orbitano intorno come manichini. Poco dopo uno di loro è seduto al posto della donna che nel frattempo è scomparsa. L’uomo ha la scarpa da tennis sfilata e si inietta un ago sul collo nudo del piede.
Un bambino saltella per strada, è di pelle nera, ha i lineamenti dolci dell’Africa orientale, è down. I suoi occhi sporgono dagli zigomi livellati con la fronte e inanellano domande al cosmo attraverso invisibili composizioni geroglifiche. La madre esce da un piccolo locale pubblico, lo raccoglie con tenerezza, arrivano anche altri uomini, sorridono al bambino, gli accarezzano a turno le guance. Lui li guarda con gli occhi all’insù che palpitano gioia, batte i piedi per terra e tiene i pugni delle mani chiusi. Rientrano tutti nel locale, una stanza dentro cui, al di là delle vetrate sulla strada, fra le fessure delle tendine, si scorgono le sagome di giovani uomini africani che bevono il tè e fumano il narghilè. È un circolo di rifugiati sudanesi e nei piani alti dello stesso palazzo mucchi di afgani e di iraniani e di somali dormono gettati in dieci per stanza, in venti, con le persiane abbassate, i corpi nudi, i pettorali rilassati nel sonno e le schiene brune arcuate. Tengono i panni stesi alle finestre decrepite e vasi di piante sui cornicioni. Degli occhi di donna somala, racchiusi in una testa minuta, si affacciano da un balcone e poi si ritirano rapidi.
Un uomo grasso e tarchiato imbocca la via, attraversa il nugolo di tossici, ha lo sguardo illuminato da una depravazione completamente franca e indossa una canottiera. A un metro da lui c’è una ragazzina, gracile, con la pelle colore formaggio. Che i due siano insieme lo si capisce quando squilla la risata di lei, soddisfatta, forse complice, mentre lo fissa. Camminano, lui ancheggia sui fianchi tozzi, lei è emaciata, le traspaiono vene azzurre sulla fronte e sulle braccia, veste con sciatteria, ha gli occhi cerchiati di nero e proprio davanti all’ingresso dell’Hotel Zenith tende la mano quasi con amore al vecchio rospo che le sta vicine e sorride come se il rospo le piacesse davvero. I due varcano la soglia dell’Hotel Zenith mano nella mano, scompaiono dentro. Si spoglieranno, nudi, in una stanza. Lo stomaco di lui, gonfio, i polpacci senza più peli, lo sguardo trasognato, le sacche di grasso giallo sotto il mento. E lei, con il ventre cadente che restituisce un’impressione di morbidezza, e le porzioni di pelle bucherellata sulle braccia, che raccoglie i soldi, prima di salirgli sopra.
[Racconto tratto da La regina non è blu di Marco Bendettelli, Gwynplaine, 2012]
letteratura.
complimenti all’autore.
b!
Nunzio Festa
un bellissimo libro di racconti quello di Marco Benedettelli
complimenti Benedettelli! un pezzo virtuoso e notevole!
Grazie mille! :-)
Atene, Roma, Londra, Parigi, Berlino, Madrid…La storia è la stessa: c’è sempre qualcuno che è costretto a “bucarsi in un angolo di dolore” (Carboni)…Bravo Benedettelli!