Intervista-dialogo con Lello Voce intorno a una concezione pluriversa della poesia

a cura di Andrea Inglese

… dove si parla di oralità, avanguardia, poetry slam, ibridazioni, arti poetiche…

Come è nato il progetto di “Piccola cucina cannibale”, che si presenta come un libro di poesia musicata a fumetti? Libri di poesia accompagnati da CD audio oggi non sono rari, ma libri di poesia a fumetti non mi sembra di averne ancora visti, al di fuori del tuo.

Sono ormai più di vent’anni che faccio ‘spoken word’, poesia ‘oralizzata’, e dunque il mio rapporto con la forma libro è necessariamente più complicato, complesso, di chi si limita a scrivere versi (e magari a pronunciarli sul palco, in occasione di questo, o quel reading).

Il testo scritto è per me solo una parte di ciò che chiamiamo usualmente poesia, sta in luogo piuttosto vicino a quello che occupa uno spartito per un musicista, per quanto il linguaggio verbale abbia un codice scritto singolarmente povero per tutto quanto riguarda la sua esecuzione, visto che poi ogni lingua è prima di tutto un evento sonoro, che lo scritto si limita ad alludere, o a codificare in modo spesso piuttosto lacunoso.

Per altro verso il libro, così come lo intendiamo noi oggi non è sempre esistito, né è l’unica forma attraverso cui può essere comunicato un testo scritto. Anzi probabilmente il libro cartaceo (che pure è a mio parere oggetto tecnologicamente ancora efficacissimo) oggi è in profonda crisi e non tanto per la concorrenza degli e-book (che ne mimano la forma, virtualizzandola) quanto per la presenza di Personal Computer e Rete.

La rete e i social network hanno evidenziato una caratteristica sinora ignorata dello scritto: la sua possibile impermanenza, il suo essere liquido, pensa alle chat, o al flusso enorme di scritti che costituisce l’evanescente, ma formidabilmente solida struttura di Facebook.

Tutto ciò accade proprio nel momento in cui l’oralità acquista – grazie alla sua possibile registrazione, analogica e digitale – quella ricorsività, e capacità di essere conservata, che prima era solo dei segni scritti. Quasi che si stesse passando da una società dello ‘scripta manent, verba volant’ ad una del ‘verba manent, scripta volant’.

Ovviamente il libro è al centro di tutte queste dinamiche, di questo ‘migrare’ dei segni e delle arti. Intanto si accoppia da un po’ di tempo con un supporto sonoro, prima le audiocassette, poi i CD audio, oggi basterebbe un link per interfacciarlo in Rete.

Sarebbe interessante, ma non è questa la sede, indagare un po’ sulle reciproche relazioni che si stabiliscono tra scritto ed orale in caso di supporti di questo tipo, supporti che definirei ‘transgender’. Farsi qualche domanda. Tipo: come si usano? Si legge prima il testo? Si ascolta il CD? Si legge, ascoltando?

Ognuno ha ovviamente le sue risposte, ma queste mi sembrano domande interessanti, innanzitutto perché tendono a destrutturare la ‘forma libro’, a renderla ‘mutante’.

Se può interessare il mio parere, io credo che, per cose come le mie, l’ascolto venga prima della lettura, perché nell’ascolto sono racchiuse tutte le forme artistiche dei miei testi, tanto quella linguistica, quanto quella sonora, a maggior ragione da un quindicennio in qua, da quando cioè, ho iniziato a lavorare stabilmente anche con la musica. Né credo ai luoghi comuni per i quali la profondità e la complessità linguistica siano solo dello scritto. Basta un’occhiata alla vulgata della linguistica antropologica (Hagege, per esempio) per convincersi del contrario.

In generale mi piacerebbe fare soltanto dei dischi, con il loro booklet ovviamente: credo che la ‘forma disco’ sia la più appropriata per me.

Per altro verso, come sempre, i nostri desideri cozzano contro la realtà: mi si propone di far libri, per lo più, sono un poeta, etc etc…

Allora nasce la curiosità di forzare la forma il più possibile, di espanderla, mutarla. Usarla a sproposito, se vuoi. A maggior ragione se si tratta di poesia, che è arte ‘amichevole’ per eccellenza, è un’interfaccia molto friendly, spesso disposta a sposarsi con l’altro da sé.

A parlarmi per la prima volta di Poetry comics è stato, circa due anni fa, Claudio Calia, vecchio amico ed ottimo autore di fumetto. Aveva scovato un numero di “Poetry” con la presentazione dei primi tentativi effettuati in questo senso da alcuni autori americani che ci sembrarono subito molto interessanti e stimolanti.

Il fumetto mi ha sempre affascinato, pur non essendo un esperto, mi ha sempre conquistato la sua duttilità, la sua ‘dinamica’ non necessariamente bustrofedica, la sua capacità di fondere così bene parole e immagini. Ho sempre pensato che avesse molto a che spartire con la complessità e ricchezza di fruizione che accompagna i testi poetici. E sono molto affascinato dalla libertà, dalla passione dalla profondità con cui il fumetto moderno riflette sulle sue forme, e le flette, le muta, le mette alla prova. Ben più che non la letteratura.

È  nata così la complicità con Claudio e la decisione di tentare la prima esperienza di Poetry Comics italiana. Ciò avrebbe, inoltre, permesso di iniettare germi mutageni nella forma libro…

Credo che ci siamo riusciti: un solo titolo, tre autori (io, Calia e Frank Nemola per la generalità delle musiche, ma tanti altri, così da trasformare il tutto in un’opera invero collettiva), tre differenti medium di trasmissione (grafico, linguistico, sonoro-musicale), messi a regime insieme (dalla forza centripeta delle parole, della poesia, che è sempre sul proscenio) e costretti, proprio perché condomini, a sviluppare al massimo le loro singole peculiarità.

Da questo punto di vista PCC è un libro solo in senso lato: in realtà vorrebbe essere una ‘macchina celibe’, che dissipa sensi, dissipa forme (grafiche, linguistiche, sonore), ma che, proprio grazie a questa sua entropia, apre varchi nella rete di convenzioni (estetiche e sociali) che ci avviluppa.

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Tu vieni da un’esperienza che è quella del gruppo ’93 e dalla direzione di una rivista militante come “Baldus”, che si situava in rapporto critico, ma fondamentale, con le avanguardie novecentesche. Successivamente, se non sbaglio, tu parlasti di “avant-pop” e iniziasti a percorrere una via, che mi sembra essere ancora quella odierna di avvicinamento della poesia a forme di musica più popolare, come il jazz, il rap e oggi a forme d’arte visiva come il fumetto. Che ragioni dai di questa scelta? Trovavi che fosse esaurita la stagione della poesia sonora, delle sperimentazioni più “difficili” tra poeti e musicisti colti?

Non credo che si possa individuare nel mio sviluppo formale e poetico una svolta netta come quella che tu qui proponi.

Da sempre in Baldus ci siamo posti oltre certe opposizioni meccaniche. Già all’altezza delle inaugurali Tesi di Portici, dichiaravamo esaurito il bipolarismo Avanguardia/Tradizione, poi Biagio Cepollaro propose di parlare per noi di Postmodernismo critico, nozione accettata da anche da me e sviluppata poi in uno scritto per Allegoria in cui parlavo di Tradizione come genealogia delle Avanguardie. L’aporia dell’avanguardia che finisce in museo, su cui ha tanto riflettuto Sanguineti, è forse aporia di sempre, è condizione stessa dello svolgersi storico dell’arte, di tutte le arti. È, per l’appunto, il segno stesso del loro essere ‘forme storiche’ e, probabilmente, anche storicizzabili.

Il tentativo è stato sempre – almeno per me – quello di ricostruire la possibilità di una comunicazione, che però fosse contemporanea e complessa, non appiattita e monodimensionale come quella della postmoderna società dello spettacolo, o dei neo-orfismi liricheggianti che da decenni impazzano in Italia.

La ricerca formale per me è stata sempre un aspetto di una più generale ricerca tesa a ‘comunicare’, a comunicare in modo complesso, ricco, profondo, certo, ma anche tendenzialmente generalizzabile.

Si scrive sempre per un popolo che non c’è, come direbbe Deleuze, ma si scrive, appunto, per un popolo, mai per una élite… Il modello è stato il Convivio dantesco, direi.

Non suoni polemico: in realtà resto piuttosto freddo di fronte a divisioni così nette tra cultura ‘alta’ e cultura ‘popolare’, non ho buoni rapporti con Adorno, sono certamente migliori quelli con Benjamin e Bloch. Dell’Avant-pop mi affascinava proprio la possibile comunione di termini e ambiti apparentemente inconciliabili.

Le Avanguardie, peraltro, hanno sempre avuto un ottimo rapporto con le culture e le forme ‘pop’, quelle storiche, evidentemente, ma anche le Neo.

Vale per il Concretismo brasiliano (da Haroldo de Campos in avanti, sino alle splendide realizzazioni di Arnaldo Antunes) ma anche la Neo-avanguardia italiana, pure estremamente letteraria, è probabilmente più pop-friendly e multimedial-friendly di ciò che normalmente si creda.

C’è un’ombra sanguinetiana (ma vale anche per Giuliani) che non fa vedere abbastanza altro: dal multimedialismo accentuatissimo di un autore come Balestrini, all’oralità di Pagliarani mentre lo stesso Porta preconizzava un ritorno della voce e creava ottima poesia visiva.

Per non parlare dei più giovani, o più laterali: Da Costa a Spatola, a Vicinelli e Niccolai.

Definiresti Frank Zappa un autore ‘pop’? O Demetrio Stratos? O Miles Davis, Charlie Parker? Operazioni poetiche che si fondono volentieri con la musica, come quelle di Haroldo ed Augusto De Campos, di Horacio Ferrer, di Gil Scott Heron, John Giorno, o Linton Kwesi Johnson, sono cultura pop? E se lo sono, questo toglie qualcosa all’enorme impatto di rinnovamento che hanno avuto in ambito poetico e musicale?

Se mi si concede l’anacronismo, Arnaut era un trovatore, come Raimbaut, cantava, o meglio scandiva i suoi testi, ma si farebbe fatica a definirli esponenti di una cultura ‘pop’, eppure il loro canto monodico ne faceva, in qualche modo, autori che sarebbero risultati sospetti alla successiva esperienza musicale ‘colta’, spiccatamente polifonica .

A dispetto delle sue evidenti novità formali, una pièce come Sei personaggi in cerca d’autore gode da sempre di un grande successo di pubblico.

Può darsi che la Szymborska sia l’epifania della trasparenza, come crede Carabba, ma a me pare che abbia anche un impatto rivoluzionario e rinnovatore sulla tradizione polacca, magari non radicale come quello di Rosewicz, ma comunque evidente.

Mi rendo conto che in musica la separazione tra ‘pop’ e musica cosiddetta ‘colta’ è ancora piuttosto netto, per altro verso è innegabile che generi come il jazz, il rock e il punk-rock, il rock-progressive e per alcuni versi anche l’hip-hop abbiano prodotto risultati che implicano e inglobano in sé un livello di riflessione formale di altissimo livello.

So bene che la musica è andata ben oltre la ‘tonalità’, ma a me interessa molto, per le ragioni espresse prima, e quindi per la sua maggiore comunicabilità, lavorare su di essa, tentare un equilibrio nuovo tra parola e musica tonale, che non sia canzonetta, ma integralmente poesia. Far questo in una lingua ‘piana’ come l’italiano, che dunque non ha chiuse forti da accoppiare alle chiuse delle frasi musicali ‘tonali’, pone problemi pratici, formali e teorici piuttosto ardui, a maggior ragione se non si intende cantare, ma ‘scandire’, come credo debba fare la poesia.

L’innovazione formale non è sempre appannaggio di operazioni di nicchia, né fare operazioni di nicchia è garanzia che quello che si fa sia davvero ‘nuovo’, efficace, sperimentale.

Né credo sia corretto parlare di fumetto come arte pop: come accennavo prima, la riflessione formale, sui linguaggi, in atto oggi nel fumetto è anni luce avanti a quella che riesce a esprimere la prosa di romanzo, credimi… Fare Poetry comics significa sperimentare, non cercare un flusso mainstream in cui inserirsi.

Penso che questa ossessione ‘alto-formale’ e spesso ‘formalmente letteraria’ sia qualcosa che spinge alcune sperimentazioni e neo-avanguardie poetiche in campo simbolista. È una ricerca della forma per la forma che è fortemente ed evidentemente connotata storicamente. E non appartiene a Dada, piuttosto a Mallarmé e a D’Annunzio.

Con movimento paradossalmente identico, le collaborazioni di certi autori ‘sperimentali’ con la musica colta ne hanno fatto in realtà dei librettisti, come Sanguineti con Berio. Niente di male, ovviamente. Ma non è quel che intendo fare io. Io intendo ‘trobar’: la musica è parte integrante della mia ricerca poetica è una delle sue ‘forme’, anche quando nasce dalla collaborazione con musicisti veri e propri, come Nemola, Fresu, Salis, o Loguercio.

Insomma, il problema non è essere canta-poeta, ma far sì che la musica che si esegue sia già nella poesia, nei suoi ritmi, nelle sue melodie. È la musica che deve temperarsi con la parola: il Laborintus di Berio-Sanguineti è un’opera musicale, di cui Sanguineti è librettista, il Laborintus scritto è una splendida poesia di Sanguineti, una poesia nata per essere letta in silenzio, su carta.

Io non voglio scrivere testi per musica, fare il librettista, io cerco (insieme ai miei complici) la musica acconcia per le mie parole, musica per testi, anzi per orature. Cerco un nuovo ‘temperamento’ tra musica tonale e poesia contemporanea, dunque mi pongo problemi di metrica, di ritmo, di melodia, in una parola, di ‘durata’. Mi interessa riportare la poesia nel tempo.

Non credo certo che oggi sia possibile una poesia ‘orale’, tout court, ma mi piace lavorare sull’oratura dei testi scritti, sulla loro oralizzazione poiché ritengo che, per esistere davvero, una poesia debba essere comunque ‘eseguita’, fosse pure a mente, da un lettore.

La scrittura, infine, quella che utilizziamo per comporre poesia, è composta di ‘fonogrammi’, tutto nasce da un suono. E potrei continuare a lungo, magari annoiando te e gli eventuali lettori, preferisco rimandare tutti qui [http://www.inpensiero.it/archives/771 ], è uno scritto un po’ lungo, ma confido chiaro ed esplicito.

Non c’è nulla di ‘più facile’ in tutto ciò, anzi a me sembra faccenda piuttosto complessa.

Né ciò che faccio credo possa essere definito poesia sonora, si tratta di tutt’altro.

Credo fermamente all’affermazione di Zumthor che sostiene che in poesia non c’è parola senza voce, ma credo altrettanto che in poesia non ci sia voce senza parola.

Questo mi allontana radicalmente dalla poesia sonora, almeno da quella più ‘concreta’, penso, uno per tutti, ad Henri Chopin. Ma non credo affatto che essa sia morta, basti pensare alla indubbia qualità di esperienze contemporanee come quelle di Giovanni Fontana, Massimo Mori, o Enzo Minarelli e lo stesso Lamberto Pignotti, quando si dedica alla performance. Ed apprezzo profondamente il lavoro di molti poeti sonori nel mondo. E’ una ricerca diversa, tutto qua.

*

Come consideri, oggi, al di là del tuo lavoro, il panorama italiano in termini di contaminazioni tra generi, partendo soprattutto dalla scrittura poetica? È possibile individuare delle tendenze? Delle opzioni di fondo, tra i poeti che più spesso collaborano con altri artisti, musicisti o meno?

Il mio parere al proposito è piuttosto pessimista. Inutile ripetere qua cose già dette, più facile, visto che siamo in Rete, rimandare al mio intervento sul Corriere, qua [http://www.absolutepoetry.org/Voglio-vivere-in-un-altra-lingua ], e a quello su Satisfiction, dedicato alle nuove generazioni poetiche, che invece ora è qua [http://www.absolutepoetry.org/L-Italia-dei-poetini-di-Lello-Voce ].

A parte i fenomeni di trasformismo più smaccato su cui lasciami stendere un velo, o i dilettantismi sguaiati, su cui di veli ne stenderei due, credo che molto di buono ci sia e continui a svilupparsi, anche a livello editoriale.

Non sembri interesse privato in atti d’ufficio, ma mi pare che – ad esempio – quanto ha realizzato Andrea Cortellessa con la sua collana Fuori formato presso Le Lettere sia di eccezionale importanza, non solo perché ha finalmente messo a disposizione di tutti una messe enorme di scritti e materiali multimediali di autori importantissimi, ma censurati dall’editoria mainstream (Villa, Spatola, Vicinelli, Costa, Reta, Niccolai), ma anche per quanto ha saputo proporre di autori contemporanei, o comunque delle generazioni più recenti, Ottonieri, il romanzo di Baino, Bukovaz, Ventroni, giusto per fare qualche nome. Da tempo una rivista come inpensiero di Gianmaria Nerli porta avanti una ricerca internazionale appassionata e interessantissima, molto attenta alla contaminazione tra generi; festival come La punta della lingua, di Luigi Socci (poeta di valore anche in proprio) aprono spazi nuovi a nuove esperienze; gli Sparajurji e i loro Atti impuri continuano ostinatamente a cercare l’ago più pungente nel pagliaio di poetiche ed ipocrisie formali in cui ci dibattiamo, e poi l’opera individuale di tanti, meno giovani, Frasca, Lo Russo, la stessa Gualtieri, pur lontana da me a livello di poetica, Luigi Cinque con la sua ricerca sul ‘Cunto’ e le Identità selvagge, e più giovani, penso a Nacci, Garau, Raspini, Daino, Cera Rosco, Simonelli, Padua, Carrozzo, Bukovaz, la stessa Molebatsi, sudafricana, ma per lungo tempo udinese, per stare stretti al coté ‘orale’, o comunque di ‘contaminazione’ e potrei continuare a lungo, non se ne abbia a male chi non è citato.

Insomma la poesia italiana è viva, anche e soprattutto a livello di esperienze inter-mediali o, per usare una brutta parola, performative, ma la mancanza di spazi e occasioni rischia di ucciderla: la chiusura della collana di Cortellessa è segnale cupo, preoccupante.

Per quanto riguarda le tendenze in atto, il discorso è più difficile. Com’è in fondo comprensibile, la trasformazione mediale, la migrazione formale di cui è protagonista la poesia contemporanea, fanno sì che gli autori siano concentrati soprattutto sulle caratteristiche estetiche e comunicative del/dei medium. Non è tempo di manifesti, per noi, quanto di esplorazioni e di ricerche. Poi è evidente che, a guardar bene, anche se sia io che Gualtieri, o Lo Russo, per fare un esempio, apparentemente lavoriamo molto ‘vicini’ (sull’oratura), poi le differenze sono lampanti a livello di risultati finali.

Credo ovviamente che questa diversità sia una ricchezza, soprattutto a questo stadio di sviluppo della ricerca, ma è altrettanto evidente che gli equivoci sono acquattati dietro l’angolo, ma questa non è colpa dei poeti, piuttosto di una ‘critica ad una dimensione’, incapace di essere altro che filologia, in grado di studiare solo il testo e a volte neanche quello.

Questo non basta più, imho: occorre la nascita di una critica ‘poetica’, non solo letteraria e dunque non strettamente testuale.

Questo ci aiuterebbe (prima di tutto noi autori) a far chiaro su tendenze, orizzonti, possibilità, ma mi pare proprio che l’aria non sia questa, anzi tutto è più accademico che mai, o piuttosto integralmente giornalistico, nel mezzo (nel luogo cioè della ermeneutica vera, quella che fa i conti con il contemporaneo e ha nostalgia del futuro) mi pare ci sia poco, o nulla e gli studiosi più coraggiosi (Cortellessa, Giovannetti, Marrucci, La Via, Bello Minciacchi, Pianigiani, Manganelli, Zuliani, Barbieri, per fare qualche nome alla rinfusa, mescolando letteratura e musicologia) scontano spesso una solitudine e una noncuranza desolante.

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Tu sei stato anche uno dei promotori dei Poetry Slam in Italia. Ho l’impressione, ma magari mi sbaglio, che la fase di gran successo della “forma Slam” sia in declino. Insomma, magari è passata la moda, il che non significa che la “forma Slam” in sé sia esaurita. Tu che bilancio fai di questa esperienza? Premetto che io non ho nessun a priori contro la “forma Slam”. L’impressione, però, che me ne sono fatto, considerando la mia limitata esperienza, soprattutto italiana, è che non sia una forma che permetta grandi sviluppi o sorprese sul piano artistico e poetico. Ma questo è ovviamente vero anche delle tradizionali e più monotone letture di poesia, che comunque si continuano a fare.

Credo anch’io che il Poetry Slam italiano sia in crisi profonda, e proprio nel momento in cui in Europa e nel mondo sta dimostrando tutta la sua capacità di stimolare e veicolare ‘forme’ poetiche nuove. Ma non tanto perché stia diminuendo la sua diffusione, anzi, si fanno sempre più Slam, a quanto vedo, o comunque imitazioni di ciò che io chiamo Slam.

No, il problema è altro: è la qualità, non solo la qualità delle poesie, ma proprio la qualità del medium, o se vuoi, del format.

Ovviamente questa è innanzi tutto un’autocritica: ho diffuso io per primo in Italia questa forma di spettacolo poetico e dunque non intendo certo tirarmi fuori dal mucchio.

Intanto non siamo stati capaci di sviluppare la ‘federatività’ dello Slam, un circuito vero e stabile che avrebbe, da sé solo, facendo da punto sinergico, da pettine a cui tutti i nodi sarebbero venuti, provocato un innalzamento dei risultati formali e poetici.

Tutto è rimasto molto disgregato, improvvisato, isolato dalle esperienze vicine. Questo ha fatto sì che lo Slam si diffondesse moltissimo, ma che non facesse ‘rete’, ciò lo ha reso spesso localistico, provinciale, invece che glocale e capace di tirar fuori il meglio che il mainstream escludeva.

Poi l’ubriacatura derivata dal suo successo ha indotto molti a svenderlo: da chi lo offriva come advertisement pubblicitario per la Mazzantini, a chi montava un ring sul palco, ad altri, molti altri, come costoro che ora vanno in giro a fare il Campionato italiano di poesia orale, che non hanno esitato ad affiancare alla giuria popolare una giuria di esperti, trasformando un’esperienza radicale come lo Slam in una sorta di ‘estemporanea di poesia’, in cui a decidere alla fine è il giudizio di questo, o quel maggiorente di parrocchiette poetiche spesso piuttosto piccole.

Si è molto puntato sulla competizione (dunque sui singoli poeti), assolutamente meno sulla comunità (dunque sul coinvolgimento attivo e responsabilizzante del ‘pubblico’), e potrei andare avanti a lungo.

Ma lo Slam italiano non è ancora morto e può dare ancora moltissimo, se ne fanno ancora di ottimi: paradossalmente gli stessi che hanno Slammato per la Mazzantini gestiscono un ottima venue di Poetry Slam a Torino, Poeti in Lizza, se ne sono fatti e se ne fanno di dignitossimi e spesso ottimi a Ancona, Trieste, Bolzano, Roma, Milano, Varese, Monza, ecc..

Certo che hai ragione quando sottolinei una crisi: forse è arrivato il momento di iniziare a riflettere tutti su modi, tempi, luoghi, prospettive dello Slam, che altrove già corre verso il futuro.

L’Europa e il mondo rischiano di lasciarci ancora una volta fuori della porta…

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Come consideri, invece, l’esperienza di collaborazione con un video-artista come Giacomo Verde? Qui ti sei situato, mi sembra, su un terreno la cui ricezione, per l’Italia, è più difficile, e diciamo meno assimilabile a forme d’arte più pop. Ti sembra che esistano altri poeti che hanno lavorato in questi anni nella stessa direzione, o in ogni caso in collaborazione con artisti visivi?

È stata ed è una parte molto importante del mio tentativo di concepire la poesia come arte complessa, pluriversa, come avrebbe detto Francesco Leonetti.

Penso che il trittico di video “È  meglio morire, che perdere la vita”, contenuto nel dual disc che accompagna L’esercizio della lingua, sia per me un punto di arrivo importante, anche perché ha potuto contare sui disegni (decine e decine di disegni originali) di un autore bravissimo come Robert Rebotti.

Ma anche in questo caso vanno fatti dei distinguo: io ho collaborato con Verde sin dall’inizio, chiedendogli di realizzare innanzi tutto delle video-scenografie live per le mie letture di poesie.

La prima volta in pubblico è stato a Venezia Poesia, accompagnati dalla tromba di Paolo Fresu, credo fossero i primi anni ’90.

In questo caso la funzione del video era molto particolare, sinergica, accompagnava e sottolineava il ritmo dello spoken word e i suoi contenuti più decisivi.

Al di là della mia storia personale, noto che questa è modalità che si è poi diffusa ampiamente.

Altra cosa è una video-poesia, un’opera che avendo per base una poesia, sviluppa poi forme video autonome, come nel caso del trittico che citavo prima, la cui autorialità resta, a mio parere, prima di tutto del regista, cioè di Giacomo Verde.

Altra cosa ancora sono le esperienze di ‘clip-poema’ come le definirebbe Augusto De Campos, che le pratica da decenni e decenni, in cui è il poeta stesso a scegliere, realizzare e montare le immagini.

La situazione è piuttosto complessa, come vedi, e a complicare le cose sono arrivati i cosiddetti book-trailer, prodotti di mercato, per il mercato, spesso puro advertisement. Ovviamente si possono fare ottimi book-trailer di libri di poesia, ma infine un book-trailer è una cosa ben diversa da una video poesia.

Questa confusione genera mostri come certe esperienze imbarazzanti, anche di poeti di valore, di cui non faccio nomi perché li ho già fatti altrove e sembrerebbe accanimento.

In ogni caso il fenomeno, in realtà, ha diffusione vastissima nel mondo ed ha una capacità di coinvolgimento molto ampia, anche di nicchie tendenzialmente sorde alla poesia: il numero impressionante di submissions ricevute ogni biennio dal tedesco Zebra Poetry Award, il più importante in Europa, e il vastissimo concorso di pubblico nei giorni della rassegna ne sono testimonianza. Ma ricordo anche il romano Doctor Clip che ha presentato prodotti ottimi.

Anche in questo caso ciò che latita, almeno in Italia, è la capacità ermeneutica, la voglia, da parte di critici e studiosi di percorrere strade nuove, lontane dai libri, ma non dalla poesia.

Per quanto riguarda i nomi – fatto l’omaggio dovuto a un innovatore indimenticabile come Gianni Toti – devo ripetere quello di Giovanni Fontana, in tandem con Antonio Poce, del gruppo Sparajurji,  di Caterina Davinio, di Minarelli, per restare stretti a un ambito più strettamente poetico, ma se mi spostassi in ambito di autori video l’elenco sarebbe ben più lungo.

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Tu sei stato animatore culturale e, sopratutto, hai diretto un festival di poesia. Che visuale hai, dopo tale esperienza, del rapporto tra artisti e istituzioni? Concretamente, che cosa è possibile fare per promuovere, con delle istituzioni pubbliche, e magari degli sponsor privati, proposte legate alle industrie culturali?

Qui è tutta la radice (politica ed economica) di molti dei mali di cui abbiamo discusso.

Da decenni ormai la politica italiana concepisce la cultura quasi esclusivamente come una macchina per produrre consensi e fare incetta di voti. Ciò fa sì che le nicchie si chiudano, che la ricerca e la qualità siano ignorate e a volte dileggiate, che le differenze siano esiliate.

La crisi economica, qui da noi più, molto più che altrove, non ha fatto che potenziare queste dinamiche distorte.

Si sta mettendo in moto un meccanismo di ‘trust’, di cartello: come in ogni crisi che si rispetti sopravvivono solo gli eventi più grandi, gli altri, cioè le diversità, spariscono.

Da questo punto di vista, penso che la modalità Occupy sia attualmente la sola praticabile, a meno di qualche miracolo, per produrre e gestire arte e cultura davvero indipendenti in Italia, utilizzando (o, meglio, recuperando, riciclando, trasformando) spazi pubblici e privati e sono per questo molto interessato ad esperienze come quella del Teatro Valle, o di Macao a Milano, ma anche a molte altre meno note, come S.A.L.E. a Venezia e tante, tante simili che stanno avvenendo in tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia.

Credo però che ancora non siamo stati capaci di ‘radicare’ realmente tutto ciò a livello politico e sociale. Credo, cioè, che dovremmo ripensare il presente con la memoria del passato più recente, quello dei CSO, nati da pulsioni prima di tutto politiche, ma che poi hanno sempre integrato le arti in maniera piuttosto efficace. L’esperienza del Nord Est è al proposito esemplare, anche se so bene che è stagione finita: le nuove da Berlino non fanno che confermarlo a livello anche europeo.

Questa è la prima volta che a partire sono gli artisti in prima persona: c’è una grande ricchezza in tutto ciò, ma anche un grande pericolo, se non sapremo rendere il nostro agire integralmente ‘politico’, cioè condividerlo con la polis.

Credo che l’arte sia non solo un ‘bene comune’, ma, oggi più che mai, un bene ‘di prima necessità’, sta a noi, però, se crediamo a questa tesi, far sì che essa sia compresa da porzioni sempre più vaste della società, altrimenti avremo perso, per l’ennesima volta, una grande occasione.

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Su un punto da te toccato, vorrei replicare con una considerazione personale. Già un paio di anni fa, in un saggio che si può leggere su NI (I parte e II parte), ho proposto di ridefinire il campo della “poesia” con la formula “arti poetiche”, prendendo lo spunto da un amico poeta e editore francese, Michaël Batalla. Con questa proposta intendevo a mio modo difendere la concezione plurale e pluriversa della poesia, di cui anche tu parli citando Leonetti. Premetto, che la difesa di questa pluralità di dimensione e forma non è vista in un’ottica gerarchica: siccome la poesia per lettura silenziosa ha prevalso sulla poesia dell’oralità, allora invertiamo semplicemente i termini della gerarchia. Per me non ha senso dire che la poesia del XXI secolo deve essere più orale o più scritta, o deve totalizzare la forza della forma scritta e quella dell’energia orale, tanto per dire… L’idea delle arti poetiche, o semplicemente di “poesie” irriducibilmente plurali, pone secondo me tre questioni. Dal punto di vista dell’autore, di colui che fa ricerca nel campo poetico, si tratta di capire cosa più gli interessa fare e dove la sua ricerca si dimostra (innanzitutto per lui stesso) più efficace. Dal punto di vista critico, ciò che importa è valutare quali sono le realizzazioni più significative, importanti, all’interno di filoni diversi. Il problema non sta nel “preservare” la specie in estinzione poesia sonora, mettiamo…, ma nel chiedersi qual è oggi un poeta che fa apparire la poesia sonora come una forma potente, necessaria. Quanto al pubblico, è importante che esso possa avere la possibilità di incontrare la poesia sotto le fogge più diverse: nella plaquette, nell’oggetto-poetico-visivo, nella dimensione della poesia orale o cantata o ritmicamente scandita, o performativa, o multi-mediale, o installativa… Poi starà al pubblico, che è sempre eterogeneo e plurale, di reagire rispetto a questa pluralità di espressioni.

E su questo punto vorrei concludere. Tu hai fatto un’esplicita autocritica riguardo alla frammentazione dell’esperienza dello Slam poetry, che non ha permesso di creare una rete più stabile e articolata in Italia. Io sarei tentato di vedere in questa vicenda uno snodo culturale importante. Lo Slam poteva essere una proposta, capace di trainarne altre più articolate, legate a sperimentazioni e ibridazioni mediali, che andassero ben oltre la forma Slam. Così non è stato, e anzi nello Slam ha prevalso spesso l’aspetto più da intrattenimento, da cabaret televisivo. Parlo ovviamente del “format”, non della qualità o meno dei singoli partecipanti. Certo, è facile a posteriori dire che cosa si sarebbe dovuto fare. Ma a mio parere si è scelta una sorta di scorciatoia. Con quale risultato, oggi? Che siamo un po’ di nuovo al punto di partenza. E i tuoi interventi polemici a difesa della spoken poetry e della dimensione orale della poesia me lo confermano. Invece di aver “familiarizzato” il pubblico con la pluralità delle arti poetiche, siamo solo al declino dello Slam, o della sua “moda”, e dobbiamo nuovamente ricordare che la poesia non è solo quella roba scritta.

Ovviamente, non dico questo per affibbiarti qualche hegeliana responsabilità epocale. Primo, perché non è detto che una proposizione del fronte più articolato della poesia avrebbe incontrato interesse da parte di istituzioni, finanziatori, e pubblico in piazza. Secondo, perché si tratta di dinamiche culturali mai riconducibili alla volontà di un singolo, e che riposano su condivisioni ampie e collettive. Lo dico, semmai, perché ho la speranza che riprendere le fila di queste riflessioni e di queste pratiche, permetta di imparare dagli errori o dalle difficoltà incontrate in passato.

Credo che tu abbia ragione due volte.

La prima quando parli della necessità di non sostituire gerarchie nuove a quelle vecchie: il problema non è negare oggi alla poesia “muta” quella legittimità che da decenni essa si ostina a negare a quella “oralizzata” (e questo è dato di fatto, filologicamente inoppugnabile), il problema è precisamente quello di una complessità della forma poesia che oggi è la sua caratteristica principale e la sua principale qualità. L’ho detto chiaramente e molte volte, ultimamente nel corso di un lungo dibattito in rete con Daniele Barbieri.

Le scomuniche servono a poco, evidentemente, vale per me, ma vale anche per coloro che pensano di poter escludere certi autori dai loro ‘canoni’ proprio perché, facendo spoken word, a loro parere, sarebbero poeti “easy”, o “spettacolari”.

Per altro verso sarei più prudente nell’uso della parola “pubblico”, proprio perché è oggi importante iniziare a riflettere con acume e attenzione sulla poesia. La poesia ‘muta’ non ha pubblico, ha lettori. Va benissimo, ovviamente, ma non possiamo ignorarlo, se vogliamo analizzare correttamente il “pluriverso” poetico odierno.

Hai poi ragione di nuovo quando ti riferisci allo Slam: abbiamo perso, o stiamo perdendo, una grande occasione, ci sono responsabilità di tutti, mie, di chi ha pensato di poter svendere lo Slam alla prima Mazzantini di passaggio, di chi monta ring sul palco, di chi si inventa giurie di esperti, ma anche di chi ha opposto un rifiuto bigotto, di chi ha giudicato sulla base di preconcetti polverosi, ecc… Ma poi credimi, certo Slam sta benissimo, di Slam se ne fanno a iosa, anche troppi e molti magari di pessima qualità.

Ciò non toglie che lo Slam è stato un momento importante nelle dinamiche poetiche ultime, esso ha riportato all’attenzione di moltissimi che esiste un aspetto “orale”, “performativo” della poesia e che esso ha piena legittimità, innanzitutto formale.

Certo è che se non saremo capaci di rimetterci a riflettere insieme, nella diversità, ma con attenzione e curiosità per l’altro, senza farci sconti e senza farne ad altri, a nessun altro, difficilmente l’azione di un singolo, di una rivista, di un blog, potranno da soli cambiare le cose.

Ci serve fare rete. Comprometterci con l’altro, litigare, riflettere, perché la poesia nel mondo sta cambiando marcia, e mentre soffia il vento e infuria la bufera, lo sai, spesso, di colpo, gli esseri umani si accorgono di quanto, nonostante tutto, la poesia sia un bene comune di prima necessità. Un diritto che va, come avrebbe detto Pagliarani, ‘esercitato’ ed esercitato nella sua pienezza, formale, ma anche politica ed etica.

32 COMMENTS

  1. Ossessionata dalla Sinestesia, non posso che ringraziare e concordare.

    PCC non solo spalaca e allarga – poeticamente – il *recinto del cuore* di Kleist, ma incarna [proprio per multisensorialità] un multiverso comunitario.
    All’eccellenza dell’audiolibro [penso a Ossa Carne di Dome Bulfaro con traduzione di Cristina Vita] si aggiunge il fumetto, Arte sorella della Poesia [frequentare fumettisti per credere].

    Il miracolo è concertare Artisti [non tanto le Arti] carismatici in un “atto plurale”: e qui, m’inchino.

    E ancora: doveroso chiosare il capitolo *Slam*. Lo *stress termico* che evidenzia la frattura tra *chi sa* e *chi improvvisa* è mortale e mortifero. Eviterò anch’io riportare nomi [sia mai che mi denuncino…], ma trovo sia apoteosi del Kali Yuga reintepretare le regole ad usum proprio: alzate di mano come nei peggiori contest di tribute band [chi porta più amici vince]; tesseramento arci OBBLIGATORIO; elenco dei piatti a base di rucola serviti nel locale; abusato fattore karaoke…

    Sad but true. Sic! Sigh!

  2. Lello ha citato diversi poeti legati all’oralità.
    Io, sempre in tema di “arti poetiche”, vorrei citarne alcuni altri legati alla dimensione performativa, dimensione che spesso s’intreccia con le questioni dell’oralità. Innanzitutto, la banda ligure di Cademartori, Berisso, Gentiluomo e Caserza, per ricordare i più attivi (spesso oscenamente attivi). Individualmente sono tutti quanti poeti da libro, da lettura silenziosa, ma hanno saputo trovare una forma collettiva di espressione di tipo performativo. Poi c’è l’incollocabile, ubiquitario, nostro sodale indiano, Francesco Forlani. E Forlani potrebbe essere catalogato da più fini critici, di quanto possa essere io, sotto il titolo di “poesia d’azione”, action-poetry. Sennonché lui riversa tutte le sue esperienze di scrittura, narrative, saggistiche, teatrali, oltreché poetiche, in una gestualità di tipo performativo.

    • Sì, ma formalmente, le cose di Francesco hanno a vario titolo e livello una marca comunicativa ben identificata. Il rischio è che questa sottil distinzione, che tanto sottile non è, si perda.

  3. buon giorno.
    riporto.
    “Sono ormai più di vent’anni che faccio ‘spoken word’, poesia ‘oralizzata’, e
    “dunque il mio rapporto con la forma libro è necessariamente più complicato, complesso, di chi si limita a scrivere versi (e magari a pronunciarli sul palco, in occasione di questo, o quel reading). ”

    posso anche non averci capito un’h ma lasciando da parte che per il signor Voce sono i simbolisti i crepuscolari eccetera che criticano lo spoken words… lasciando da parte i soliti argomenti sull’ avanguardia e sulla solita ovvia reclamata decenza di qualità della poesia… mi è bastato leggere che secondo lui in confronto alle performance nelle quali si esibisce chi scrive versi si limita a scrivere versi… beh mi è scemato l’ interesse a continuare la lettura … e che deve fare uno che scrive versi se non ‘ limitarsi’ a scrivere versi? non è la vita del poeta? non è così che il poeta è nella vita e nell’ arte? forse dovrebbe non scriverli: allora sì che il limite verrebbe sciolto da ogni conferimento. perché chi si ‘limita’ a scrivere versi dovrebbe avere con la forma libro un rapporto meno complicato e complesso? che vuol dire? sulle basi di cosa si può affermare questo? cosa c’è di illimitato in una sessione di spoken words? come nei readings anche lo spocken words si avvale di tante camere stagne di piccole claques. mi pare anche questo un limite così come possono esserlo quattro pareti e un tavolino al quale un poeta scrive senza avere sull’ agenda appuntamenti di slam poetry o readings… questo è il mio pensiero, opinabile senza dubbio.
    un saluto.
    paola

    ps: lo spocken words nasce rurale per necessità di espressione in paesi oppressi poi viene preso a prestito dall’ occidente urbano e usato ‘ socialmente” per pure protestare e come tante cose prese a prestito e protestate per protestare non sempre viene restituito con la natura stessa dalla quale è stato predato.

  4. a cara polvere, che scrive:
    “perché chi si ‘limita’ a scrivere versi dovrebbe avere con la forma libro un rapporto meno complicato e complesso? che vuol dire? sulle basi di cosa si può affermare questo? cosa c’è di illimitato in una sessione di spoken words? come nei readings anche lo spocken words si avvale di tante camere stagne di piccole claques.”
    Sono del tutto d’accordo su questo. Infatti, la mia replica a Lello voleva ricordare che una volta che abbiamo aprioristicamente rovesciato le gerarchie vigenti, non siamo avanzati di un passo. E mi sembra che questo Lello lo riconosca nella risposta.
    Ripeto: nonostante non sia un appassionato di poesia orale né di spoken words, è importante riconoscere che sono forme di poesia, perché la poesia dovrebbe all’alba del XXI secolo dirsi al plurale, con confini assai incerti.
    Una volta che riconosciamo questa pluralità, rimane tutto il discorso critico e di apprezzamento da fare. Non si ha passaportò di nobiltà semplicemente perché si scrive in endecasillabi o perché si scandiscono frasi dentro un microfono (o perché si scrive poesia senza andare a capo).
    Ma è importante distinguere i due discorsi.

  5. Allora, prima di tutto ad Andrea: facciamo a capirci.
    L’espressione ‘si limitano’ ovviamente non aveva in sè nulla di spregiativo, mi limitavo a dire che i poeti su carta ‘limitavano’ il loro lavoro alla carta e questo mi pare pacifico.
    Non so cosa ne venga in tasca ad aprire una polemica basandosi su un intervento fuori centro come quello di di ‘paola’, facendo finta di non aver letto ciò che tu stesso hai pubblicato e di cui hai discusso con me.
    Mi pare che la disponibilità a riflettere non sia premiata in questo caso.
    Nessuno fa gerarchie Andrea e tu lo sai benissimo, dunque mi aspetto per correttezza che ti comporti di conseguenza. Altrimenti ne sono rattristato. E inizio a credere di aver dialogato con qualcuno che faceva finta di comprendere ma invece tendeva inutili e sinceramente desolanti trappole retoriche, agguati argomentativi da Bar Sport. Discutiamo di letteratura o facciamo finta?.

    a ‘paola’ padrona di non leggere le righe successive e di preferire di intervenire con deliri apodittici come quelli che offri sopra. Se andassi avanti ti renderesti conto che letteralmente ‘non sai di cosa stai parlando’.
    da parte mia mi rendo conto che in una civiltà del ‘fast thinking’ come quella nostra sia molto più rassicurante e facile accontentarsi delle prime righe per giudicare una riflessione che invece ne occupa centinaia, ma come puoi immaginare, in questo caso la cosa mi interessa poco e non vale più di queste poche righe di replica.

  6. Per ulteriore chiarezza: non c’è ragione che io ‘riconosca’ ciò che ho affermato per primo, né ciò che affermo da anni… Non è che sei tu che mi fai ‘riconoscere’ qualcosa, in dialogo concordiamo, e che diamine!

  7. @l signor Voce
    intanto avrei gradito un buon giorno o comunque una parola di accoglienza almeno per avere commentato anche se non concorda con quanto ho scritto ma invece mi dà della delirante e scentrata e mi dice che mi risponde per compassione:-) e va bene. sorrido.

    e poi ririporto:

    “Sono ormai più di vent’anni che faccio ‘spoken word’, poesia ‘oralizzata’, e
    “dunque il mio rapporto con la forma libro è necessariamente più complicato, complesso, di chi si limita a scrivere versi (e magari a pronunciarli sul palco, in occasione di questo, o quel reading). ”

    nessuna polemica né il mio tono è tale. se lei ne parla e mi si rivolge in quel modo dandomi della delirante evidentemente la cerca ma io no. oppure il suo articolo è nominale, rivolto solo agli addetti ai lavori. davvero non si sa più come approcciarsi ai grandi blog letterari ed è un dispiacere. commentare è diventato difficile. altro che. vien da scappare più che altro. peccato.comunque mi sono ‘ fermata’ a quelle righe perché – ho premesso che potrei anche non averci capito un’ h ma ora aggiungo alla luce del suo intervento che è anche possibile che lei non abbia formulato quanto voleva dare ad intendere – mi sono sentita fra coloro che scrivono e non fra coloro che si limitano a scrivere – perché non considero un limite il solo scrivere. va bene poi lei aggiusta la frase. ok. ok. è l’ energia che si mette nelle parole. non importa in quale luogo. da quale luogo. potrebbero essere scritte in questo momento in una catacomba da un poeta eremita e stia certo che da qualche altra parte qualcosa si muove o si muoverà se le parole scritte sottosuolo contengono scintille. e questa se mi permette è una mia personale riflessione. e anche quando scrive che il rapporto con il libro è più complicato e complesso… non ho capito perché. e anche quando scrive che alcuni poeti si ‘limitano a pronunciarli qui e là’ anche lì c’ è come il voler in qualche modo sminuire l’ operato che un poeta sceglie. mia sensazione. e accetto che lei la opini, senz’ altro. personalmente – e non mi rivolgo direttamente a lei e il suo essere poeta e alla sua ricerca in poesia – dopo essere stata a readings e a performances di spoken words’ ferma resta la sensazione che si anteponga per la maggiore più il bisogno di visibilità narcisistica che lo spossessamento dei propri versi: versi pieni di sé che arrivano al pubblico zoppicanti, insensibilizzanti e spesso il pubblico applaude per amicizia e per bersi una cosa insieme dopo. un rapporto consumato fra due muri tenuto in piedi per opportunità. e anche questa se mi permette è una sensazione personale che non fa di tutta l’ erba un fascio. si può essere in poesia in tanti modi ma quello che fa la differenza è quanto la mente del poeta sia sgombra della propria poesia non gli appartenga se non per parte appartenente al ‘ mondo’ per renderla intatta e operosa nei lettori e negli ascoltatori. è quella la cosa assai assai rara da ascoltare e da sentire. e certo che deliro. ci mancherebbe. e senza aver bisogno di farlo per trasgredire ma quanto ho scritto qui l’ ho scritto con piene facoltà mentali il che mi stanca un po’:-)
    un saluto a lei.
    paola

    ps: e non si adombri coon Andrea – mi spiacerebbe anche essere involontario mezzo di effetto negativo fra voi solo per aver espresso qualche riflessione.

    • Io temo che la poesia, in quest’epoca di assenza di centri più che di policentrismo, sia essa stessa un’arte decentrata in cerca di una definizione nel contesto e che si adatti a ibridarsi per ibridarsi pur di sopravvivere. Purtroppo i versi sono sempre pieni di sé (l’egotismo lirico è spontaneo). C’è da chiedersi se questo sé sia un sé sminuzzato e solipsistico, perché reso tale in un contesto relazionale di per sé sminuzzato e fecondo di solipsismi.

  8. Sarò paziente: intanto non sia ipocrita, nel senso biblico, buongiorno non l’ha ricevuto nemmeno da Inglese. perché se ne lamenta solo con me?

    Al resto delle sue osservazioni è facile rispondere: come la prenderebbe se io giudicassi la poesia scritta, tutta, a partire da qualche scartafaccio sentimentale che mi è capitato di leggere?

    Il suo tono non era polemico? davvero? provi a rileggersi e vedrà che cambierà opinione: ora non lo è, ma solo perché le è stato risposto per le rime…

    Sui grandi blog letterari e su quelli piccoli, come nelle conversazioni, sarebbe d’uopo comunque ascoltare prima di intervenire, è meno veloce e d’effetto, ma più efficace alla lunga, mi creda.

    Per quanto riguarda me ed Andrea, non si preoccupi: litighiamo da anni e credo che continueremo a farlo, non è certo sua responsabilità. Buona giornata

  9. @l signor Voce

    vero. mi ha risposto per le rime. è poeta e il poeta rima. ha vinto con le rime. potrei risponderle punto per punto con piene facoltà mentali ma il delirio reclama sopravvento e va bene così. rigraziandola per le risposte esaustive le auguro di rimando buona giornata.
    paola

  10. Caro Lello,
    non vedo perché ti irrita nei commenti, quanto abbiamo discusso per iscritto.
    Nelle tue posizioni più polemiche, io ci ho visto il rischio di un semplice rovesciamento di gerarchia. Non vado a fare la disquisiozne filologica perché non mi interessa. Questo rischio l’ho evidenziato nella mia replica, e tu mi hai rassicurato sul fatto che, in sostanza, concordiamo. Non vedo quindi in che cosa quanto risposto a Cara Polvere sia diverso da quanto ho scritto più sopra. In sostanza, se siamo d’accordo davvero (e tutti e tre) su un’idea plurale di poesia, mi sembra che non ci sia materia di dissenso. I dissensi, come ripeto, entreranno semmai in sede di giudizio critico. Quando si trattareà di dire quale tra i poeti della lettura silenziosa, della poesia performativa, della poesia installativa, ecc., ci sembrano importanti, talentuosi, ecc. Qui sono sicuro che avremo valutazioni parecchio divergenti.

  11. Caro Andrea,

    mi fai domande a cui, ovviamente, ho già risposto. Non c’è traccia di polemica nel mio scritto in risposta alle tue domande per quanto riguarda il rapporto orale/scritto. Come vede chiunque legga con schiettezza e limpidezza di giudizio…
    Il fatto che spesso io polemizzi, non autorizza a credere che io lo faccia sempre.
    L’ho fatto nei commenti non nel nostro dialogo, dunque…
    Bizzarro che dopo aver concluso, per ragioni filologiche, che il mio ‘si limitano’ fosse polemico, ora tu dichiari che le disquisizioni filologiche non ti interessano. Bizzaro davvero, prima di tutto dal punto di vista filologico.
    Per quanto concerne il tuo canone critico, mi pare che tu abbia già provveduto a darci un assaggio di ciò che ti pare rilevante, nel tuo primo commento e ne prendo atto..

  12. Lello, dài, non perdiamoci in questioni secondarie. A me interessava discutere sinceramente con te di una questione, che ho posto anche a titolo dell’intervista e del dialogo. Credo che sia una questione che per molti versi riguarda me e te, e parecchi altri, nonostante le tante differenze quanto ai gusti e alle pratiche specifiche. La poesia pluriversa o plurale. Il mio riferimento sia nell’intervista che in questi commenti non è alla “lettera” della tua risposta alla mia domanda (che comunque potrebbe essere variamente intesa), ma allo spirito complessivo di tuoi recenti interventi. Quindi io ho nella mia replica esplicitato un rischio nel tuo atteggiamento, e tu su questo punto hai dissipato i miei dubbi.
    Dobbiamo spendere ancora molta energia su queste cose, che mi sembrano pacifiche ad entrambi? A me non sembra. Mettiamo nuova carne al fuoco semmai.

  13. Andrea, nessuna questione secondaria, anzi… Il problema è quello che espongo qua
    http://www.satisfiction.me/e-litaglia-e-questa-qua/

    Abbiamo discusso con pacatezza, ma – perdona – non sopporto proprio più di dover essere io a chiarire di non voler fare gerarchie ideologiche, ché son decenni che altri le fanno a detrimento della poesia ad alta voce. Non c’è ragione di presentare (e questo fai nei commenti9 ciò che è a monte del nostro dialogo, scontato (l’assenza di gerarchie tra le forme della poesia) come se fosse qualcosa che io infine ‘riconosco’. Assai scorretta come argomentazione.
    Ovviamente sarò io a passare per quello che fa polemiche inutili, ma fa niente ci sono abituato…
    Non sarà questo a impedirmi di continuare a precisare e sostenere ciò che credo sia necessario.

    Per il resto son qua. Ho scritto, scrivo, scriverò, soprattutto ho fatto, faccio, farò. E osservo, leggo, rifletto come te, ma per favore non ammalarti anche tu del tic di cui parlo adesso su Satis riferendomi ai nostri scambi qua.

    E’ evidente a chiunque che chiedere a chi fa spoken work di dichiarare che non intende escludere dal suo orizzonte l’altro da sè, dopo decenni che ad essere esiliata è stata la voce è cosa di gusto pessimo…

  14. vista
    inter – voce –
    intorno.

    [..]
    dal titolo – che è per me parte (e tutto contiene) della cura del pezzo da parte dell’ autore ci sono per me parole di poesia. le metto in colonna ma c’è qualcosa di più. sempre per me. come dice Andrea i dissensi stanno in sede di giudizio critico in cui si formeranno giocoforza divergenti valutazioni soggettive secondo esperienza strumenti formativi ascolto… e via così. naturalmente. c’è di un uomo la propagazione verso il mondo per condividere il mondo in cui si sente propagato. anche il poeta “a-sociale” ha in sé la pulsione di propagarsi alla velocità della luce. come luce. le parole (per me) sono l’ utile del Tao: accoglienti di ‘vuoto’. utili perché ‘ vuote’ in una ce ne stanno diecimila. vanno riempite. se dovessi definire il plurale di cui qui di discute scriverei questo: lo scrivo. indico parole così come potrei indicare la sfumatura del bagliore improvviso nell’ occhio di una femmina che vedo sul metrò o di un maschio. così come in un gesto in un mimare in uno scomporre e comporre. il poeta sa che non esiste competizione fra la sua natura e la Natura. quando un altro essere umano riesce a percepire dal multiplo questa dichiarazione e le obbedisce nella misura della capienza del suo piccolo in spontanea e sgombra “obbedienza” in qualunque forma essa venga agita allora si può parlare del privilegio di poter e saper accedere all’ altro vedere l’ altro sé nell’ altro. spostarsi rimanendo fermi. incarnarsi da vivi per non avere paura della morte. questo è uno degli effetti della poesia o di quell’ energia di cui capacitarsi non è indispensabile. non c’è domanda ma solo offerta. un’ offerta senza sì di accettazione né no di negazione confidenzialmente essere tutto in propagato anche nella morte. non scordiamo la morte che non è una domanda né una risposta.
    un saluto.
    paola

  15. In primis: buongiorno o buonanotte a tutti [dipende dall’albeggiare o dall’annottare soggettivo].

    Al di là che io NON capisca quale CRIMINE abbiano commesso le Maiuscole [licenze poetiche,ça va sans écrire] -nel libero Vostro arbitrio di IGNORARMI bellamente…

    Qualcosa da REPLICARE tengo:

    1) LA LINGUA ITALIANA: se Voce scrive “si limitano”, Voce NON scrive “sono limitati”. Capiamoci, ragassuoli! Tra la scelta e l’imposta esiste differenza.

    2) I GIOVANI: una splendida disanima che AVREBBE POTUTO avvicinare anche *i non addetti* [e qui, scusate son metallara, non scrivetemi cazzate: quando mai UN AUTORE acquista UN ALTRO AUTORE? Viviamo del reciproco *darci e recensirci*] è FRANATA nelle ripicchette. E i giovani ESIGONO modelli. Punto.

    E a capo.

    3) PARALLELI: nel preciso istante in cui un METALLARO esalta il power e un grinder lo insacca – ci si CONFRONTA. La differenza? NOI SAPPIAMO essere Metallari, tutti per il Metal, al di là delle seclte/inclinazioni/gusti personali. E un Metallaro difenderà SEMPRE un fratello o una sorella… Nella POESIA potete dire lo stesso?

    My best growls,
    Chiara

    P.s. Inglese, TUTTI abbiamo ALTRO che ci tormenta e ci pressa. Giochiamo a chi è più incasinato?
    Nel PUBBLICO: un GRAMMO di coerenza in più – davvero – non guasterebbe

    http://www.youtube.com/watch?v=TiMJQYJ00PI

  16. @Chiara

    qui è giorno Chiara e allora rivolgendomi in maniera diretta a te nonostante la tua trasversalità nel riferirti, buon giorno. mi spiace leggerti così in picchiata libera:-) per dove ? non credo tu sia stata ignorata soprattutto perché hai dichiarato di concordare su tutto ti sei inchinata anzi tanto eri d’accordo eccetera eccetera. va da sé che il più delle volte sono le critiche ‘negative’ a venire a loro volta considerate non fosse altro per approfondire (e ringrazio Voce di avermi comunque risposto) e si auspica discusse costruttivamente. (pensa che a me hanno ignorato completamente proprio qui su NI in un post proprio qualche giorno fa. non ne ho fatto un dramma.) mi interessa relativamente la tua bella lezione di italiano – e solo quella perché poi non ci ho capito più niente – che per quanto inutile alla luce del corpo intero della discussione – dimostra che almeno qualcuno che paventi di saperlo e abbia velleità di insegnarlo agli ignoranti come me esiste e si fa sentire. oh là! c’è bisogno di lezioni d’ italiano. e serve sapere l’ italiano soprattutto agli “avvocati improvvisati” in guizzanti comparsate come questa tua che non solo è confusa: dove le leggi le ripichette? sai cos’è una ripicca? per ripiccare ci vogliono dei sedimenti rancorosi che non mi appartengono. quindi: calma, ma ripete noiosamente solo quanto già sostenuto dal signor Voce e al quale su questo punto ho già esposto la mia replica, condivisibile o meno. forse se il tuo intervento fosse stato meno amicale e meno soggettivo mi avrebbe schiarito meglio la prospettiva, chissà, invece al solito è una piccola solita difesa rabberciata di chi sa benissimo ‘difendersi’ da solo. manco fosse sotto attacco… poi. e va beh.
    ps: io non sono un’ addetta ai lavori e nulla vietava ad altri addetti ai lavori di intervenire. non credo che questa discussione sia repellente e meno civile di tante altre che si leggono in giro. anzi. qui si chiude in l’ atto unico la scaramuccia. mi auguro.
    un saluto a te Chiara
    paola

  17. non sono un’ addetta ai lavori e nulla vietava ad altri NON* addetti ai lavori.
    (chiedo scusa)

  18. Buongiorno Paola,

    al solito *Chiara non è mai chiara* [parafrasando Merlin] e proprio per questo dovrei scrivere con esegeta al fianco. O rassegnarmi alla grammatica piana…
    Il mio intervento – come ogni mio intervento – MAI è amicale in accezione acritica[vivo per la Gilda, lamentando un nudo di Gilda; ma questa è inclinazione nota].
    La ringrazio per la risposta e buoni passi

  19. Molto interessante, ma il rischio onnipresente in queste prese di posizione è quello di cadere in una sorta di pampoetismo che rischia di determinare una perdita di identità non tanto della poesia come fenomeno storico-culturale in questa o quella forma e secondo questa o quella definizione, ma della poesia come tipologia espressiva in quanto tale.

  20. *L’Arte non è pensabile senza RISCHIO e sacrificio spirituale di sé*
    [Boris Pasternak].

    E il *pampoetismo*, Ventre, non crede sia solo un aspetto [deteriore e non mi sembra QUESTO il caso] della *tuttologia* imperante? Conosco informatici che si lamentano del *pantawemaster* o medici che lottano contro il *pantaterapeauta*…

    Appurato questo – sì come esistono cardiochirurghi e ortopedici: esistono poeti performativi e poeti bucolici, oplepiani e lirici,et cetera…

    La Poesia ne risente? La Medicina? L’Informatica? Ogni Arte [inclusa quella Teatrale, ma è altro discorso infinito] soffre quando l’improvvisazione è un improvvisarsi senza basi.

    E senza temere di scrivere eresia: anche per sfilare in passerella SERVONO delle basi e sfido chiunque ad issarsi su un tacco 15 e camminare, sfalcando, in linea retta – senza previo allenamento…

  21. Ampliandosi il discorso, mi permetto di intervenire.
    Sono un Informatico. Sono un Informatico che ha seguito un corso di studi con orientamento di grafica.
    Prima precisazione: per lavoro non uso Photoshop, ma al massimo ho le competenze per capire gli algoritmi che vi stiano dietro. Semplificando ulteriormente: non uso Photoshop, ma al massimo lo saprei programmare. Che poi io sappia “anche” usare Photoshop o tracciare due disegni a mano, è tutto un altro discorso.
    Detto questo, arriviamo alla “tuttologia”: mi hanno sempre infastidito le persone che si improvvisano Informatici semplicemente perché sono in grado di realizzare un sito [o peggio: un blog] per lo zio, il cugino, il parente più prossimo. No. Parafrasando Furio Colombo: NO. In un mercato oramai inflazionato in cui i computer sono nelle case di tutti, il mestiere dell’Informatico non è quello di saperti collegare la stampante al computer, aprirti un profilo Facebook o spiegarti come andare avanti nell’ultima avventura grafica della LucasArts [lo so, lo so: ci sono giochi ben più recenti e famosi di cui potrei fare i nomi, ma di nuovo non è questo il punto]. Ed è per questo che mi accendo: a ciascuno il suo. E che vada riconosciuto, a chi ha studiato, il valore delle proprie conoscenze. Non credo che tutto possano fare tutto, o perlomeno credo che non lo possano fare BENE. E se qualcuno si improvvisa, in qualsiasi campo, quel che ne esce NON È BENE. Per il singolo e per il campo tutto.

    Detto questo, mi piacerebbe tornare ad un argomento assai interessante: Poesia e Fumetti. Sono due arti distinte, che non devono confondersi tra loro, ma che possono unirsi negli intenti e nelle finalità. Un buon Fumetto può considerarsi Poesia? Penso tanto quanto possa la Musica: spesso a Genova si sente dire che De Andrè è stato un Poeta, per il contenuto dei testi. Ma prima di tutto De Andrè era un Cantautore [che tanto ha attinto ad Autori altri, peraltro], e i suoi versi possono peccare di semplicità di contenuti o di forma [“la chiamavano Bocca di Rosa, metteva l’amore sopra ogni cosa” è semplice: immediato, ma semplice]. Non va quindi confuso l’effetto trascinante che può avere una Canzone [e relativo ritornello] con una Poesia. Allo stesso modo, esiste sì il Poetry comic, ma lungi da me considerare i Peanuts come una forma di Poesia. Il roblema non è DOVE finisca uno e DOVE inizi l’altro, ma COME possano convivere sfruttando ciascuno le proprie potenzialità.

    http://makkox.it/wp-content/uploads/2011/05/turen.png

  22. @Daniele Assereto

    Intanto mi presento, sono Claudio Calia, l’autore dei “poetry comics” contenuti in Piccola Cucina Cannibale.
    Di fumetto e poesia ne ho scritto di recente qui
    http://www.claudiocalia.it/Di-consapevolezza-e-intenzionalita
    e da qui potrà trovare alcuni link interessanti, soprattutto i tre testi scritti da Daniele Barbieri in occasione di un incontro dedicato al Poetry Comics cui abbiamo partecipato di recente a Pordenonelegge, tra l’altro con la presenza anche di Lello Voce e Davide Toffolo.

    Saluti,
    c.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.