Il diritto speciale di rendersi utili – Le operazioni di pronto soccorso da Malcolm Lowry a Alice Munro
di Giuseppe Zucco
Come si aiuta, come si soccorre, come si salva il prossimo – e quindi inevitabilmente se stessi – negli anni duemila? Nei momenti di estremo intervento, cosa differenzia le ultime generazioni da quelle che ci hanno preceduto? Siamo diventati più disponibili e generosi? Ci siamo qualificati come una massa di autentici calcolatori smidollati? Quale pressione etica accelera, se accelera, le nostre pulsazioni nei confronti di chi avverte, seppure inconsciamente, il proprio battito cardiaco sfumare o franare di colpo?
Questa e altre domande hanno fatto nido nella mia testa tutta l’estate. Nei telegiornali, puntuale come gli eritemi solari, più e più volte si è avverata la composta disperazione o la temperata euforia di un qualche annegamento o di un qualche salvataggio. Gente di ogni età, in preda a un malore, un affaticamento, una improbabile combinazione di eventi, non la finiva più di toccare il fondo o di essere trascinata a riva per una respirazione artificiale. E se del superstite apparivano sempre intensamente netti e sfigati i bordi della sua figura, del soccorritore in sé e per sé continuavo a saperne quasi nulla, come se fosse un’esemplare poco avvezzo alla gabbia di un riconoscimento.
Ai telegiornali, però, hanno fatto seguito i libri. Ne leggo sempre un paio d’estate – quest’anno è toccato, in rapida successione, a Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (Feltrinelli, 2005) e Troppa felicità di Alice Munro (Einaudi, 2011). Con una partecipazione che i telegiornali ignorano, mi sono addentrato nelle loro pagine, senza aspettare di trovare nulla – cioè, nulla che avesse a che fare con l’attualità più stretta – e sorprendentemente, come se cose distanti cospirassero in segreto tra di loro, i due libri, il primo a metà, il secondo all’inizio, nel fitto intreccio della trama, aprivano una radura narrativa in cui staccava una scena di soccorso e la figura di un soccorritore.
Grido raramente al miracolo, ma le scene, anche se inscritte in due libri lontanissimi per destino, stile, struttura, periodo storico di pubblicazione – Sotto il vulcano è un romanzo del 1947, Troppa felicità è una raccolta di racconti del 2009 – erano anche parecchio simili. Uguali e contrarie, per essere precisi.
Hugh, nel capitolo 8 di Lowry, e Doree, nel racconto Dimensioni della Munro, stanno viaggiando su un autobus. Entrambi, prima di ogni altro passeggero, distinguono una persona versare in pessime condizioni sul lato della strada. Entrambi smontano veloci dall’autobus, cercando per come possono di darsi da fare, avvicinandosi alla persona ferita, prestando un primo soccorso. Entrambi sono duri di orecchi ai richiami di chi sta intorno, richiami che li sollecita ripetutamente a non invischiarsi con quel sangue, e di venire via, lasciando fare ad altri. Solo il finale della scena non combacia: Hugh è costretto a non toccare il ferito e a risalire sull’autobus, Doree assiste e rimane accanto al ferito fino all’arrivo di un’autoambulanza.
Immagino che dal confronto serrato di queste scene possa ricavarci qualche informazione utile sulla natura del soccorritore, e così ci torno su. La diversa chiusura di scena non è dovuta solo alla biografia unica dei personaggi in questione, ma anche dal periodo storico che attraversano.
Hugh è un eroe della Repubblica Sovietica, è sul punto di partire dal Messico per aiutare i repubblicani spagnoli dagli attacchi di Francisco Franco, è completamente imbevuto di valori comunisti, basta poco per vederlo e sentirlo schierarsi dalla parte degli ultimi, chiunque essi siano, ma la cultura politica che alimenta le fiamme del suo idealismo lo spinge a individuare in ogni situazione i possibili vantaggi o svantaggi che potrebbe ricavarne – per esempio, in questo caso, se avesse soccorso davvero l’indio aggredito e lasciato a terra sanguinante, molto probabilmente una non specificata e altrettanto sanguinaria polizia fascista lo avrebbe ritenuto una specie di complice post-factum. Anche se questa forma di sensibilità, che a tratti si declina in un opportunismo calcolatore, non è una sua esclusiva, ma costituisce parte dello spirito del tempo – soprattutto l’opportunismo, a quanto pare. Ecco cosa scrive Lowry a proposito degli altri passeggeri affacciati sulla scena del delitto: Anche se l’ostacolo più grave e definitivo al muoversi in aiuto all’indio era il fatto che ognuno avesse scoperto che non era affar suo, ma di qualche altro. E, guardandosi intorno, Hugh vide che proprio questo era l’argomento di cui tutti stavano discutendo. Non è cosa che riguardi me, dicevano tutti, riguarda, poniamo caso, voi; e poi scuotendo il capo: anzi, nemmeno voi, ma qualche altro, e le loro obiezioni si facevano sempre più complesse, sempre più astratte, finché la discussione prese a poco a poco una piega politica. Idea ancora meglio codificata nel ritratto collettivo di alcune signore rimaste sull’autobus: Sedevano tutte in fila, ora, immobili, pietrificate, senza parlare di nulla, senza una parola, come statue di ghiaccio. Era stato naturale lasciare il problema agli uomini. E tuttavia, in quelle vecchie era come se, attraverso tutte le varie tragedie della storia messicana, la pietà, quel moto impulsivo di fraternizzare, e il terrore, quell’impulso a fuggire (che si impara da ragazzi), fossero stati alla fine riconciliati dalla prudenza, dalla convinzione che è meglio rimanere dove si è, che chi sta bene non si muove.
Questione molto diversa quella di Doree. Essendo la protagonista di un racconto breve, di Doree, Alice Munro rivela alcune scarne ma preziosissime informazioni. Doree è una cameriera, un tempo è stata sposata, dopo il lavoro risponde alle domande di una psicoterapeuta, cura la sua persona giusto per risultare il più anonima possibile, suo marito, qualche tempo prima, al culmine di un attacco di gelosia e ossessione, aveva ucciso i suoi tre bambini. Il primo impulso che la spinge a praticare la respirazione bocca a bocca al ragazzo dalla cui testa fuoriesce un’orrenda schiuma rosa è il ricordo dei suoi bambini, la rievocazione di tutte le strategie di soccorso – liberazione delle vie respiratorie, posizione della spina dorsale – apprese negli anni per rimediare con chirurgica precisione e amore materno a una sciagura che avrebbe potuto coinvolgere i suoi figli. Del resto, il mondo che le si dispiega intorno ha qualcosa di freddo, razionale, burocratico, e partecipando al mondo Doree non fa altro che incontrare o mettere in pratica un numero imprecisato di strategie – o ancora meglio, di procedure – che governano e mantengono l’ordine degli spazi sociali: le strategie/procedure per lavorare e conservare il posto di lavoro, per frequentare a suo vantaggio le sedute psicoterapeutiche, per incontrare nell’istituto di sicurezza il suo ex-marito pallido come un fantasma.
Così, una volta esplorate le scene, volendo tracciare una stilizzata ma non esaustiva parabola della figura del soccorritore, usando Hugh e Doree come segni di una qualche mutazione, trovando finalmente sfogo alle inquietudini appiccate dai telegiornali, potrei azzardare questo: se prima il soccorritore, le operazioni di soccorso, erano reperibili all’interno di un sistema di valori predefinito, e potevano essere ricondotte a una forma di idealismo, o in molti casi di ideologia, motivo per cui le azioni del singolo appagavano un qualche bisogno collettivo o una qualche aspettativa sociale – la manutenzione costante di un’idea di giustizia, per dirne una – oggi è più probabile che il soccorritore si muova per sé, per sé soltanto, nella speranza luminosa di intraprendere, attraverso la propria perizia e il proprio coraggio, la ricomposizione dei bordi scheggiati di un personalissimo trauma.
La svolta non è di poco conto. Si è passati dal soccorrere uno per soccorrere tutti, al soccorrere uno per soccorrere se stessi. Con un risultato: se nel primo caso è molto più semplice temporeggiare, calcolare i pro e i contro delle proprie azioni, dato che il ritorno personale dell’operazione di soccorso, a parte la pace dei giusti che spirerebbe sulla propria coscienza, non è immediato né spendibile, nel secondo caso ogni minuto sottratto alle operazioni di soccorso potrebbe incrinare la possibilità di ricomporre il proprio trauma, alleviarlo o mettergli su una qualche sordina. Brutalmente parlando: davanti a una gravità assoluta, si passerebbe dal calcolo all’urgenza delle proprie azioni.
Ovviamente, la generalizzazione è una pistola fin troppo calda, ma questa idea della ricomposizione del trauma attraverso un’azione di soccorso potrebbe svelare qualcosa del nostro presente e del nostro futuro. Scrive Alice Munro di Doree mentre segue l’autista dell’autobus che le intima di restare a bordo: Come se non l’avesse sentito, o si fosse guadagnata il diritto speciale di rendersi utile, Doree lo seguì, smontando dall’autobus.
Tra le righe, la Munro sembra convenire che sia proprio il trauma subito, e la volontà di superarlo – o comunque sia, di attenuare il male e il dolore che dispensa – a conferire a Doree il diritto speciale di rendersi utile.
Potrebbe apparire un’annotazione marginale, e invece ribalta la questione: perché, mettiamo, se il trauma subito da singolare diventasse collettivo – la perdita del posto di lavoro, per dare un’idea neanche tanto fantascientifica, la perdita di uno o più diritti – e le azioni di soccorso scivolassero dal piano puramente materiale di un danno fisico a quello più rarefatto dei bisogni e dei desideri, tutti i soccorritori, nella speranza luminosa di superare o attenuare il trauma, potrebbero fare gruppo, riconoscendosi l’uno nel trauma dell’altro, rinfocolando una qualche forma di idealismo, mettendo mano a un piano generale di prevenzione. La respirazione bocca a bocca, in fondo, visti i tempi in cui tocca avventurarsi, potrebbe diventare la più decisiva azione politica del futuro.
se siamo sopravvissuti a questo possiamo farcela ancora:
http://www.youtube.com/watch?v=dCiDvC0Vdvg
p.s. e fuori di celia,a proposito di seconde chance suggerirei la “storia vera e supertriste” di gary shteyngart(dopo le abluzioni)