Troppa informazione – Un saggio sull’opera di David Foster Wallace

(Poco più di quattro anni fa veniva a mancare lo scrittore David Foster Wallace. Gli animatori dell’Archivio David Foster Wallace Italia hanno pensato bene di rendergli omaggio traducendo il saggio che J.J. Sullivan ha scritto e pubblicato nel maggio 2011 su GQ USA. Ringraziando Andrea Firrincieli e Roberto Natalini sia per la traduzione sia per la generosità, lo ripubblichiamo qui.)

Tommaso Pincio “Ritratto di David Foster Wallace”, 2011, olio su tavola, cm. 65 x 60

Quando David Foster Wallace, scrittore simbolo della sua generazione, si è tolto la vita nel 2008, ha lasciato dietro di sé un romanzo incompiuto, Il Re Pallido, che potrà servire alternativamente a completare il corpus trascendente delle sue opere oppure a porre un inquietante punto interrogativo sulla fine della sua carriera. John Jeremiah Sullivan si immerge nel nuovo libro e considera quello che ci ha lasciato.

di John Jeremiah Sullivan

Una delle poche bugie che riusciamo a rintracciare nei libri di David Foster Wallace si trova nel pezzo su Michael Joyce, oscuro prodigio del tennis degli anni ‘90, incluso nella sua prima raccolta di saggi, Una cosa divertente che non farò mai più. A parte alcune pagine dei suoi romanzi, è la cosa migliore che Wallace abbia scritto sul tennis – migliore persino del pezzo giustamente lodato, ma spropositatamente famoso, su Roger Federer [1] – proprio perché Joyce era un operaio del tennis, uno sconosciuto, per Wallace era come una tela bianca. Wallace non aveva praticamente nulla su cui lavorare per quel pezzo [2]: un tortuoso accesso ai gironi di qualificazione di un torneo canadese, qualche ora passata a guardare attraverso la rete metallica un soggetto che era allo stesso tempo troppo gentile per essere divertente e non particolarmente articolato. Di fronte a quello che per molti scrittori sarebbe stata una disastrosa mancanza di materiale, Wallace scatenò tutti i suoi stupefacenti poteri d’osservazione sul tennis nel suo complesso, pescando in parte dalla sua personale conoscenza del gioco, ma soprattutto grazie alla sua genuina abilità di considerare una situazione, facendola ruotare mentalmente tra le sue dita come un gioiello di dubbia integrità. Scrive: “Tutti hanno l’aspetto infelice e introverso di persone che passano enormi quantità di tempo sugli aerei e ad aspettare con le mani in mano nelle hall degli alberghi, l’aria di persone che devono crearsi intorno un guscio di privacy usando soltanto la loro espressione.” Ascolta il “pang autorevole” delle corde della racchetta tese per il torneo e osserva i raccattapalle “riconfigurarsi in maniera complessa”. Passa il tempo nei campi dove i giocatori fanno pratica e si riscaldano, i loro corpi “si muovono con la compatta disinvoltura che ho imparato a riconoscere nei professionisti quando si allenano: danno l’idea di un motore potentissimo tenuto a bassi giri.”

La bugia arriva all’inizio del pezzo, quando Wallace sottolinea l’ironia potenziale di ciò che si prepara a fare, e cioè scrivere di persone di cui non abbiamo mai sentito parlare, che sono culturalmente marginali, ma comunque tra i migliori al mondo in un dato campo. Wallace dice: “Vi invito ora a immaginare cosa si proverebbe a essere fra i cento migliori al mondo in qualcosa. Qualunque cosa. Io ho provato a immaginarmelo; è difficile”. Quello che è strano è che questo pezzo è scritto nel 1996 – quando Wallace aveva già  completato il suo secondo romanzo che avrebbe influito sull’intero genere narrativo, Infinite Jest, così come i racconti, alcuni già considerati dei classici, della raccolta La Ragazza dai capelli strani. È difficile credere che non sapesse di essere tra i cento migliori in qualcosa, e precisamente nello scrivere narrativa, e che c’erano già persone serie e competenti disposte ad includerlo in una cerchia ancora più ristretta. Forse dobbiamo supporre che, essendo umano, qualche volta ne fosse consapevole e qualche volta avesse paura che non fosse vero. Ad ogni modo, questa falsa modestia – chiederci di accettare l’idea che lui non pensasse mai di essere così bravo e abbia proposto l’esperimento in maniera ingenua – non può che sembrarci strana. E forse era una cosa voluta. Non ci sono molte cose che accadono per caso negli affari di Wallace; il suo tratto profondamente ossessivo non lo permetteva. È possibile che ci sia qualcosa di stratificato in questo modo di usare lo sport come metafora per la scrittura – più strati di quanto già non ce ne si aspetti? È di per sé curioso che Wallace scelga un giocatore, tra i tanti, che si chiama Joyce, la cui irlandesità “etnica” Wallace enfatizza abbondantemente, alludendo quindi a un artista la cui propria fissazione sulla maestria tecnica lo aveva reso una sorta di mostruoso, splendente ma poco salutare, problema umano della letteratura. Di sicuro Wallace faceva dei giochi testuali a quel livello.

Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore così creativo che, quando muori, il linguaggio ne rimane impoverito. Questo è ciò che ha compiuto il suicidio di Wallace, due anni e mezzo fa. Non è stata solo una cosa triste, è stato un colpo durissimo.

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È difficile fare il classico paragrafetto biografico su Wallace per lettori che, in questo scenario mediatico soprassaturo, non sapessero chi è stato o perché fosse importante, perché ti torna continuamente in mente il suo racconto La morte non è la fine, in cui faceva la parodia del modo in cui si scrivono i paragrafi biografici sugli scrittori, con la lista delle loro onorificenze e quant’altro, lista che diventa sempre più inesplicabilmente ridicola quando si elencano i nomi dei premi vinti, e capisci come Wallace stia scavando dentro la solita stupidità auto-incensante del mondo letterario americano: “una Lannan Foundation Fellowship, […] un Mildred and Harold Strauss Living Award dell’American Academy e dell’Institute of Arts and Letters… un poeta che due diverse generazioni hanno acclamato come la voce della propria generazione.” Lo stesso Wallace aveva ottenuto molti dei premi di quella lista, come il ‘Genius Grant’ della prestigiona Fondazione MacArthur. Tre romanzi, tre raccolte di racconti, due libri di saggi, la cattedra Roy E. Disney di scrittura creativa al Pomona College.

Quando dicono che Wallace era uno scrittore generazionale, che “parlava per una generazione”, c’è un modo in cui questo è quasi scientificamente vero. Tutto quello che sappiamo su come la letteratura viene prodotta suggerisce che c’è un legame tra il talento individuale e la società che lo produce, l’organismo sociale. Le culture generano geni come un alveare trova una nuova ape regina quando la vecchia muore, ed è facile ora vedere Wallace come uno di questi geni. Ho il ricordo, abbastanza netto da sapere che non è solo il senno di poi, di averne sentito parlare e poi di aver letto per la prima volta Infinite Jest quando avevo 20 anni, e la sensazione immediata: eccolo. Uno di noi sta provando a fare questo. Il “questo” stava per tutto questo, ossia il provare a catturare la sensazione di vivere in una superpotenza frammentata alla fine del ventesimo secolo. È arrivato qualcuno con un intelletto potenzialmente abbastanza forte per rispecchiare questo spettacolo e con una serietà morale abbastanza profonda da voler essere in prima linea. Non si può dire che nessuno dei suoi contemporanei – anche quelli che in quanto ad abilità potevano competere con lui – abbia rischiato un fallimento così grande quanto Wallace.

Gente che non ha mai letto una parola di quello che ha scritto riconosce il suo stile, i cosiddetti vezzi, un mucchio di giochi tipografici presi dal romanzo comico del diciottesimo secolo e ricontestualizzati: le note e le parentetiche scettiche, proposizioni che compulsivamente tornano sui loro passi, ammettendo la loro stessa debolezza. È vero anche che corrispondevano alle idiosincrasie del suo modo di parlare e pensare. (E lo sappiamo bene ora che tutti quei video su YouTube delle sue letture e interviste ci sono diventati familiari – anche un po’ stranamente: per qualcuno che chiaramente si contorceva come un insetto in trappola se posto sotto attenta osservazione, Wallace si sottometteva e si assoggettava a molte di queste situazioni. Aveva molte più foto pubblicitarie di altri sui colleghi. Non si può dire che non fosse una persona combattuta.)

Il punto è che il suo stile ha fatto molto di più che limitarsi a riflettere la sua forma mentis; era una espressione di una sensibilità insolitamente coerente. Wallace era un implacabile revisore e avrebbe potuto semplificare tutti quei paragrafi sintatticamente barocchi. Ma non credeva che il mondo funzionasse in quel modo. La verità, o la ricerca della verità, non gli sembrava fatta così. Era auto-critica – o meglio, un’auto-interrogazione – alla ricerca dei propri diversivi. Da questo punto di vista, è interessante notare che il New Yorker, che ha pubblicato alcuni dei suoi migliori pezzi di narrativa, non abbia mai pubblicato i suoi saggi. Non è un disonore per Wallace o per il New Yorker, è solo un fatto tecnicamente interessante: non avrebbe saputo cambiare la sua voce per adattarsi allo stile tipico della testata. Lo “stile sobrio” si basa sul cancellare la propria presenza come scrittore e invocare una sorta di invisibile autorità narrativa, con l’idea che la personalità e la mente dell’autore sono manifeste in ogni riga, senza il cattivo gusto di dire al lettore quello che sta succedendo. Ma l’incessante strategia del parlare in prima persona di Wallace non deriva dal narcisismo, assolutamente no – era invece un segno di testardaggine filosofica. (Suo padre, filosofo di professione, aveva studiato con l’ultimo assistente di Wittgenstein; lo stesso Wallace da studente aveva offerto un effettivo contributo intervenendo nel dibattito sul libero arbitrio – di recente pubblicato come Fate, Time and Language). Il suo punto di vista sullo stile sobrio era che il suo scopo, alla fin fine, fosse solo quello di vendere qualcosa al lettore. Non in senso volgare, ma in quello retorico. La caratteristica moderazione della rivista, per quanto possa piacere, è una sorta di cuneo fascista che cerca di farti dimenticare i suoi problemi, le mezze verità, le decisioni arbitrarie, e di farti digerire un inesistente sigillo di autorevolezza. Wallace non avrebbe mai potuto escludere se stesso o i suoi articoli dall’insieme delle cose soggette ad un esame scrupoloso.

L’unica volta che l’ho incontrato, ad un rinfresco prima di una lettura, riuscii solo a biascicare qualche frase convenzionale del tipo “ammiro il suo lavoro” etc. Ma l’impressione visiva mi ha segnato fortemente, perché in quella atmosfera da cocktail party (Tom Wolfe era a tre metri da noi, nel suo vestito bianco), Wallace sembrava la persona più fisicamente a disagio che abbia mai visto. Se vi è mai capitato, ad un certo momento nella vostra vita, di essere intrappolato in una stanza di una casa di montagna con un animale selvaggio, un procione o una lince, ecco a cosa somigliava Wallace, pietrificato in quel modo. Aveva un sorriso sul viso come se stesse aspettando che qualcuno gli stesse per dare un pugno. Allo stesso tempo era educato e faceva spallucce quando ti parlava. Tutti erano vestiti elegantemente tranne Wallace, che portava una sorta di camicia da contadino russo ed era nella fase “ho i capelli lunghi come una signora, ma anche la barba”. Gli dava un’aria da barbone, uno che aveva visto una tavola piena di cibo e avesse deciso di unirsi alla festa. Tuttavia quando salì sul palco alla fine, insieme a George Plimpton e Seymour Hersh tra gli altri, non solo fece la sua parte, ma riuscì anche ad incantare il pubblico e più di una volta dovette interrompersi per far calmare le risate, pronunciando quelle vocali così rotondamente nasali.

Il suo stile era regionale in molti sensi – ad esempio nella scrupolosità dell’uso della lingua. Solo nel Midwest perdono tempo nella grammatica in una chiacchierata tra amici; da nessun’altra parte, quando chiedi “Posso avere un the freddo?” ti rispondono “Non saprei… puoi?” E Wallace si considerava in qualche modo uno scrittore regionale – altrimenti non avrebbe permesso a Marion Ettlinger, la fotografa per eccellenza degli scrittori arci-famosi, di scattare quella foto di lui con il trench che sorride in maniera ironica accanto ad un campo di grano ondeggiante. Come disse nel saggio che lesse quella sera, sapeva di provenire da un paesaggio “la cui vuotezza è al tempo stesso fisica e spirituale.” Il vero “massimalismo” del suo stile, che i detrattori trovavano auto-indulgente, sembrava suggerire un ambiente con molto spazio da riempire. In uno dei suoi primi saggi – sul giocare a tennis nella zona dei tornado – mitizza il suo rapporto con le pianure:

Amavo la precisa relazione delle linee rette più di ogni altro ragazzino con cui sia cresciuto. Penso che sia perché loro erano nativi del luogo, mentre io mi ci ero trasferito quando ero piccolissimo da Ithaca, che era dove mio padre aveva ottenuto il Dottorato. Perciò, quello che avevo conosciuto, seppure nella maniera orizzontale e semiconsapevole di quando si è bambini, era qualcosa di diverso: le alte colline e i tortuosi sensi unici dell’interno dello stato di New York. Sono abbastanza sicuro che conservai quella poltiglia amorfa di curve e dossi in controluce laggiù in qualche anfratto lucertolesco del mio cervello, perché i […] bambini con cui giocavo e facevo la lotta, ragazzini che non conoscevano e non avevano conosciuto niente di diverso, non vedevano nulla di assoluto o nuovi-mondesco nella disposizione planare dell’area cittadina […]

Nuovi-mondesco: era come se Wallace diventasse informale quando abbandonava il rigore e traeva delle conclusioni che non erano propriamente difendibili – un modo per averti dalla sua parte.

Probabilmente si tratta dell’unico scrittore notoriamente “difficile” che non abbia quasi mai scritto una pagina che non fosse piacevole, o almeno interessante, da leggere. Ma era il tema della solitudine, un tipo particolare di solitudine postmoderna, satura di informazioni, che, più di tutto, attirava folle ai suoi reading che per dimensione e livello di eccitazione erano più simili a ciò che si può vedere ai concerti di una nuova band in un negozietto di dischi. Molti dei lettori di Wallace (cosa che ora è facile da vedere visto che ognuno di loro ha scritto un messaggio di apprezzamento da qualche parte su internet) credevano che stesse parlando a loro nei suoi testi – che fosse una delle poche persone al mondo che potesse aiutarli a navigare in una nuova spiritualità selvaggia, in cui ogni possibile sorgente di consolazione è stata annullata. E Wallace stava parlando a loro; la sua innata consapevolezza gli impediva di sottrarsi interamente al suo ruolo di saggio. In questo senso possiamo capire le sue frequenti affermazioni, stranamente alla Pollyanna, sul presunto potere della narrativa contro il solipsismo, e cioè che solo nella letteratura sappiamo con certezza di avere “una profonda conversazione piena di significato con un’altra coscienza.”

Wallace sapeva che questo era un luogo comune. (Come dimostra il fatto che venne ripresa come una cosa da dire su di lui, negli articoli scritti dopo la sua morte.) La narrativa può solo sostituire il caos di un testo al caos di un discorso. Sostituisce gli specchi della stanza con altri specchi. Non voleva essere soltanto una cavolata, però; in più gli dava qualcosa da dire nelle interviste. Nei suoi libri, un’idea così leggera non sarebbe mai sopravvissuta alle tempeste fulminanti della sua analisi panottica. È proprio come in Caro vecchio neon, la storia di un ragazzo dell’elite dorata che si uccide, ricordata dal suo compagno di classe, David Wallace, che è “pienamente cosciente che il cliché secondo cui non si può mai veramente sapere quello che avviene nella testa di qualcun altro è vecchio e insulso, ma al tempo stesso cercava molto coscientemente di impedire a quella consapevolezza di farsi gioco di quel tentativo o di spedire tutta quella linea di pensiero in quella spirale ripiegata su se stessa che non ti permette di andare da nessuna parte.”

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Si sente che in qualche modo Wallace non riusciva a risparmiarsi nessuna di queste spirali tortuose. Anche se tendeva a tenerlo per sé quando era in vita – sappiamo che aveva sofferto di depressione clinica e disturbi d’ansia da quando era adolescente e che aveva combattuto coraggiosamente per tutto quel tempo contro la chimica del suo cervello. Con la sua morte abbiamo perso uno scrittore che ha tenuto la scena della letteratura americana in uno stato di flusso energizzante, perché lui si metteva sempre in gioco e, tecnicamente parlando, si era dimostrato capace di quasi qualsiasi cosa. L’ultima raccolta di racconti pubblicata da lui in vita, Oblio, non a torto è considerato il suo libro più cupo e meno divertente, ma contiene storie che mostravano una nuova maestria e concisione, compreso il capolavoro in un paragrafo di Incarnazioni dei bambini bruciati. La nozione che Wallace non avesse altri capolavori dentro di sé sembrava insensata, come la predizione un cambiamento nelle leggi della natura.

Ci aiuta sapere tutto ciò, o sapere ad ogni modo che c’è un popolo di persone che prova la stessa cosa, se vogliamo capire il frastuono che si è creato intorno a Il Re Pallido, il romanzo che Wallace ha lasciato incompiuto, e che ora è stato pubblicato da Little, Brown. Voci di un romanzo incompiuto avevano incominciato a girare subito dopo la sua morte, e possiamo anche dire che negli ultimi anni i lettori fedeli erano rimasti aggrappati a questa promessa di un nuovo libro, quasi come un modo per difendersi dalla realtà e dalla violenza di quello che era accaduto. Un po’ del dolore collettivo per l’uomo si era sublimato nell’eccitazione per il nuovo libro. Mi sono sorpreso anche io, mentre finivo la mia copia per la recensione, di sentirmi mancare il fiato al pensiero – a lungo rimandato – che non ci sarebbero stati più nuovi libri di Wallace. Di sicuro ci offriranno ancora un bel mezzo scaffale di volumi: le sue lettere, la roba non raccolta in precedenza, “il meglio di”, la raccolta delle opere. Ci può stare.

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Il Re Pallido è diverso. Questo libro ce lo ha lasciato – le persone più vicine a lui sono d’accordo nel dire che voleva che lo vedessimo. Non si tratta quindi, in altre parole, del classico caso di Gran Romanzo Postumo, in cui dei professori vanno a stanare un manoscritto che l’autore probabilmente non voleva che leggessimo. Sembra che Wallace abbia lasciato questo libro dicendo qualcosa del tipo “fatene ciò che volete”. A quanto pare uno dei suoi ultimi gesti in vita è stato di ordinare le pagine già pronte da leggere e metterle in un posto dove la moglie, l’artista Karen Green, le avrebbe trovate. Dai suoi appunti si è risaliti a dei capitoli parziali, che il suo editor storico Michael Pietsch ha messo insieme creando una specie di bozza di romanzo come doveva apparire nella testa di Wallace – più rifinito in alcune parti, meno in altre. Pensate ad un murale finito a metà. Il Re Pallido (titolo che potrebbe riferirsi ad un’espressione popolare del diciannovesimo secolo, “il re pallido dei terrori” ad indicare la paura malinconica della morte) tratta la storia di un gruppo di persone che lavora in un palazzo dell’Agenzia delle Entrate nell’Illinois. Alcuni dei personaggi si relazionano tra loro in diversi modi, mai banalmente consequenziali. Due di loro si chiamano David Wallace. E questa è la trama. Non va mai avanti [3]. Non inizia praticamente mai.

Non c’è da vergognarsi se vi viene il sospetto che un libro su un gruppo di persone a caso che lavorano per il governo possa sembrare una cosa insopportabilmente noiosa. La ragione per cui non lo è però ha che fare con la parola su – non è il termine esatto, né la giusta preposizione. Wallace non scrive sui suoi personaggi; non lo ha fatto per quasi mai. Lui ci scrive dentro. Le cose che riesce a fare su un campo da tennis o in una crociera, o a una convention sulla pornografia, lo hanno reso una fonte di ispirazione e allo stesso tempo di invidia folle per il genere di persone che, come me, ha imparato a fare ”scrittura per riviste” alla sua ombra (era il genere di scrittore che anche quando non cercavi di copiare il suo stile ti faceva pensare a come non stavi cercando di copiarlo) – a Wallace piaceva fare così, nei romanzi, con le vite interiori dei suoi personaggi.

Immaginate di entrare in un posto, diciamo un’immensa copisteria di un grande magazzino. È mattina presto e siete il primo cliente. Vi fermate sotto le luci accese fosforescenti e lasciate che le porte si chiudano scivolando alle vostre spalle, osservate i commessi nella loro divisa con la camicia blu, le bocche aperte, che girano per il negozio ancora assonnati. Prendeteli come un’immagine unificata, con una vaga superficie impenetrabile di noia e insoddisfazione di cui siete contenti di non far parte, e partite per il vostro obiettivo, fare delle fotocopie o quello che sia. Ecco il momento in cui Wallace preme il pulsante di Pausa, quel breve istante in cui voi accendete la disattenzione, e vi concentrate in voi stessi. Lui porta indietro quel momento, e preme Play di nuovo. Adesso è diverso. Vi trovate in una stanza con un gruppo di esseri umani. Ognuno di loro è come voi, è stato ferito ed è guarito in modo strano. Ognuno di loro, anche il più superficiale, ha un romanzo dentro sé. Ognuno di loro è amato da Dio, o merita di esserlo. Hanno tutti qualcosa a che fare con te: quando lasci che la membrana della consapevolezza diventi porosa, l’osmosi è possibile, sapete che è vero, abbiamo tutti a che fare l’uno con l’altro, siamo parte di una narrazione – ma quale? Wallace vuole assolutamente scoprirlo. E capiva che il mondo moderno ci bombardava con scenari come quello della copisteria, in cui è molto facile scordarsi di questa domanda. Ci sentiamo “soli nella folla”, scrive in uno dei suoi racconti, ma non “ci fermiamo a pensare a cosa abbia dato vita a quella folla,” con il risultato che “siamo, sempre, volti in mezzo a una folla”.

Ecco cosa adoro in Wallace, questi dettagli osservati così bene, microdescrizioni di stati d’animo di intere ramificazioni del super-sistema sociale, frasi che mi fanno sentire come: “Se non lo capisci vuol dire che vivi in un altro mondo”. Era la cosa più simile ad un angelo custode che abbiamo mai avuto. Ci sono paragrafi in Infinite Jest in cui riesce ad intrappolare certe cose, qualità sfuggenti di nostri “momenti”, cose che non siamo sicuri che gli altri sentano, ma abbiamo il sospetto che forse sia così. Leggere quei passaggi è come guardare lo svilupparsi dell’inconscio collettivo su una lastra a raggi-X:

Con il braccio fuori dal finestrino come un tassista, Gately sfreccia nel territorio della Boston University. Nel territorio degli zainetti personalizzati e delle tute sportive firmate. Ragazzini senza barba con gli zaini e i capelli ritti e duri sulla testa e fronti spianate. Fronti completamente prive di rughe e di pensieri, come la crema di formaggio o le lenzuola stirate. […] Gately ha le rughe sulla fronte da quando aveva dodici anni. […] Sembra che le ragazze della Boston University non abbiano mangiato che prodotti caseari in tutta la loro vita. Queste ragazze fanno l’aerobica step. Hanno capelli lunghi puliti e spazzolati e belli. Non hanno nessun tipo di dipendenza. La strana sensazione di disperazione nel cuore del desiderio.

Il Re Pallido ha molto in comune con Infinite Jest, che pure si occupa di un gruppo di persone, unificate in maniera circostanziale – in questo caso i residenti di una casa di recupero per tossicodipendenti, o gli studenti di una accademia di tennis – si immerge nelle loro vite, creando alla fine una sorta di ruota di storie interconnesse tra loro. Ma Il Re Pallido non ricorda esattamente Infinite Jest, non ce lo fa tornare in mente, diciamo. Leggendolo si sente quanto Wallace era cambiato come scrittore, si era compresso ed era sprofondato dentro di sé. Ci sono diversi personaggi, e alcuni che possono essere definiti come personaggi principali. Come Claude Sylvanshine. Un veggente dei dati. Sa cose sulla gente, ma queste conoscenza si manifesta come piccole esplosioni di informazioni disconnesse, che non riesce a fermare. (Wallace presta parti di se a diversi personaggi, e talvolta i loro tratti si confondono). Troviamo Lane Dean Jr., che è stato un cattolico fervente ai tempi delle superiori. E Meredith Rand, la bella dell’ufficio – il resoconto passo-dopo-passo di cosa succede in una tavolata di uomini e donne (in questo caso in un bar dove i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate si ritrovano dopo il lavoro) quando arriva una persona estremamente attraente è allo stesso tempo doloroso e dotato di humor nero, un esempio di quello che cercavo di descrivere come il suo potere di osservazione, e di come doveva essere scoraggiante il trovarsi chiuso nella testa di Wallace, non nel senso della malattia, ma della sua chiarezza:

Basti dire che Meredith Rand mette i […] maschi in imbarazzo. O si innervosiscono piombando in un silenzio impacciato, come se partecipassero a un gioco in cui la posta è diventata improvvisamente altissima, oppure si scioglie loro la lingua e vogliono dominare la conversazione e si mettono a raccontare un mucchio di barzellette, e in generale sembrano volutamente privi di imbarazzo, mentre prima che Meredith Rand arrivasse, prendesse una sedia e si unisse a loro, volontà e imbarazzo erano totalmente estranei al gruppo. Le liquidatrici, da parte loro, reagiscono a questi cambiamenti in una varietà di modi: alcune si ritraggono rimpicciolendo visibilmente (come Enid Welch e Rachel Robbie Towne), altre osservano l’effetto che Meredith produce sugli uomini con una specie di cupo divertimento, altre ancora sprizzano antipatia e diventano inclini a sospiri ostili se non addirittura a fughe plateali. […] Alcuni liquidatori, al secondo bicchiere, danno spettacolo per Meredith Rand, anche se il succo dello spettacolo sta in una complessa ostentazione del fatto che non stanno dando spettacolo per Meredith Rand, anzi, non si sono quasi nemmeno accorti che è a quel tavolo. Bob McKenzie, in particolare, per poco non dà i numeri, rivolge quasi ogni commento o battuta alla persona che sta a destra o a sinistra di Meredith Rand […]

Immaginate di essere capaci di queste dissezioni, con quella risoluzione dei dettagli – come primati, se preferite – e, il che è peggio, non essere capaci di smettere. Bisognerebbe avere delle enormi quantità di empatia per riuscire a fare in modo che il mondo non si trasformi in un continuo assalto dai grotteschi toni swiftiani. Wallace non provava a rifuggirne – lo coltivava, come la sua arte richiedeva. C’è da ricordare i rischi psichici dello scrivere ai livelli che lui cercava. Come tutte le persone perbene, sono tra quelli che vogliono resistere alle tentazioni di definire il suo suicidio un gesto romantico, ma resta la sensazione che gli artisti siano esposti ai torrenti del tempo in un modo che non può che causare danni, e non c’è nulla di sbagliato nel definirlo come nobile, se fatto al servizio di qualcosa di bello. Wallace ha pagato per aver viaggiato così in profondità in se stesso, per non aver mai distolto gli occhi fino a quando era necessario per scrivere passaggi come quelli che abbiamo citato, per aver trovato gli altri interessanti tanto da dedicargli l’attenzione che serve per riuscire a scrivere scene come quelle. Ecco la ragione per cui la maggior parte di noi non riesce a scrivere un grande romanzo e neanche uno decente. Bisogna lasciare entrare una gran quantità di consapevolezza altrui nella nostra. È un male per il proprio equilibrio.

La scelta di Wallace dell’Agenzia delle Entrate come ambientazione ha senso se consideriamo che stava cercando di fare qualcosa di teologico con questo romanzo, e il ”servizio”, come lo chiamano gli impiegati, offre delle opportune sfumature gesuitiche. Usa l’Agenzia delle Entrate come Borges usava la biblioteca e Kafka i palazzi della legge: come un’analogia del mondo. Insinua un legame tra lo spostamento sotterraneo della politica dell’Agenzia delle Entrate che si trasforma da un’agenzia che ha il compito di raccogliere le tasse (cioè mettere in atto la legge) ad un ente che cerca di massimizzare il profitto, o come Wallace spiega in una nota a margine lasciata sul manoscritto, “Il vero problema è se l’Agenzia delle Entrate debba essenzialmente essere un’entità aziendale o morale”. Attraverso sottili ammiccamenti (tirando in ballo oscure cause civili), Wallace collega la nozione che l’Agenzia delle Entrate stia diventando un’azienda, all’idea, introdotta nella vita americana alla fine del diciannovesimo secolo, che agli occhi della legge, una grande azienda sia la stessa cosa che un individuo, con gli stessi diritti. Wallace non è arrivato a completare tutta l’opera, ma ci basta per capire che una versione completa de Il re pallido avrebbe operato in una logica simbolica in cui, se Agenzia delle Entrate=grande azienda, e grande azienda=individuo, allora Agenzia delle Entrate=individuo. L’agenzia sarebbe diventata una metafora per tutta l’anima politica americana.

Il romanzo ripete certe mosse, zoomando nell’infanzia o gioventù di certi personaggi, che incontriamo da adulti in altre parti del libro, nell’orbita dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate. La complessità dei personaggi si sviluppa in giustapposizione con questi scorci delle loro versioni giovanili. Wallace sta cercando di farci capire che siamo tutti complicati, che quando le persone ci sembrano stupide e sciocche, siamo noi che non stiamo facendo abbastanza attenzione, è la nostra innata testarda tendenza a vedere le altre persone come personaggi minori o maggiori nella nostra storia.

È facile farlo sembrare un libro pesante, ma invece spesso è divertente, e non sempre in maniera educata. Incontriamo il super ottimista Leonard Stecyk, con un “sorriso così largo da apparire quasi doloroso”, una versione di qualcuno che ognuno di noi conosce o forse anche è in qualche misura. Da bambino era così altruista che tutti quelli che incontrava non potevano che odiarlo. ’Un’insegnante nella cui aula il bambino propone un progetto di riorganizzazione per i ganci appendiabiti e gli armadietti delle scarpe che tappezzano una parete […] finisce col brandire le forbici smussate minacciando di uccidere prima il bambino e poi se stessa.” (Non vi rovinerò una bella scena dicendovi cosa l’insegnante di tecnica alle superiori pensa di lui.)

Tristemente, è attraverso questo aspetto del libro – il salto avanti e indietro tra il passato recente (all’Agenzia delle Entrate) e il passato più lontano (gli anni formativi dei personaggi) – che arriviamo a capire cosa l’editore intenda per romanzo ”incompiuto”. Lo schema non funziona. Anzi è quasi assente. Wallace ha faticato per comporre i temi di queste vite in maniera sinfonica, ma non c’è riuscito o, per dirla tutta, non c’è nemmeno arrivato vicino.

Eppure anche in questo stato frammentario, Il re pallido contiene quello che di sicuro è la migliore narrativa di quest’anno. È arduo descrivere la perfezione di alcuni di questi pezzi, tra cui il capitolo (pubblicato sul New Yorker) in cui Lane Dean Jr. cerca di capire se ama o meno la sua fidanzata del college, Sheri, che aspetta un figlio da lui. Se le dice che la ama, lei lo terrà, e passeranno il resto della vita assieme (come poi succede). Nessuno dei due ha però la minima idea di cosa sia l’amore o come interpretare l’uso di questa parola da parte dell’altro: si stanno basando su di una cattiva traduzione. Ma quello che diranno in questo momento determinerà le loro vite. Wallace tratta questa scena d’amore adolescenziale con enorme serietà e fedeltà alla consapevolezza emotiva, tanto da darle una grandezza degna di Madame Bovary. Piccoli dettagli descrittivi che gli sono congeniali sono disseminati ovunque – ad esempio che le figure nel foglio laminato con le istruzioni di sicurezza dell’aereo hanno “braccia incrociate in maniera funeraria”, o che dal finestrino dell’aereo il traffico sembra scorrere “con un pathos futile e senza senso di cui non ci si accorge da terra”. Questi non sono passaggi vistosi. Sono solo descrizioni stranamente precise delle cose che facciamo o vediamo. Entriamo dentro e riconosciamo l’ambiente degli uffici moderni: “La scrivania praticamente un’astrazione. Il sussurro di una climatizzazione priva di fonte”. Gli amici che si sono lasciati nelle cittadine vengono immaginati “vendersi assicurazioni tra di loro, bere liquori del supermercato, guardare la televisione, aspettare la formalità del primo infarto.” Michael Pietsch, l’editor del libro, mi ha indicato un capitolo surreale sul finale, dove Lane Dean Jr., ormai adulto e impiegato dell’Agenzia delle Entrate, ha una conversazione con uno degli spiriti di agenti morti che girano per gli uffici. Pietsch definisce questo passaggio “pienamente fiorente”, e “densamente intricato e fitto come niente di quello che aveva scritto prima”. Un tour de force in miniatura, nemmeno venti pagine, tutto dialoghi, che ricorda in alcune parti il capitolo “Nighttown” dell’Ulisse. Quando ho chiesto a Pietsch come si immaginava che Il re pallido sarebbe stato completato, mi ha risposto “Un libro in cui anche altri capitoli sarebbero stato così ricchi e fitti come questo”, ossia un libro che ci mancherà in maniera fervida.

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Le pagine più interessanti ne Il Re Pallido – che dominano in modo interessante il romanzo – hanno a che fare con l’infanzia della giovane Toni Ware, un personaggio che appare raramente nelle parti del romanzo sull’Agenzia delle Entrate. Resta nella periferia; Wallace non era ancora arrivato a lei. Ma i capitoli sui suoi ricordi di come era cresciuta in uno spettrale parco per roulotte, con una madre malata di mente che portava a casa una serie di fidanzati molesti, sono dei pezzi di prosa formidabili. In più, non somigliano a niente di ciò che Wallace aveva scritto prima. Non trovando parole migliori, potremmo dire che sono privi di coscienza di sé. Wallace si lascia scrivere nel modo in cui i grandi scrittori fanno, nel momento in cui le storie non hanno tempo per i tuoi stessi sofismi interiori. Se è vero, come è stato detto, che Wallace non riusciva con Il Re Pallido a trovare un altro livello per andare oltre Infinite Jest, forse lo trova almeno in questo pagine.

Viaggiarono ancora una volta di notte. Sotto una luna che sorgeva rotonda davanti a loro. Quello che veniva definito il sedile posteriore del furgone era una stretta mensola sulla quale la ragazzina poteva dormire se metteva le gambe nel vuoto dietro i veri sedili posteriori i cui poggiatesta possedevano il lucore opaco dei capelli sporchi. Il disordine e la puzza di lievito indicavano che in quel furgone qualcuno ci abitava o ci aveva abitato; il furgone e il suo uomo avevano lo stesso odore. La ragazzina con la maglietta di cotone e i jeans sbiaditi alle ginocchia. La concezione che la madre aveva dei maschi era che li usava come una fattucchiera gli animali, quale segno e oggetto dei suoi poteri soprannaturali. La parola che usava per loro, a cui la ragazzina non obiettava, era: “familiari”. Mori con le basette che succhiavano fiammiferi di legno e schiacciavano lattine con le mani. Di cui le falde dei cappelli avevano righe di sudore come anelli degli alberi. I cui occhi ti strisciavano addosso nello specchietto retrovisore. Uomini che era inconcepibile fossero mai stati a loro volta bambini o avessero guardato nudi dal basso in alto qualcuno di cui si fidavano, con un giocattolo. Ai quali la madre parlava come fossero dei poppanti facendosi trattare come una bambola senza testa: bistrattare.

A volte, anche nel mezzo della bellezza o del terrore, c’è un’ondata di parodia o di pastiche nelle sezioni con Toni Ware. Wallace sembra prendere in giro il peggior Cormac McCarthy, l’incorreggibile McCarthy che, quando vuole scrivere “funghi velenosi” scrive “funghi con strombature dentellate e membranose sotto cui i rospi pare facciano la siesta.” Wallace fa ricordare a Toni Ware i ragazzi che “portavano grossi cappelli spiegazzati e lacci di cuoio al collo e certi sfoggiavano turchesi sulla persona, e uno l’aveva aiutata a svuotare il serbatoio sanitario della roulotte pretendendo poi in cambio un rapporto orale.” Questa strana incertezza di tono è accresciuta quando il passato atroce di Toni ricorre successivamente nel libro, ma questa volta con il tono di un altro personaggio, che inizia con “La mamma di Toni era un po’ fuori di testa…blah, blah”, come se la storia di ognuno di noi non fosse che una questione di tecnica. Tuttavia questo passaggio a prima vista frivolo, successivamente scivola di nuovo nello stesso stile in terza persona, e ci riporta alla pagina più memorabile del libro, la scena della morte della mamma di Toni. Come se Wallace non riuscisse a resistere a questa nuova voce. Forse possiamo concludere che la sua era una ricerca di qualcosa di più soddisfacentemente convenzionale, di più adulto, nel suo lavoro, e che questi capitoli siano solo lampi entusiasmanti di un nuovo Wallace, tragicamente mai nato…

° ° ° ° °

Aspettate un attimo – stiamo parlando di David Foster Wallace. Le cose non possono essere così semplici, e tanto meno così melense. Ovviamente subito dopo l’ultima frase del capitolo su Toni Ware, come per punirci per il fatto che ci sia piaciuto più del resto del libro, Wallace fa una cosa che può essere descritta come un vero e proprio schiaffo sul torace. Dopo averci servito una dose di virtù vecchio stampo, pagine e pagine di scrittura di tipo classico, entra nel capitolo più arci-meta, più fitto di note, ammiccante e consapevole di esserlo, intelligente che la metà bastava, ubriacante con trucchetti da post-modernismo che abbia mai scritto. È qualcosa di perverso, come se Wallace ci ascoltasse, nella sua testa, scrivere la stessa lettera che lui ha scritto a Eggers per L’opera struggente di un formidabile genio e che Eggers ha messo nel retro di copertina come citazione e che dicevano, in parte, “Ho ammirato i molti inebrianti pezzi comici post-moderni,” ma “le parti in cui ti sei lasciato andare e hai costruito dei madrigali dolorosi […] sono le parti più artistiche del libro.” Riesce a sentire che gli diciamo qualcosa del genere, subito dopo che il pezzo su Toni Ware ci ha distrutto, e lui ci risponde, molto enfaticamente, “Scusami ma questo problema del testo è proprio parte di quello che sto cercando di dire. Senza di questo starei suonando musica da camera.”

Saranno i critici del futuro a dibattere sui meriti estetici di questa decisione. Wallace di certe non era per niente tranquillo su questo punto. Spesso mentre leggevo Il Re Pallido mi sono tornati in mente dei pensieri riferiti al saggio che ha scritto su Dostoevskij:

[Questa nuova] biografia ci spinge a domandarci come mai sembriamo richiedere alla nostra arte di tenere una distanza ironica da profonde convinzioni o domande disperate, costringendo cosí gli scrittori contemporanei a ridicolizzarle o a cercare di farle passare camuffandole con qualche trucco formale come citazioni intertestuali o giustapposizioni incongrue, relegando le cose veramente pressanti fra asterischi, come parte di qualche artificio polivalente di defamiliarizzazione o qualche altra cagata del genere. La povertà tematica della nostra letteratura si spiega ovviamente in parte con il nostro secolo e la nostra situazione.

È quasi come se stesse descrivendo Il Re Pallido. Come se avesse dentro la testa un critico ostile che odia il suo lavoro. Tutti gli scrittori hanno queste voci, ma in Wallace erano praticamente personalità aggiunte. Nel capitolo-trabocchetto ci viene detto che il romanzo che stiamo leggendo è in realtà un “libro di memorie in prima persona”, la vera storia di un uomo che si chiama David Foster Wallace. E c’è anche un altro personaggio nel libro che si chiama David F. Wallace. Come anche uno che si chiama David Cusck, che condivide tante cose, biograficamente, con il vero David Foster Wallace.

Non si tratta semplicemente di trucchi da giocoliere. E non è nemmeno una questione di cosa intendesse veramente Wallace, visto che non sappiamo cosa intendeva. Michael Pietsch ha fatto un lavoro egregio come editore – da lettori gli dobbiamo molto – ma non c’era molto da editare. Sarebbe disonesto dire altrimenti. La prosa non arriva mai a possedere quello che Poe chiamava “unità di impressione” nel modo in cui Infinite Jest, nonostante la struttura a matassa, ci riusciva, o ci riusciva a tratti. In più c’è la questione della pubblicazione postuma. Ti priva di quella sensazione di piacere, che si ha mentre si legge, di essere in dialogo con le decisioni dell’autore, dando i propri giudizi e allo stesso tempo provando l’eccitazione di esserne testimone, che è parte dell’emozione creata dai libri. Qui non sai quali sono queste decisioni. Ogni parola che leggi e che non ti piace pensi “Beh, l’avrebbe cambiata.” Mentre tutto quello che funziona, quello diventa il vero Wallace. Ma anche le scelte principali, come cosa usare come finale del romanzo, sono state fatte, per necessità, non da Wallace, ma da Pietsch. “Non c’era un sommario o una sequenza dei capitoli”, mi ha detto, “e nemmeno un’indicazione di cosa doveva essere il capitolo iniziale e finale.” A questo punto la questione se questo sia o meno “un romanzo di Wallace” rimane irrisolvibile.

Se volessimo un altro finale, potremmo dire una cosa: Il Re Pallido, per come lo conosciamo, è vero rispetto a Wallace almeno per un aspetto importante. Era egli stesso incompiuto e irrisolto. C’è una bella poesia di Stevie Smith che si chiama “Era sposato?” in cui sostiene che gli uomini siano più eroici degli dei. Le difficoltà degli uomini sono più grandi, dice, “perché sono così contrastati.”. Wallace era così contrastato. Era ambivalente e in conflitto, tra le altre cose, con i diversi modi di scrivere il suo romanzo. Non era sicuro di quale preferiva, o come potessero andare bene insieme. E cosa sarebbe successo se quello a cui dava più valore non sarebbe stato quello che gli veniva più congeniale?

Mettere da parte queste contraddizioni avrebbe significato abbandonare la fonte della sua forza. Queste contraddizioni lo hanno salvato dal suo moralismo. Era uno scrittore che, in lotta per sollevarsi dal rumore del suo tempo, restava disperatamente parte di esso, sensibile alle sue voci anche mentre cercava di controllarle. La sua realtà, come scrisse una volta, era stata “MTVizzata”. Ecco perché, meglio di tutti, sembra parlare dall’interno di un tornado. (Un simbolo che lo ha inseguito in tutta la sua opera, e che ricompare ne Il Re Pallido). Ed è questa qualità, di essere diviso all’interno, che rischia di essere appiattita e cancellata via dalla sua storia dall’idolatria post-mortem, che lo vuole un distributore di saggezza. Dobbiamo proteggerci da questo. Perderemmo il Wallace più essenziale, quello che ammicca di continuo, riconsidera, spera di non aver detto quello che ha appena detto. Quelli erano i momenti in cui la sua voce era più autenticamente parte del nostro tempo, e sono la ragione per cui la gente un giorno sarà capace di leggerlo e sentire cosa significava essere vivi oggi.

L’opera di Wallace sarà considerata un grande fallimento, e non nel senso peggiorativo, ma nel senso speciale che usava Faulkner quando diceva dei romanzieri americani “Giudico la nostra opera sulla base del nostro splendido fallimento nel fare l’impossibile”. Wallace ha fallito in maniera stupenda. Non c’è nessun mistero sul perché gli venisse così difficile finire questo romanzo. Gli scorci che vediamo di quello che voleva che fosse – un vasto modello di qualcosa di piatto e schiacciante, dentro cui una costellazione di anime individuali avrebbe splenduto nella sua luminosità, e le connessioni che ci tengono tutti insieme in questo mondo si sarebbero anche loro accese, come filamenti – questo avrebbe dovuto essere un romanzo di un livello straordinario, e crediamo che lo scrittore nel pieno delle sue forze sarebbe stato abbastanza forte per riuscirci. Ma non sempre ha avuto la forza necessaria.

 

John Jeremiah Sullivan collabora da molto tempo con la rivista GQ, e recentemente anche con The New York Times Magazine e The Paris Review. È stato premiato due volte con il National Magazine Award. È autore di due libri, Blood Horses (FSG, 2004) e la raccolta di saggi Pulphead (FSG, 2011).


[1] Questa nota a piè di pagina non è soltanto un tributo, ma un annesso reale e difendibile a questo pezzo: avrei dovuto scrivere io il pezzo su Federer per Play, la rivista sportiva pubblicata per troppi pochi anni dal New York Times. Come Wallace, avevo giocato a tennis a scuola e continuavo a seguire questo sport. Era stato facile rispondere quando Play mi chiamò per dirmi che avevano accesso a Federer a Wimbledon. Tuttavia GQ non mi permise di farlo. A quanto pare avevo firmato qualcosa che il mio agente descrisse come un “contratto,” che mi impediva di scrivere per altre testate. In più, per correttezza nei confronti di GQ, da qualche mese non rendevo molto, avevo mandato all’aria un paio di pezzi e non potevo certo mettermi a discutere. Alla fine della discussione con quello che sarebbe stato il mio editor, e dopo avergli detto che non se ne faceva nulla, fui io a suggerirgli di contattare Wallace, che per me era come dire “perché non chiami la Casa Bianca?” L’editor si trovò molto in imbarazzo. Disse “Beh, a dire il vero abbiamo chiamato prima lui. E non poteva farlo”. In ogni modo, Wallace doveva aver cambiato idea. Diversi mesi dopo, c’era il suo saggio sul mio tavolo di cucina. Leggendolo provai sentimenti complessi. Ad un certo livello era gratificante vedere che aveva usato una chiave di lettura che anch’io avevo vagamente pensato di trattare, e cioè che la grandezza di Federer si trovava nel modo in cui sviluppava il suo gioco elegante a tutto campo dall’interno della spietata velocità e brutalità del gioco di potenza dalla linea di fondo. Ma Wallace lo aveva spiegato con un’accuratezza e una naturalezza che sapevo di non poter raggiungere o nemmeno considerare come possibile. In questa umiliazione c’era una certa strana intimità. Riuscii a sentire, per un breve e confuso istante, esattamente come il cervello di Wallace avrebbe trattato un soggetto che io avevo avuto nel mio, come nel vuoto, prima di sapere che lo avrebbe trattato lui. Ad ogni modo, questo è il mio contributo all’opera di Wallace, il suo ultimo pezzo per una rivista. Non voglio far sentire in colpa il lettore che starà pensando che il mondo delle lettere abbia solo guadagnato da questa sostituzione. Sto solo dicendo che è stato un piacere.

[2] Spesso Wallace preferiva queste situazioni. Ricordiamoci che si fece invitare sul set di un film di David Lynch rassicurando lo staff che non aveva nessuna voglia di intervistare il regista. All’inizio del 2008, GQ gli chiese di scrivere sui discorsi di Obama, o più in generale, sulla retorica politica in America. Ancora una volta era un’idea evanescente che gli veniva presentata, ma Wallace vide delle potenzialità, e noi cominciammo a chiedere informazioni allo staff di Obama che organizzava la campagna, e facemmo anche qualche prenotazione per lui perché andasse a Denver durante la convention. La nostra idea era di piazzarlo il più vicino possibile a coloro che scrivevano i discorsi (e quindi il più vicino possibile ad Obama stesso). Ma Wallace rispose, molto educatamente, che non era questo che lo interessava. Avrebbe voluto essere messo assieme con qualcuna delle “api operaie” del team che preparava i discorsi – per scoprire come il linguaggio fosse usato da, come la definì, “la nona persona in panchina”. E forse era per una questione di carattere che Wallace si trovava meglio a fare il reporter stando lontano dalle luci della ribalta.

[3] In verità qualcosa cambia. Ci sono momenti da paura, e ci sono sdoppiamenti. Appaiono dei fantasmi. Uno dei personaggi si scopre essere un veggente. Una nota alla fine del libro suggerisce che un team di agenti-X, in qualche modo, tutti dotati di qualità inusuali, si stia venendo a formare sotto la guida di un piccolo gruppo di supervisori. La storia è ambientata in un mondo in cui Bush, e non Reagan, è stato eletto nel 1980 (Reagan era il suo vice). Ma queste intrusioni di misticismo non creano problemi nella trama realistica del romanzo.

2 COMMENTS

  1. “Bisogna lasciare entrare una gran quantità di consapevolezza altrui nella nostra. È un male per il proprio equilibrio.”

    sì. e poi è sorprendente il cumulo di energia creativa che ha lasciato “dietro” di sè. il lavoro della moglie, l’influenza che ha avuto su Franzen.

  2. Quelle che cose che non ti aspetti che tutto il mondo avverta… o almeno una certa parte del mondo. Wallace è stata la più intima e potente connessione tra lettori che il mondo ricorderà da qui in poi.

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giuseppe zucco
giuseppe zucco
Alcuni suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Rassegna Sindacale, Colla. Nel 2010 ha partecipato alle Prove d’Autore di Esor-dire, a Cuneo. Sempre nel 2010, nel numero 52, la rivista «Nuovi Argomenti» ha inserito un suo racconto nella sezione monografica Mai sentito, segnalando l’esordio di cinque nuovi scrittori.