Per una critica comparata dei dispositivi culturali

di Andrea Inglese

La questione del “lavoro culturale”, che si è rifatta centrale da almeno un anno a questa parte grazie ai diversi movimenti attivi a livello nazionale per una riappropriazione della cultura (Teatro Valle, TQ, ecc.), appare assai diversa se guardata non più dall’Italia ma dalla Francia. Uno spostamento di visuale ci sembra necessario, tanto più che il termine “cultura” non solo risuona come vuota tautologia nei ritornelli pubblicitari delle industrie culturali, ma spesso anche nei programmi nati dall’esigenza politica di contestare e trasformare istituzioni o monopoli esistenti. Inoltre, in Italia, dopo il ventennio berlusconiano, il “ritorno alla cultura” pare incontrare un nuovo consenso: bisogna salvarla, difenderla, produrne e farne circolare di più. Questi gli imperativi largamente condivisi. Poi ci si divide – e radicalmente – sulle ricette: privato, pubblico o comune. In realtà, vi è se non altro una certa convergenza nel negare per principio ogni virtù dell’intervento pubblico in nome di un antistatalismo che va dal fronte confindustriale a quello di molti difensori della cultura come bene comune. Proprio per questo il caso francese può risultare importante. In Francia, sotto governi sia di destra che di sinistra, lo Stato ha continuativamente investito in ambiti diversi dell’attività culturale e si è posto come garante, contro il libero mercato, delle prerogative non puramente commerciali della creazione artistica, specialmente in sede cinematografica e editoriale. Ma che ne è, oggi, della cosiddetta “eccezione culturale” francese?

Abbiamo voluto parlarne non con un economista o un sociologo, ma con qualcuno che, con passione e spirito militante, si situa compiutamente all’interno delle pratiche del settore culturale: Jean-Marc Adolphe, critico di danza contemporanea, consulente artistico del Teatro della Bastiglia a Parigi e direttore della rivista “Mouvement”, bimestrale sottotitolato “arti e politiche”, che esplora le diverse forme della creazione contemporanea (danza, arti visive, musica, teatro, ecc.). Le risposte di Adolphe hanno un carattere estremamente concreto e nascono da una lunga esperienza fatta sia in Francia che all’estero. Piuttosto che alle strutture sulle quali riposa l’attività culturale, che siano associative, statali o private, egli sembra riflettere sulle finalità che la animano. Sono le finalità, che devono giungere a condizionare le strutture di cui si servono, e non viceversa. E questo non dipende tanto dalla “politica culturale” di un paese o di un governo, ma dalla “cultura politica” di coloro che operano all’interno delle istituzioni culturali a tutti i livelli, dagli amministratori, ai tecnici, ai creatori.

In una prospettiva, invece, teorica, il filosofo Alain Brossat inquadra il dispositivo dell’eccezione culturale francese entro un orizzonte più vasto, quello della democrazia culturale. Il brano inedito che pubblichiamo riprende in forma sintetica le analisi contenute in un saggio del 2008, Il grande disgusto culturale (1). Brossat riconsidera i motivi di un’urgente critica della cultura, denunciando l’espansione tendenzialmente illimitata della sfera culturale all’interno delle nostre vite. La critica adorniana alla cultura di massa deve essere rivista alla luce di un dispositivo più complesso e raffinato, che chiama ognuno di noi a farsi soggetto culturale unico, costituendo attivamente il proprio corredo di stili e gusti. Inutile sottolineare quanto il “lavoratore culturale” sia per primo coinvolto in questo processo di soggettivazione. Ma più cresce lo spazio dell’espressione di sé, che le terminazioni tecnologiche dell’industria culturale rendono possibile, più si desertifica lo spazio politico dei conflitti reali. A livello ancor più generale, la cultura piuttosto che regolare in modo inventivo e rischioso il nostro adattamento al mondo, regola il nostro adattamento a quel sistema capitalistico di eterno e individualizzato consumo che ci tiene al riparo dal mondo e, nello stesso tempo, privi di ogni effettiva presa su di esso. La democratizzazione della cultura non serve più un’ideale di emancipazione, ma quello di una narcosi volontaria, garantita ad ognuno da un congruo approvvigionamento di derrate culturali, secondo i propri gusti e talenti.

In un tale contesto diventa difficile attribuire specifiche potenzialità rivoluzionarie ai lavoratori culturali (o cognitivi), fintanto almeno che non rinuncino a considerare la loro specificità come una garanzia di chiaroveggenza strategica e di radicalità politica. Rinuncia, questa, che è stata determinante proprio in Francia per il movimento degli intermittenti dello spettacolo all’altezza degli anni Novanta, come sottolineava Maurizio Lazzarato in un’intervista apparsa sul n° 14 di “alfabeta2”. Il movimento, o almeno la sua componente maggioritaria, aveva deciso di battezzare il proprio coordinamento “Intermittenti e precari”, evidenziando come il precariato degli intermittenti dello spettacolo corrispondesse alla condizioni più generali del mondo del lavoro. In questo modo accettavano di sacrificare la loro specificità creativa a favore di una ricomposizione più vasta delle lotte dei differenti soggetti sottoposti al lavoro discontinuo. L’articolo di Carlo Formenti sul numero scorso di “alfabeta2” ribadisce la necessità di porsi, anche in Italia, in questa prospettiva di ricomposizione, abbandonando “l’ostinata identificazione del soggetto antagonista con il lavoro cognitivo”.

Quanto agli artisti propriamente detti, l’unico privilegio che hanno nei regimi della democrazia culturale è quello di cui scriveva Mark Rothko già all’inizio degli anni Quaranta: “la libertà di fare la fame”. La categoria più sconveniente che si possa affibbiare a un artista mi sembra, in effetti, quella di “lavoratore culturale”. Bisognerebbe ai giorni nostri rinverdire certe inimicizie, come quella tra artista e cultura, rileggendosi magari un piccolo classico sull’argomento, Asfissiante cultura di Jean Dubuffet, apparso (non a caso) in Francia nel 1968. All’epoca, nemici dell’arte erano i pastori dello spirito, i custodi dei valori culturali, i professori, coloro che venivano a giudicare. Oggi, più subdolamente, i nemici sono i professionisti della cultura, coloro che vengono a dare lavoro all’artista, ad assoldarlo nell’industria culturale o nel suo indotto. (A volte lo sono gli artisti stessi, che vestono più realisti del re i panni degli operatori culturali.)

Uno scrittore, un artista visivo, un musicista si guadagna da vivere come può, persino con la propria arte, persino con le proprie opere. Ma un’opera, a differenza di un prodotto culturale, nasce da un adattamento fallito, da qualche buco nel sistema difensivo della cultura circolante, laddove un individuo è fatalmente spinto, e riesce malgrado tutto, a “lavorare” su un segmento traumatico di reale. L’artista, quindi, non per scelta elettiva, ma per qualche forma di fatalità biografica, opera sempre, e si costruisce per questo una forma, a partire da una mancata mediazione, laddove i dispositivi culturali lo hanno abbandonato, o risultano inservibili. Da qui una radicata diffidenza tra artisti e cultura, e anche una certa incompatibilità, che non dovrebbe essere troppo facilmente occultata in nome di qualche disincantata e cinica urbanità. Ma nemmeno in nome di giuste battaglie di natura politica, come quelle contro il precariato diffuso.



(1) Alain Brossat, Le grand dégoût culturel, Seuil, 2008.

*

Questo testo è apparso sul numero di ottobre di “alfabeta2” all’interno di un dossier dedicato all’eccezione culturale francese.

8 COMMENTS

  1. Proficuo e necessario, mantenere le distanze tra il lavoratore culturale e l’artista – che niente vieta convivano nella medesima persona, a sue spese: anche di viaggio da una parte all’altra senza perdere l’orientamento.

    Il lavoratore culturale cerca di ottenere una rimarginazione laddove l’artista trova o attua una frattura e se per il lavoratore culturale uno degli obbiettivi migliori e maggiori è il riconsolidamento di una comunità solidale, civile e attiva, nel caso dell’artista da colpire e da scolpire c’è ancora, principalmente, l’individuo momentaneamente strappato dal riparo del mondo collettivo.

    Non c’è niente di più noioso della solfa sull’artista-eroe separato dalla società da lasciare alle cure da buoni-maestrini che sarebbero poi i lavoratori culturali, però non c’è nemmeno niente di così miope del non notare una differenza fondamentale: i lavoratori culturali sono immediatamente “nella” società, gli artisti dalla società devono invece riuscire a distaccarsi quel tanto che è loro necessario perché possano osservarla, criticarla per offenderla e rivelarla ai suoi stessi occhi.

    Per questo penso che tra lavoratori culturali e artisti possa e debba esserci la più accesa e fruttuosa e costruttiva forma di concorrenza – anche di prestigio – possibile.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  2. Mi veniva da pensare che il lemma “lavoro culturale” nella società italiana post-moderna e post-berlusconiana sembra quasi un ossimoro e questo è molto triste.
    Di chi è la colpa?
    Probabilmente di un sistema dei Media che ha sistematicamente celebrato il nulla e relative singole nullità parolacciare (che fanno però audience) invece di rendere merito a quanti avrebbero davvero titoli e qualità per essere proposti quali modelli di riferimento per giovani che sostanzialmente si specchiano nella televisione senza capirne gli infiniti trabocchetti che, alla fin fine, mirano sempre allo stesso obiettivo: vendere prodotti – spesso inutili – a una pletora di omologati acritici perennemente a caccia… di sé stessi.

  3. il problema è che la supercazzola è un genere molto praticato,oltre che in politica,pure nel mondo che ruota intorno alla cultura.Con relative,conseguenti,rendite di posizione.Questo determina il cortocircuito che determina certi buchi di bilancio non molto facili da giustificare anche per chi conosce i costi dell’incultura.E ora se gentilmente poteste darmi il numero della vostra american express forse potrei persino non sbattermi per cercare di inventare qualcosa per vincere il concorso dell’associazione culturale doppiozero(sul serio)

    http://www.trumpetboredom.com/sounds/Trumpet%20Boredom%20-%20Godfather.mp3

  4. Alcuni decenni fa, gli intellettuali avrebbero desiderato moltissimo che la sfera culturale si allargasse smisuratamente nella vita quotidiana delle persone. In effetti, oggi siamo travolti da microscopici “bit” di cultura, che spesso formano un rumore di fondo continuo, ma rischiamo di perdere di vista la “profondità”: tutti oggi possono “imparare” migliaia di cose da Youtube, peccato che non cresca, almeno in Italia, la quota di lettori forti. Lo zoccolo duro, diciamo così, rimane in proporzione quasi sempre lo stesso. Quindi la strada è ancora lunga. Voleva dire questo, l’articolo?

  5. Curioso che, in chiave più editoriale, la stessa questione appaia su vibrisse in un commento dei post sul rapporto scrittore-editor: “esiste una mitologia – sia positiva, sia negativa – che sopravvaluta il ruolo dell’editor. Diciamo che tanto più l’autore si trasforma in un fornitore di testi, tanto più l’editor è importante. E questa è una trasformazione in atto in una parte dell’industria culturale mondiale. L’editor, peraltro, è principalmente un tecnico; mentre l’autore è principalmente un creativo”. Da questo punto di vista, è la figura dell’operatore culturale debole a essere a vero rischio di marginalizzazione economica, e quindi sociale. L’autore debole, per definizione, lo era anche prima del boom consumistico, condannato a essere insieme autore professionista, quindi figura forte nel mondo del lavoro culturale, o a non esserci del tutto.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.