Blaterare sagacemente: un itinerario attraverso il “Faldone”
di Andrea Inglese
Vincenzo Ostuni si nutre di varie e ben assimilate eredità del nostro Novecento. In questo, come in altri casi, risulta quindi poco utile un inventario, redatto con lente filologica, delle varie influenze in gioco nella sua scrittura. Mi sembra, però, che dei maestri di cui si trova traccia nel suo Faldone, uno almeno meriti una particolare menzione. Alludo a Edoardo Sanguineti, di cui il Faldone sembra aver elaborato alcuni tratti della potente macchina versificatoria. Dico subito che il riferimento all’opera di Sanguineti ha, comunque, un valore fondamentalmente contrastivo, permette cioè di misurare tutta la peculiarità dell’opera di Ostuni. Se da un lato, infatti, Ostuni mostra di aver acquisito pienamente la lezione di Sanguineti, piegandola alle proprie e più diverse esigenze espressive, dall’altro mostra di perseguire i suoi obiettivi con un oltranzismo, che rivela possibilità non ancora esplorate in quel tipo di esperienza novecentesca.
L’oltranzismo poetico di Ostuni necessita di qualche chiarimento. Egli, abbiamo detto, sfrutta alcuni elementi propri dell’ars poetica sanguinetiana: 1) l’andamento martellante del discorso, che introduce nel registro sobrio e raziocinante una serie di elementi destinati a scandire ritmicamente la linearità dell’argomentazione: enumerazioni, incisi, segni grafici di puntazione, ecc.; 2) il talento epigrammatico, che rafforza sul versante semantico la memorabilità del dettato poetico, così come il ritmo (e il metro) la rafforzano sul versante fonetico-musicale; 3) in alcune sezioni del Faldone, il repertorio delle situazioni quotidiane e oggettivamente riconoscibili – Sanguineti citava lo Stendhal del “piccolo fatto vero”. Sul piano della disposizione grafica, però, è riscontrabile una disseminazione a ventaglio dei versi, che ricorda eventualmente il Pagliarani di Lezioni di Fisica e Fecaloro. Quanto all’abuso dei verbi alla seconda persona singolare, che in Sanguineti creano quella costante intimità impudica e un po’ oscena con il lettore, quasi fosse un intruso permanente all’interno del rapporto di coppia, in Ostuni rimanda piuttosto alla tradizione del dialogo filosofico e al suo presupposto affettivo, che è il rapporto fraterno e d’amicizia.
Con Ostuni, in ogni caso, passiamo dalle “cartoline” al “faldone”, e non è semplicemente un cambio di genere, ma un salto per certi versi epistemologico. Postkarten rimane in fondo, pur conseguendo la sua strategia antilirica, all’interno del discorso letterario, come serie di enunciati discreti, che si candidano appunto a una loro memorablità. Inoltre, l’affabulare raziocinante di Sanguineti è incentrata sul piccolo ego dell’autore, diffratto finché si vuole in anti-eroiche e comiche controfigure, ma pur sempre orbitanti in una grigia e crepuscolare aneddotica. Non è questo il caso del Faldone. Con il Faldone si ritorna per certi versi a quella dimensione del continuo informale, presente all’inizio del percorso sanguinetiano: la palude del Laborintus. Ma nel Faldone non vi è nessuna necessità d’introdurre simbologie junghiane e di trasfigurare metaforicamente i vissuti psichici. Altra è la continuità del Faldone, e si costituisce nell’inesauribile resoconto quotidiano, nel suo sfaldarsi per ipotesi e versioni inconciliabili o complementari, ma mai riconducibili ad una forma compiuta, a un significato definitivo. Quando Sanguineti, chiudeva una poesia con la sua provocatoria verità: “non ho creduto in niente”, lo faceva poggiandosi su uno zoccolo dottrinario che Marx, Gramsci, e tanti altri autori venivano a cementare. Dopotutto, nonostante i suoi clowneschi giochi d’inconsistenza, Sanguineti è rimasto più un uomo della modernità che della post-modernità: in mezzo a tanti idoli e a tante macerie, sussistono degli austeri principi dottrinari, d’ordine materialistico, una visione della totalità storica e delle prospettive politiche ben delineate. L’interesse del Faldone, in un certo senso, nasce proprio dall’elusione di ogni zoccolo dottrinario, per sperimentare una sorta d’infinita deriva ideologica, mai ilare e spensierata però. Ostuni conosce tutte le delizie e le insidie della decostruzione. Parla con il nostro linguaggio, che in quanto tale è irrimediabilmente post-ideologico. Non nel senso tendenzioso e banale di un linguaggio scevro da ideologie. Non è, infatti, il linguaggio ad essere post-ideologico, ma il soggetto che lo usa, che quasi mai vi aderisce interamente. Questo almeno è il destino dei ceti medi e medio-alti, che si muovono con grande scetticismo in mezzo ai grandi sistemi dottrinari della modernità, senza pertanto poterne mai fare a meno.
In questo senso Ostuni ci presenta, nel Faldone, un oggetto testuale ambiguo, e forse più ambiguo di quanto l’autore stesso lo consideri. Il Faldone funge da grande archivio del corredo sintomatico di quella che è la coscienza della classe medio-alta, nella sua fase attuale. Questa coscienza – che non è quindi riducibile all’io puntuale dell’autore-protagonista dei testi – è presa in un dilemma per ora irrisolvibile: essa corrisponde a un individuo che ha subito un’avanzata formazione intellettuale, ma non per questo gli è garantito un pieno e soddisfacente inserimento dal punto di vista lavorativo ed economico all’interno della società attuale. Egli possiede i privilegi culturali della sua classe, senza per forza possederne i privilegi materiali. Siamo di fronte, qui, a qualcosa di più che un’incertezza puramente sociologica. Gli strumenti intellettuali acquisiti, infatti, sono sufficientemente sofisticati sia per mettere in crisi l’ideologia dominante della fascia più esigua e ricca della società, sia per guardare con scetticismo alle grandi dottrine di palingenesi sociale, etnica o religiosa, che riscuotono ancora successo presso gli strati popolari.
Il Faldone, quindi, è qualcosa di diverso da uno zibaldone-diario, condotto secondo le esigenze espressive, i rovelli teorici, i nodi emotivi di un’autore-versificatore-protagonista. In molte pagine, alcune delle quali estremamente belle e riuscite, il Faldone è anche questo. Penso a quelle più schiettamente autobiografiche, delle sezioni centrali ad esempio (Il linguaggio segreto dei neonati, G., Pavor nocturnus). Ma il Faldone è anche altro: testimonia, quasi impersonalmente, nella figura di un soggetto che io amo definire spettrale, di una deriva ideologica perpetua. Ostuni pare, in realtà, perfettamente consapevole di questo strategia più generale, tanto che costruisce un’immagine basso-comica in grado di riassumerla icasticamente:“(«Tuttavia, rivendico un’utilità peristaltica, in buona sostanza: ingerire materie di risulta, bizzarrie antropiche, margini organici / – masticare deglutire far passare per esofagi pilori ecc.; / ruminare, anche – la mia specialità; e di nuovo / sputare o defecare quello che posso o devo; / e infine, dissimulando o sovra simulando acidi gastrici e una teoria di umori, / porgere a inchino, fra provvisori mastici, l’organizzata residua pietanza)”. La funzione digerente del Faldone sta a segnalare, in un vuoto metafisico e ideologico consapevole, l’enorme quantità di materiale ideologico in circolazione sotto forma di frammenti, prelievi, marche. Ostuni, in questi versi, scioglie ogni equivoco: egli non pretende, come in certi slanci avanguardistici, di cavalcare l’enciclopedismo, di farne un’arma personale, di potenziamento della voce d’autore; al contrario, egli mostra di esserne, come tutti noi, succube, in quanto la disponibilità di marche o geroglifici culturali, non può che avere un’effimera funzione narcisistica, di autosoddisfacimento illusorio. Nessuno di questi saperi è al servizio di movimenti collettivi e rivoluzionari. Bisogna, quindi, difendersene. (L’enciclopedismo indiscriminato conduce alla bêtise di Bouvard e Pécuchet). Non negandoli in nome di antichi e indistruttibili valori, come coloro che si aggrappano alle metafisiche ormai posticce, ma passandoli al vaglio, in un gioco di passività e attività, di accoglimento ed espulsione. Il soggetto spettrale è questa zona di passaggio, di costituzione ibrida: una macchina organica, un’antenna autoricevente e auto trasmittente. L’importante non è il grado d’intimità emotiva con l’enunciato prodotto o lo sfondo di credenze sul quale esso spicca. Al principio dell’espressione subentra quello della trasmissione: nel senso di rendere fluido il flusso, di rompere ogni possibile cristallizzazione, ogni sedimento anche vagamente metafisico. In qualche modo si tratta di registrare uno stato: gli esseri viventi come canale di circolazione di merce solida e immateriale. Si tratta di trovare una figura che metta a distanza questo flusso, pur captandone tutta la pressione, la spinta invasiva. Per certi versi la forma del dialogo intimo, con il “tu” istituzionale, costituisce una cornice inattuale, a volte palesemente obsoleta, meccanica, ma essa in qualche modo testimonia di questa indifferenza tra dialogo e monologo. Il flusso è questo: non la lingua che ci parla, di lacaniana memoria, perché in quella lingua la pulsione prometteva improvvisi scarti, cortocircuiti liberatori. Qui tutti gli scarti e i giochi sono già inclusi, disponibili, programmati e programmabili. Ostuni cumula tutte le arguzie della decostruzione, con furia manieristica, compiacimento, ostinazione. Ma tutti gli scarti della lingua si accompagnano a una lucida consapevolezza cerimoniale, al retrogusto di un déjà vu, di capriola fatta fuori tempo. Il valore euristico di questi testi, però, sta proprio nel reinserire il volto individuale nel flusso, nel rendere evidente come dialogo e monologo divengano indistinguibili, come i tratti individuali costantemente si cancellino nello stereotipo collettivo, come l’autentico e il libresco siano costantemente mescolati.
Il flusso, però, non è un luogo di definitivo abbandono, di passività, di sparizione del soggetto. Il soggetto, in questo caso attraverso il commutatore poetico, è in grado almeno di renderlo percepibile, sotto i provvisori grumi delle identità individuali, famigliari, di genere, di classe, nazionali. Il flusso è l’inferno delle identità solide, costantemente in procinto di falsificarsi, e nello stesso tempo è il contravveleno di quelle identità, che mai completamente rendono conto di ogni aspetto della nostra vita quotidiana, così dispersiva, sommersa, ordinaria, anonima, insignificante. Bisogna moltiplicare i significati, perché appaia chiaro quanto ci muoviamo costantemente sull’orlo dell’assoluta insensatezza. Questo è uno dei messaggi della voce sagace e blaterante del Faldone. In quest’ossimoro, organizzato su larga scala testuale, sta uno dei possibili itinerari che il Faldone possa offrire al lettore. Non certo l’unico. Io l’ho qui scelto e enfatizzato, anche perché mi sembra uno dei più spericolati.
Eccellente intervento, articolato e lucidissimo, su un’opera di cui ho letto poche pagine – ma quelle che ho letto mi hanno convinto come poche altre oggi.
Qui sul comodino in attesa di essere letto. Intanto ho un valido punto di vista “spericolato”.