La perduta gioventù: vent’anni fa a Casarsa
di Danilo De Marco
Quando all’inizio degli anni ’90 del secolo passato iniziai le mie discese in treno da Udine a Casarsa il più delle volte alla stazione mi attendeva Giuseppe Mariuz. Stavamo allora sulle tracce dei personaggi pasoliniani – mi si permetta di chiamarli così anche se filologicamente non mi sembra del tutto corretto – e mi frullava in testa un’idea persistente, tanto da irradiare onde su tutto quello che poteva far parte del tema pasoliniano e non solo.
Certo – Bepi Mariuz non se l’abbia a male – prediligevo scendere, spesso clandestinamente, con un vecchio motorino che non superava i 40km all’ora perché con quel mezzo potevo più facilmente immaginarmi… in sella ad una bicicletta e spingermi dove la macchina non poteva arrivare. Inoltre, quella condizione mi permetteva la concentrazione e l’attenzione che solo il viaggio solitario consente, per poter meglio mettersi all’ascolto delle sensazioni del paesaggio e dell’umanità che si incontra anche casualmente. Mi consentiva anche di spingermi, per perdermi non poche volte, tra le stradelle di terra battuta dei campi casarsesi e sanvitesi, e con un semplice giro di acceleratore attraversare l’acqua filo-terra delle risorgive, tra mulini o borghi come Bannia e Marzinis.
E più giù ancora, percorrendo la strada statale del Tagliamento, ma costeggiando i bordi alti del canale che va verso Portogruaro e il mare. Oppure scoprire il Boscàt e la Madonna, dai colori e dai contorni più che smarriti, sotto l’androne di un arco, cui Pasolini accenna in uno dei suoi scritti. Madonna ora totalmente cancellata dall’inclemente mano di calce bianca che la ricopre.
Dicevo di un’idea: e fu proprio quell’idea a spingermi al di là da l’aga del Tagliamento in quello scorcio di fine secolo, mentre in Friuli si ricominciava stentatamente a parlare di Pasolini, anche se perlopiù in termini non sempre chiari; sicuramente tra il malizioso e lo strumentale.
L’idea era quella di ritrovare i ragazzi della Meglio gioventù che tanto aveva cantato Pasolini nella sua prima forma poetica: “una quantità immensa di lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli”.
Mi chiedevo cosa potevano essere diventati quei ragazzi, che cosa fosse rimasto loro di quell’esperienza probabilmente dimenticata per anni, conoscendo anche la varietà dei gruppi sociali frequentati da Pasolini. Gli amici di Ligugnana e i compagni del Partito Comunista, obbligati ad emigrare quasi subito dopo la Liberazione, alla ricerca di lavoro. O quelli più fortunati dell’”Academiuta di lenga furlana”, provenienti a volte da famiglie più agiate. I suoi allievi di Valvasone. I ragazzi e le ragazze del teatro di Casarsa e di Zoppola… e ancora quelli, ragazzi e ragazze, con cui andava a ballare percorrendo le plaghe del Friuli con la bicicletta assieme ad Oliede o Pia,nelle feste a Ramuscello o in mille altre sagre paesane. Per finire con scrittori e pittori, friulani e non.
E poi, i luoghi: quei poveri luoghi e le minime tracce di un Friuli contadino che senza dubbio Pasolini mitizzava più come una sua “Provenza dello spirito” che come realtà vissuta. Un mondo più vicino alla maniera giottesca, quando Giotto volle parlare della passione di Cristo, dei personaggi che gli stavano attorno, del linguaggio di San Francesco d’Assisi… scoprendo, assieme a Bruno Bruni, gli affreschi dimenticati della chiesetta di Versuta.
Inesorabile poco dopo, l’inizio del disincanto: l’avanzata del neocapitalismo – la morte di Cristo con le deposizioni di Pontormo e Rosso Fiorentino- con l’illuminazione artificiale e lo schermo televisivo, prossimo ad instaurare una nuova, sottile, impalpabile, consumistica e asettica dittatura. La distruzione di un mondo, dei suoi colori, dei suoi sapori, dei suoi oggetti, dei suoi sogni, delle sue fatiche e dei suoi dolori.
Ma chissà che non sia stato proprio questo suo gettarsi a capofitto in qualcosa in cui si ha una fede rivoluzionaria, come può solo un giovane, a fare di lui un acuto, visionario antropologo della post-modernità?
“Chej mil francs di pì / c’a vi àn fat crodi ch’a scuminsias ‘na sagra / sensa fin…” (Quelle mille lire in più che vi hanno fatto credere che incominciasse una festa senza fine).
E le lucciole? “Darei l’intera Montedison per una lucciola”, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1975 dopo aver ripensato La meglio gioventù “…aga dal me paìs…” facendola diventare La nuova gioventù “…aga di un paìs no me…”. Una catastrofe antropologica. E la scomparsa delle lucciole un genocidio culturale.
Chissà se in quella mia idea di 20 anni fa c’entrano le lucciole… Ma credo proprio di sì. Come d’altro canto anche in tutti gli altri miei viaggi attorno al pianeta.
Senza esserne cosciente totalmente, come succede all’immaginazione che è lavoro indispensabile per produrre pensiero… mi ero messo in testa di cercare quelle lucciole. Esistevano ancora? Resistevano nonostante il “tetro entusiasmo”? Se resistevano, erano eredità di un paese di temporali e primule… e, naturalmente… lucciole? O il fulgore della luce artificiale assieme all’ordine distruttivo della campagna, del paesaggio e di un’edilizia scellerata – tutti, o quasi, attori attivi di questo scempio- avevano spento ogni cosa?
Ancora attraverso la luce, la fotografia, mi ero inconsapevolmente avviato alla ricerca di quei flussi di fotoni che ogni essere vivente emana congiunti alle geometrie del vivente. Chissà che il mistero della fascinazione che aveva incantato Pasolini in quel Friuli non sia ancora contenuto in quei corpi custodi inconsapevoli del Sogno di una cosa?
Poi alla fine di quel viaggio durato molti mesi, scrissi queste righe: “….per mettere a nudo quella sorta di equivocità che esiste nell’atto di fotografare. Non una visione rapida e neppure, attraverso un’edulcorata espressione del volto, una specie di accomodante umanità del momento, ma, dopo un lungo silenzioso dialogo, dopo una lunga posa ai limiti della stanchezza, le immagini fotografiche di una natura profanata“.
A voi leggere questo montaggio fotografico che ora è il nostro “adesso” e che ha sicuramente tempi e forme diverse da quelle del passato e da quello che io stesso pensavo di cercare-trovare.
E, se come scrive Georges Didi-Huberman, il declino non prelude alla catastrofe antropologica, ma è risorsa vitale, allora questa “Perduta gioventù” di cui noi stessi facciamo parte si faccia avanti e non smetta di emettere flussi di fotoni per trasformarli in “scintille di umanità”.
“Manca ancora un’epopea (no non è vero, ne mancano molte): quella delle lucciole.”
(Peter Handke)
De Marco ha scritto questo testo per il catalogo della sua esposizione, presso il Centro Studi di Casarsa, “La perduta gioventù”, con fotografie scattate agli inizi degli anni Novanta ai testimoni del giovane Pasolini. La vernice sarà 16 novembre alle 19.30.
Le foto: 1) La vecchia fontana di Versuta; 2) “Viers Pordenon e il mont …”; 3) La Meglio Gioventù nel 1993 sul greto del Tagliamento; 4) Oliede; 5) Bruno Bruni; 6) la Meglio Gioventù in una foto scattata da Pasolini nel 1947 sul greto del Tagliamento; 7) “La Favorita”, il gruppo musicale con cui girava Pasolini tra Valvasono Ramuscello e San Vito al Tagliamento).
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Documento prezioso per la ricostruzione degli anni giovanili di Pier Paolo
Una lettura piacevolissima e ricca di pungenti osservazioni per chi come me conosce quelle terre: uno spaccato della “meglio gioventù” che fa riflettere.
Traspare il sapore delle emozioni vere. Limpide come l’acqua che scorre sui sassi del Tagliamento in un giorno di sole.