5 poesie

di Andrea Inglese

.

In questa poesia
c’è un lago ghiacciato
alcuni metri campione
una forma di vaselina solida
cibo da specialisti
i resti di un’operazione finanziaria

manca la musica dei rami
mancano le orbite dei dodecaedri
manca la forza gravitazionale all’interno delle catapulte

siamo in un museo dell’infamia
una giovanna d’arco viene con la camera oscura
io la vedo mentre avanza decisa
renderà giustizia a questo villaggio
per metà estinto
per metà bloccato nei suoi meccanismi
per metà privo di minerali sostegni

renderà giustizia come se tutto fosse accaduto
per una trascrizione sonora su pentagramma
come se le cose antiche come le catapulte
le cose eterne come i laghi ghiacciati
le cose ultime come i resti
di un’operazione finanziaria
fossero inserite nella medesima scena
foto rituale di fine d’anno
con le prime e le seconde file
i grandi sfuocati e quelli nitidi fin nelle vene
delle iridi
e i destini incolore fuori quadro

*

.

In questa poesia
allungo una mano

sto per prendere qualcosa
o per evitare che mi colpisca

quando la mano riappare
l’interno è silenzioso

non vi sono tracce di sporcizia o disordine
il piano è asciutto le finestre chiuse

non è possibile discutere o ricordare
quanto è accaduto

quasi ogni istante la medesima scena
si ripete come un sonno solo quando

s’inserisce un errore – cosa che cade o ferisce –
possiedo un pezzo ulteriore della storia

*

.

In questa poesia
ho perso il contatto con il sangue
con il mio sangue

non so bene che cosa sia dove
si trovi agito le braccia
allo specchio corro in cerchio
sputo decine di volte
per terra

è un bellissimo episodio antico
ricordo all’improvviso

lo si trova raccontato nei quadri
è talmente spaventoso che non può
essere visto con i propri occhi
in qualsiasi momento
esistono cerimonieri
per riattivare il rito
è un grande motore il sangue
è il sangue di una famiglia di un villaggio
di un intero paese

di colpo se ne parla in continuazione
come fosse un titolo di borsa
a chi tocca a chi lo dona a chi
lo può cavare

*

.

In questa poesia
sono senza sguardo
eppure completo il foglio e lo firmo
riesco a rispondere al telefono
sono senza cervello ma corro all’uscita
sono perfettamente in orario
anche dentro il garage faccio spazio
uso tutto il mio corpo
i passanti mi guardano con approvazione
completamente privo dello sguardo
prendo l’ascensore e seguo una donna
mi lascio presentare al responsabile
gli stringo la mano senza cervello
lui mi guarda contento

*

.

In questa poesia
dicono che l’aria non è un composto qualsiasi
e che se ne devono occupare loro
al momento stanno interpretando
certi modi di essere dell’aria
fanno venire gente con l’aereo
preparano costosi e ramificati esperimenti
la sparano dentro un tubo
la colorano con dei gas
la lasciano vacillare dentro provette sottili

vengono a cavartela di bocca gentili
la mattina presto con un sistema
indolore di aspiratori discreti
e una volta usciti al lavoro
non ci si pensa più

si prendono le ordinazioni
estratti e riposti i fascicoli
si inviano frantumi di frasi
senza sapere bene a chi
nella pausa pranzo

*

 

29 COMMENTS

  1. mi piace quest’io che afferra la poesia, la usa e la racconta.
    l’aria, il lago, il corpo, il sangue sono solo un mezzo di ricongiunzione alla realtà, verso dopo verso.

  2. uh!

    qui ci si sfila in qualche modo l’exuvia, si fa la muta, mi sembra. e la nuova livrea promette assai bene.

  3. cara, cari,

    vi ringrazio per questi commenti incoraggianti. Io sono ormai in quella fase in cui l’orecchio, a forza di rileggere, si è fatto sordo e scettico. Ma… mi fido ciecamente di voi.

  4. Sento questa ingegneria esistenziale molto ben espressa.
    Molto prossima a me.
    Al modo mio d’intendere e più oggettivamente prossima al mondo ed alle cose.

    Grazie della proposta.

  5. Poesia bellissima: la sensibilita sfiora la superficie.
    La tragedia accade nel corpo privato
    di nome.
    La follia di non sapere dove andiamo.

  6. ho scritto un commento a caldo, che posto qui sotto, sperando di non avermene a pentire, per un motivo o per un altro :)

    lorenzo carlucci

    sono buone. la serialità e certi altri espedienti diventano qui quasi scusabili. anzi significanti. la serialità è di solito, in simili contesti, il modo che l’autore usa per rassicurare (sé e gli altri) d’essere ancora “in control”, di star comunque scrivendo ancora in un certo modo, di star facendo ancora “poesia di ricerca”, poesia concettuale, metapoesia, *in un certo modo*. ma qui è un po’ una bugia, o forse qui si colgono i desiderati frutti di mille esercizi.

    perché qui non si sente una manipolazione del testo allo scopo di proiettare una illustrazione di un concetto, ma si sente (o almeno credo, ma l’autore può negarlo ascrivendo il tutto all’effetto di un ennesimo anestetico artificio), si sente dicevo una agghiacciante aderenza dell’autore al testo, si sente che il poeta sta usando la scrittura come strumento per la conservazione e della propria identità, come chi camminasse nel buio completo reggendosi a un filo di lana. allora anche l’espediente metapoetico (la poesia che inizia con “in questa poesia”) e la serialità (tutte le poesie iniziano con “in questa poesia”) sembrano rispondere a una diversa esigenza. mi spiego: diversa dal solito, diversa cioè dall’uso che di solito si fa di questi espedienti retorici in “aree” poetiche non distanti da quelle in cui il nostro autore pascola.

    diversa per esempio dall’esigenza di affermare l’ulteriorità della coscienza del poeta rispetto al testo, scansando ogni pericolo mortale di “lirismo”, e diversa dalla necessità di affermare la natura materiale e oggettuale del linguaggio, diversa infine dalla necessità di ridestare il lettore dal suo presunto sonno dogmatico o ebetudine. no: qui l’io del poeta è ebete quanto quello del lettore, o forse qui l’autore è il soggetto più debole, preda di un disperato bisogno di non perdere il filo della propria identità. molto serio bisogno cui l’autore risponde senza cupio dissolvi, con un certo pudore ad ammetterlo ma con un altrettanta forte determinazione a soddisfarlo. qui l’espediente metapoetico risponde alla necessità di situare il proprio io e per l’autore questa situazione è possibile soltanto nello spazio linguistico della poesia. da qui, anche, il senso di claustrofobia – quasi che il testo, nel suo scorrere stretto fosse il solo spazio esistente, o il solo spazio illuminato. quasi che la poesia, questa poesia che sta scorrendo sotto i nostri occhi fosse il solo spazio in cui l’autore può dire “io”, vedersi come “io”, agire e rivolgersi agli altri (“in questa poesia sono”, “in questa poesia ho”, “in questa poesia allungo la mano”…), poco importa da questo punto di vista che si veda “senza sguardo” o “senza cervello”, o che faccia cose di nessun conto. un ultralirismo dunque (mi piacerebbe dire “lirismo trascendentale” ma qui sarebbe più adeguato “lirismo fenomenologico”), una sorta di “lirismo virtuale” dove il testo non è il luogo – preesistente in atto – dove un io – preesistente in atto – si “esprime”. il testo poetico è invece il luogo – l’unico luogo – in cui si manifesta, agisce, ed esiste, un io che altrimenti non esisterebbe affatto. è anche l’unico luogo in cui un tale soggetto può vedere il mondo e descriverlo, l’unico luogo in cui un tale soggetto può trovare un interlocutore. e questo luogo deve essere costituito ogni volta, e non può essere costituito altrimenti che come causa di sé: la poesia che inizia con “in questa poesia”.

    potremmo leggerla in modo più deflazionista e dire: è analogo a quando si illustrano ad altri delle fotografie che ci ritraggono o che abbiamo scattate e si dice “in questa foto sono…”, “in questa foto si vede…”.
    bene, può darsi, ma a ben vedere le cose non cambiano granché. il soggetto si rivolge al mezzo (fotografia o scrittura) per due motivi: ricostituire la propria identità, e poter parlare agli altri. esistere di fronte a sé e di fronte agli altri. esistere insomma. bene ha fatto chi ha parlato di “ingegneria esistenziale”. il paradosso che è della scrittura e non della fotografia, e rende questo gioco più esistenzialmente pericoloso di quanto non sia il mostrare agli amici le proprie fotografie è che il testo non gode della rassicurante natura materiale e oggettuale (almeno apparente) di una fotografia.
    tutto si svolge nell’intero del linguaggio, nell’interno del linguaggio, è nella poesia stessa che il soggetto deve dire: ti sto mostrando una poesia per esistere come soggetto. e questo procedimento tutto interno getta un’ombra angosciosa (ma qui non ironica) sulle possibilità di successo di quest’operazione. o meglio illumina esattamente la propria fragilità.

    per questo anche l’artificio della serialità acquista qui un significato nuovo: non vuole indicare, come solitamente, una serialità che il soggetto passivamente
    patirebbe, né manifesta una forma di affrancamento dell’autore dall’opera, una sorta di mise en abi^me dell’opera che vuole indicare se stessa come frutto di un meccanismo ripetibile, di una reiterazione meccanica potenzialmente infinita. no: qui la serialità è l’immagine immediata del soggetto che ritorna ad affacciarsi sull’unico spazio in cui il soggetto esiste: questo testo, questi testi, uno dopo l’altro. la serialità di queste poesie, è una sequenzialità dinamica, è la semplice traccia del poeta che torna al testo per continuare l’opera di identificazione di sé e di preservazione di sé che solo nell’atto della scrittura gli è possibile. e di cui, evidentemente, ha estremo e urgentissimo bisogno.

  7. Mi sembrano molto belle. Interessante il percorso inglesiano del post-andromeda (mi viene da dire: se lì le poesie erano “esegesi” della prosa, qui fingono un’autoparafrasi. Come se l’atto stesso della scrittura, in quanto atto cognitivo, provasse a fare teoria su se stesso – che, in realtà, è uno dei tuoi punti saldi – in modo talvolta ironico, talvolta no. Spieghi quello che vorresti dire, ma dicendo di più. Mi ricordano, vagamente e non so perché, qualcosa di Corrado Costa – in particolare “I due passanti”).
    Belle bis!

    Luciano

  8. a lorenzo c, che scrive:
    “qui l’io del poeta è ebete quanto quello del lettore, o forse qui l’autore è il soggetto più debole”
    si assolutamente: il soggetto che appare nella scrittura è ebete e debole… diciamo che ho lavorato con le mie riserve di debolezza e idiozia

    e poi aggiunge:
    “dove il testo non è il luogo – preesistente in atto – dove un io – preesistente in atto – si “esprime”. il testo poetico è invece il luogo – l’unico luogo – in cui si manifesta, agisce, ed esiste, un io che altrimenti non esisterebbe affatto. è anche l’unico luogo in cui un tale soggetto può vedere il mondo e descriverlo, l’unico luogo in cui un tale soggetto può trovare un interlocutore. e questo luogo deve essere costituito ogni volta, e non può essere costituito altrimenti che come causa di sé: la poesia che inizia con “in questa poesia”.”
    egregiamente ben detto: stavolta non posso che concordare… ma – lo si chiami come vuole (“lirismo fenomenologico” pur essendo desueto, non è così balzano) – resta il fatto che quello che hai descritto è riconducibile al concetto di “letteralità”, così come io lo capisco; quel concetto che molto ha circolato in Francia, tra gente come Gleize e Hocquard, e che – come forse sai – ha molto contato anche per i compagni di strada di Gammm…
    Che dopo tante divergenze, si sia giunti, per strade impreviste, a convergere su un medesimo concetto che getta luce su una certa attività poetica?

  9. a Luciano

    avevo letto molto giovine “lo pseudobaudelaire”, che mi aveva molto colpito e dove c’era la poesia che citi; poi ho letto qualche altra cosa capitata qui e là. Un po’ di mesi a fa a casa di Michele Zaffarano, che ha un vero baule dei pirati della poesia contempoanea, capito sull’antologia delle Lettere. Entro in uno stato di isteria, rompo i coglioni a destra e a manca, alla fine tramite un portale specializzato riesco ad averne una copia. (Già l’edizione era esaurita, sparita, sepolta.) E’ stata l’ultima scoperta in poesia italiana. Da tempo mi ripropongo di postarne qualche testo qui su NI. E mentre scrivevo questo nuovo libro, mi ha accompagnato molto. La raccolta “The complete films” contiene alcune poesie straordinarie. (Insomma, mi fa piacere che ci sia aria di Costa…)

  10. Sono, per quanto mi riguarda, le migliori poesie di Andrea Inglese.
    C’è un dramma che affila ogni testo e una nuova oggettività più interessante oggi delle prove di Gleize e Hocquard.

  11. andrea, che scrivi:

    “Che dopo tante divergenze, si sia giunti, per strade impreviste, a convergere su un medesimo concetto che getta luce su una certa attività poetica?”

    può darsi, e non ci trovo nulla di strano, specie se il “convergere” implica un movimento di entrambi i soggetti. ho sempre avuto in mente in modo abbastanza chiaro possibilità interpretative del lavoro tuo e dei tuoi compagni di strada altre da quelle di solito messe avanti, per quanto – forse –
    vicine o addirittura coincidenti con le intenzioni degli autori in questione (tu citi come esempio il concetto di “letteralità”). e talvolta ne ho anche abbozzata qualcuna.

    solo raramente però ho trovato queste intenzioni realizzate in modo soddisfacente nei testi. come invece le trovo qui, e nell’altro tuo recente “commiato da andromeda”. questo mi fa dire che queste tue poesie sono “buone”, e mi spinge a tentarne una lettura: sono una buona sostanza, una buona unità di forma e materia, per dirla un po’ schematicamente. d’altronde anche teti qui sopra parlava di ‘cambio della muta’.

    ciao,

    lorenzo

  12. ”Lirismo fenomenologico”: le ultime barricate del tempio, dell’adyton (come diceva A.Z.) ma nel frattempo è anche il recinto di questo che viene esteso e gli viene permesso d’abbracciare ancora altro, con un dolore di fondo che è un’eco forse angosciosa.

    Ed è un bel sospiro di sollievo leggere queste cose, che lo sappia l’autore (che non molto tempo fa lo si sentiva parlare a Trento di Celine e Beckett)!

  13. trovo un’elencazione a tratti remissiva, quasi in tono minore. vorrei quasi dire piattezza, ma non renderei giustizia all’intensità dei versi. intendo, quello che emerge è una sorta di paralisi concettuale, la difficoltà di uscire da schemi mentali non solo poetici o metrici, quanto “umani” nel senso più negativo del termine (come a dire: siamo un “villaggio globale” ridotto a museo dell’infamia). anche la sofferenza pare nascondersi tra i versi – o comunque sgorgare a fiotti lenti, assieme al sangue – e appeso all’indolenza fa bella mostra di sé un amo rituale, pronunciato con tono da rosario inel’udibile nonché privo di qualsiasi sostanza amorosa (definizione di amore: “aspirazione alla realizzazione di un ideale etico, politico, religioso, umano, spesso accompagnato ad un intenso e profondo sentimento di affetto”). un gesto vuoto al capezzale del mondo, inteso sia come smarrimento poetico dell’essenza a favore del senza (ciò che manca “la musica dei rami”, “le orbite dei dodecaedri”, “la forza gravitazionale all’interno delle catapulte” è invisibile, ma è forse di gran lunga più importante) sia come mano che afferra e riappare stringendo nel pugno un “interno silenzioso”. abbiamo poche speranze…
    ecco dunque che la schiavitù dei riti del villaggio globale (poetico e non) non è più attaccabile né dal ragionamento né da un atto volontario e nessuna dinamica della comunicazione può far deragliare lo stallo, l’immobilità (lago ghiacciato, resti, forme solide, meccanismi bloccati nelle teche d’un museo). serve *l’errore*, una sorta di serendipity sociale, che spesso assume le forme di trauma collettivo (“cosa che cade o ferisce”, “è un grande motore il sangue / è il sangue di una famiglia di un villaggio / di un intero paese”) perché si possa avere un ulteriore passo avanti della storia.
    nel poeta e nella poesia non c’è più il sangue, sembrano dire le parole di andrea inglese, ma al massimo una sua parafrasi – pasolini scrisse qualcosa di simile, in un contesto forse solo apparentemente diverso, eh… g.b.vico docet. e nella vita di ogni giorno? la sorte non è migliore se non riusciamo più a vedere oltre l’essere-perfettamente-in-orario (“sono senza sguardo” “senza cervello”) e il tutto è così oliatamene codificato nella routine che l’analisi critica si esaurisce ai convenevoli. come dire “uso tutto il mio corpo”, ma non il cervello, ovvero occupo uno spazio fisico privo di attività intellettiva, e tanta e tale è la condivisione e l’imitarsi (limitarsi) ex-vacuo che “i passanti mi guardano con approvazione”. vedi la potenza dei neuroni a specchio?
    : )
    : (
    giunge amarissima quindi l’ultima sezione, in cui col *dicono* e col *loro* la spersonalizzazione e la passività raggiunge il massimo livello. “siamo agiti! siamo agiti!” m’è parso di sentire urlare tra le righe (devo cercare con urgenza uno psichiatra???) nel senso meno complottista e più naturumano dell’essi vivono. cazzo, siamo davvero così cotti? purtroppo sì: lessi viviamo, nel senso che torniamo a casa solo per uscire nuovamente l’indomani (“e una volta usciti al lavoro / non ci si pensa più”). in senso allegorico, dunque, “l’aria” rappresenta la parola, l’arte, la politica, il pensiero. cose di cui dovremmo occuparci in prima persona e che invece finiscono a scaffale diventando strumento di neuromarketing (“dicono che se ne devono occupare loro / al momento stanno interpretando / certi modi di essere dell’aria”…)
    siamo tanto connessi (con internet, coi cellulari), quanto incapaci di una collettiva presa di coscienza. impersoniamo i frantumi stessi di una società in cui, brandendo il telefonino “si inviano frantumi di frasi / senza sapere bene a chi / nella pausa pranzo”.
    ecco. in conclusione, tornando alle poesie, senza troppi giri di parole, il risultato m’è parso tanto agghiacciante quanto eccellente per la mostruosa iber-nazione indiana di significati che giace indolente sotto il pelo immobile dell’acqua del lago ghiacciato.

    • grazie malos della tua analisi,
      che aggiunge magari ghiaccio a ghiaccio: ma che proprio per questo trovo in sintonia.

  14. Gentile Andrea Inglese (andreainglè),

    Ho letto con viva attenzione e interesse queste tue recenti liriche (pagapoesì), che mi sembrano segnare una decisa svolta rispetto alla tua produzione precedente (rottoilkà) nel segno di una maggiore oggettualità (pagaponge) e che spero di rileggere presto in una più articolata raccolta di tue nuove liriche, per la quale so che sei attualmente alla ricerca di un titolo di forte impatto (lescorribandedelcanarinopriapico).

    Un caro saluto (staicalmo).

    • Avevi detto di aver superato, di aver svalcato, le vecchie frasi, gli automatismi verbali, pretendevi essere uscito, all’esterno inoltrato, di aver varcato, oltre il tuo impensato, e invece torni nel ripetuto, nell’accentato, usi la parentesi come ferro buttato, ma nulla è stato inventato, l’inverno è affrettato, il mondo mai più finito, ma tu ripeti malcapitato: e stavi finalmente per essere garbato. Andrearà: sotto sotto è il solito solfato.

  15. è un io poetante enorme e al contempo quasi smarrito, questo. l’io che fa poesia e racconta cosa ci fa con la poesia. dove si va a parare, forse. un saluto ad andrea inglese, che non vedo da un pò di tempo. però questo non è l’andrea inglese poeta che preferisco. è troppo sommesso, come se fosse fatto un valium.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.