Racconti di architettura
Davide Vargas, Racconti di architettura, tullio pironti editore, 124 pag.
di Gianni Biondillo
Per Michelucci la forma era il modo che gli uomini avevano per comunicare restando in silenzio. Una sorta di letteratura muta, insomma. Viene da sé pensare che la letteratura sia di conseguenza il modo umano di costruire senso. Le due discipline all’apparenza così lontane si assomigliano, si cercano, prendono di continuo la misura del loro campo d’intervento, cercano punti di contatto, sovrapposizioni.
Da studente un amico mi invidiava: “scrivete più voi architetti che noi studenti di lettere”. Gli architetti leggono e scrivono. Di continuo. Dove non arriva la forma interviene la parola, in un continuo desiderio di fissare il significato del nostro agire. Sono molti gli architetti che negli anni hanno attraversato la letteratura, più di quanti ne ricordiamo, sarebbe anzi il caso di farne una ricerca, uno studio approfondito. Perché l’argomento non è solo curioso, è indicatore di come due attività intellettuali spesso rappresentanti di ruoli sociali differenti (l’architettura è la rappresentazione oggettiva del potere. Anche solo del poter fare, del poter agire, la letteratura di contro è la forma del difforme, della critica al potere, dell’escluso) cerchino nella contiguità di sbaragliare i ruoli stessi.
L’architetto è stato da sempre, ed è sempre meno in questi anni, un intellettuale, un critico del reale, non un semplice giullare di corte, un portatore d’acqua. Se in questi anni è sotto gli occhi di tutti una crisi della qualità del costruito, che ha come corollario una crisi del ruolo della critica, è forse meno evidente come molti architetti (non so se più sensibili o meno) abbiano cercato in altre discipline – il cinema indipendente, la narrazione – altre modalità di formalizzazione della realtà.
Insomma, per chi non trova eticamente tollerabile il compromesso al ribasso preteso dalle logiche economiche e inette della nostra società, per chi crede ancora nel ruolo addirittura taumaturgico, immaginifico, “meraviglioso” della progettazione architettonica, per chi la professione la vive più con frustrazione che risentimento, esistono valvole di sfogo per l’abbattimento della pressione: campi da esplorare. Non per fuggire dall’architettura, ma per completarla in altro modo.
Penso, per dire, a questo Racconti di architettura, di Davide Vargas.
Io, voglio dirlo, non sono oggettivo quando parlo di questo libro. Ho conosciuto Davide anni addietro, sono anzi in qualche misura responsabile (credo di non essere smentibile) della sua carriera di scrittore. Non che gli abbia consigliato alcunché o dato chissà quale dritta. La farine del sacco è tutta sua e altrettanto il merito. Semplicemente ci siamo incrociati in quei momenti liminari, quando un architetto (io) aveva deciso di raccontare il mondo con i romanzi e un altro architetto (lui) stava iniziando a farlo, e forse aveva semplicemente bisogno di qualcuno che lo ascoltasse. Così capita che pure io faccia capolino in alcune pagine di questa raccolta. Attore fra i tanti che la voce narrante incrocia nei suoi percorsi.
Se scrivere è un modo differente di fare architettura – Proust ne era convinto e la sua Recherche doveva a tutti gli effetti essere una cattedrale – Vargas, qui, più che tronfi grattacieli, decide di edificare percorsi, cappelle votive, angoli raccolti. È un architettura che gli somiglia, molto etica, con punte di lirismo non cercate ma trovate quasi involontariamente.
Spesso, in questi racconti, si parte da un punto preciso – il campo santo di Pisa, per dire – e poi si lascia che il flusso della coscienza, le analogie degli spazi, ci portino da altre parti. Nessun luogo è insomma fine a se stesso, indipendente dal mondo. E grazie a questo taccuino di viaggio – incongruo e disordinato come tutti i taccuini autentici devono essere, fatto anche di cancellature o schizzi appena accennati – possiamo ritrovare luoghi e nomi della nostra formazione disciplinare e/o sentimentale: un Paolo Soleri a ritroso dall’America fino a Vietri sul mare, il Le Corbusier intimo di Maison la Roche e quello pubblico di Marsiglia, la sala della scherma “dimenticata” di Moretti, la Milano colma di affetto da parte di Vargas di Casa Rustici o della chiesa di Baranzate.
Proprio come la sua prima raccolta, anche Racconti di architettura ha una forma ibrida: non sono racconti di finzione, non sono reportage né descrizioni oggettive. La scrittura è veloce, paratattica: annotazioni emotive, levigate senza essere laccate. Ma capita anche che le parole spesso non gli bastino (la dichiarazione di sconfitta di inadeguatezza, è continua nel testo). Vargas cerca così di fissare i suoi turbamenti non solo con le frasi ma anche attraverso segni, graficismi, disegni. Un libro poco furbo, il suo. Ma sono proprio gli oggetti ibridi, meticci, imperfetti, quelli che oggi mi interessano di più.
Vargas dal suo percorso intellettuale, non so quanto consapevolmente, s’è ritrovato nel cuore di una letteratura che in questi anni sta cercando – attraverso la descrizione delle cose tel quel, nel racconto di itinerari, nella raccolta iconografica, nel fotoreportage – di definire il mutamento fisico e antropologico avvenuto nel nostro paese. Il suo background, il suo sguardo d’architetto, lo aiuta, molto più di quello di tanti letterati col lauro in testa. Racconti di architettura non è, perciò, un libro rivolto agli architetti. È un libro rivolto a tutti quelli che hanno voglia di conoscere il mondo attraverso uno sguardo parziale. È, cioè, una piccola, aggraziata, guida sentimentale del mondo.
che bella questa recensione! Pure a me piacciono sempre di più gli oggetti ibridi, meticci e imperfetti. Come ci fosse più aria che circola.
Riflessione attorno alla parola architettura:
NI, area ex-enel, gennaio 2012,: 31 commenti. Oggi: 0, max 5.
La parola architettura va rianimata.
Potremmo riprenderci la quota di agire che ci spetta(agire imperfetto, ovviamente…)