3 prose brevi (Ollivùd 1)
di Andrea Inglese
Campo di concentramento
Molti volevano fare, prima o poi, il film sul campo di concentramento. Era un’idea ormai diffusa e plausibile: ognuno vi portava il proprio tocco, ognuno variava, a modo suo, il tema. Nella visuale di un grandangolo, un campo di concentramento ci poteva entrare per intero. I costi di produzione erano bassi, per via della facile manutenzione delle baracche, e per l’abbondanza della neve, anche finta, sempre a buon prezzo. Fare il film del campo di concentramento permetteva a un cineasta di andare a letto tardi la sera. Anche gli attori leggevano una gran quantità di libri. Durante le interviste, tutti parevano concentrati e un po’ stanchi. Era come il saggio di fine anno, alla scuola di danza o di teatro. Tutti dovevano farlo, e per ognuno era un percorso intimo, magico, diverso. Ogni film, però, prendeva dal campo di concentramento, quanto più gli serviva: come di un uomo saggio, un giovane memorizza le frasi del turbamento e solo quelle. Alcuni vedevano il campo di concentramento come una sala circolare, senza specchi, animata da danze lente. In certi film, le guardie parlavano francese, addirittura inglese. Altri attori fingevano di parlare ebraico. Molto spesso, quasi a sproposito, nel campo faceva la sua apparizione un prete, acquistando un enorme carisma sportivo. Il prete correva e spalava, con un talento naturale. Quando la guardia si innamorava del prigioniero, ciò dipendeva dal dislivello alfabetico: molte guardie non leggevano neppure il tedesco, e il prigioniero faceva loro riassunti di Goethe, e di tanto in tanto, guadagnandosi compassione, cantava. Il campo di concentramento, nei film d’amore, era divenuto un po’ come il saloon nei film western. Quanto più dominava l’atmosfera di baracche e filo spinato, tanto più gli attori protagonisti, nei panni della coppia guardiano e prigioniero, esibivano un magistrale gioco d’emozioni: tutte smorzate, sfumate, allusive. Ogni regista voleva arrivare lì, e incontrare la cedevolezza dello spettatore: l’amore è così paradossale, anche nelle baracche, nel concentramento: serve a dimenticare, ci porta via. Andiamo dentro il concentramento, lo riempiamo d’immagini, perché l’amore ci sollevi. Come volando. E i film del campo di concentramento, in modo ognuno diverso, finivano con un volo: di coccinelle, gabbiani, merli o foglie di betulla risucchiate dal vento.
Colloquio di lavoro
Il giorno del colloquio il vicino di casa, ingombrando il pianerottolo in ciabatte e innaffiatoio, le aveva detto che non avrebbero mai risolto il problema della cantina. Kavanna non sapeva che pensare di quell’incontro. Poteva essere un segno. Poteva esserlo negativo o positivo. O poteva non essere niente. L’ufficio del nuovo dirigente era troppo spazioso, e luminoso, e inodore. Gario Hadd era un tipo che cercava complicità, sapeva sollecitare l’amor proprio, riusciva a imporre facilmente il suo punto di vista, s’interessava enormemente alle persone e a se stesso, era implacabile. Kavanna doveva ottenere due giorni di permesso per un concerto a Montreuil, appena fuori Parigi. Sarebbe stato molto più utile chiedere un cambiamento dell’orario di lavoro, almeno nel periodo dei congressi. L’utile e l’inutile si dibattevano sempre dentro di lei. Tutto zoppicava nella sua vita. Si dedicava con energie enormi a tutto ciò che finiva, che perdeva senso e lucentezza. Sapeva seguire lo spegnimento delle situazioni, questo sì, e con grande abnegazione. Per questo preferiva chiedere un permesso per il suo ultimo concerto. Non avrebbe più cantato con il gruppo, ne era sicura. Il gruppo non sarebbe più riuscito a trovare serate, e anche se le avesse trovate, non l’avrebbe più chiamata. Tutti i componenti erano stufi del genere, stufi del nome, stufi di lei. Non erano brillanti musicisti, e neppure nei rapporti umani ci sapevano fare. Grandi risate. Bravi solo in questo. Gario Hadd la fece parlare. Senza che lei se ne rendesse conto, lui la stava interrogando sulle sue amicizie a Parigi, in particolar modo quelle maschili, e gli incontri fortuiti, sempre con maschi, e maschi interessati a lei, se ce n’erano stati. Ma questa curiosità eccessiva, fuori posto, che Gario Hadd dimostrava per la sua vita privata, si stava velocemente trasformando. Ora Gario Hadd stava parlando di sé, di quando finì per perdersi al confine tra il diciassettesimo e il diciottesimo, e fu fermato, lui così giovane, elegante, da una cinquantenne male in arnese, con dei pantaloni indiani da figlia dei fiori, e la voce dolcissima. Gario Hadd si mise a descrivere con grande scrupolosità l’intero pomeriggio che passò, lui ventenne, con la cinquantenne, che di anni ne dimostrava almeno dieci di più. Kavanna intanto si sentiva in trappola, ma scuoteva appena la testa di lato, e sorrideva. Gario Hadd enumerò tutti i prodotti che la cinquantenne teneva in bagno, negli armadietti della cucina e nella camera da letto. Fortunatamente viveva in un piccolo monolocale, ma lui non voleva tralasciare alcuna informazione secondaria. Fece capire che ci fu qualcosa di sessuale tra di loro, ma non volle insistere su questo aspetto. Kavanna s’immaginò una scena sgradevole e non riuscì a frenare la fantasia. Mentre Gario Hadd era passato all’enumerazione dei vinili che la cinquantenne aveva, Kavanna evocava le più diverse situazioni erotiche tra i due, alcune opprimenti e perverse, altre di un raro candore, altre semplicemente grottesche. Vedeva di continuo il sesso di lui tra le mani di lei, o la bocca di lui sul sesso di lei. Quando Gario Hadd la congedò con un sorriso paterno, lei si rese conto che le aveva concesso il cambiamento dell’orario di lavoro durante la stagione dei congressi, ma non aveva neppure accennato al permesso per il viaggio a Parigi. Gario Hadd aveva scelto di spingerla verso l’utile. Aveva scelto per lei. Gario Hadd era un dirigente competente e temibile, e umanamente disgustoso.
Il mostro delle placente
La storia del mostro che mangiava le placente non era male, pensò Sergio, appena uscito dal cinema. Non tutto, soprattutto nella lunga sequenza finale, gli era parso chiaro. E per buona parte del film la lingua parlata dagli attori non era la sua. Ma era evidente la buona volontà di tutti: gran generosità negli effetti speciali, attori al colmo delle loro capacità interpretative, il pubblico in sala ben disposto. Quindi non era il caso di aggrottare la fronte, di rimanere, come invece stava facendo, appoggiato contro la porta a vetri del cinema, con quell’atteggiamento da cane bastonato. Se il mostro desiderava cibarsi di placente, questo era affar suo. Non era motivo psicologico sul quale il regista o lo sceneggiatore avrebbero dovuto ricamare. Come il mostro estraesse le placente, però, non appariva mai alla luce del sole. A dire il vero, non si era vista neppure una sala operatoria o una donna incinta o anche solo una placenta nel corso di tutto il film. Però gli interminabili dialoghi, che solitamente si svolgevano all’ora di cena, davano al tizio biondo dalla faccia grassa l’occasione di reiterare le sue dichiarazioni d’intenti. Spuntava in cima alle scale e arringava tutta la famiglia radunata a piano terra. La madre vedova, la moglie e i due figli in età puberale gli rispondevano vivacemente, polemizzando su ogni sua affermazione con puntiglio. Sergio si ricordava bene alcune battute: “So bene come e quando uscire di casa”, “Sarebbe ora che tu andassi a dormire”. “Il mese prossimo voglio ingrassare, da tutte le placente che mangio”. Forse, si diceva Sergio, con la mente sempre più assonnata, in un film importante non è che si debba capire tutto. Accade sullo schermo come nella vita. Anche lui desiderava mangiare bistecche e piatti di pastasciutta. Di rado riusciva a soddisfare questo desiderio, perché quasi sempre mangiava in una mensa semibuia una scatola di fagioli freddi. Ogni tanto gli sembrava di essere nuovamente padrone della situazione e si diceva che con la mensa aveva chiuso. Tirava fuori dalla tasca dei calzoni il portafoglio, lo apriva e vi contava i soldi sufficienti a pagarsi quattro porzioni di pastasciutta più bistecca. Ridacchiava e si riprometteva di cambiare vita. Poi, inevitabilmente, dopo una fase confusa della giornata, si ritrovava seduto in mensa, la scatola aperta sul vassoio e la montagnola di fagioli già rovesciata nel piatto. È in tali occasioni, che si alzava in piedi colmo di rabbia contro se stesso e il mondo, e cominciava a gridare all’indirizzo dei pochi commensali seduti qua e là, solitari e timidi, nel salone a soffitto basso della mensa. Qui, però, ogni similitudine tra il cinematografo e la sua vita sembrava giungere al termine. Nessuno in mensa gli rispondeva. Sergio non aveva né moglie né figli. E la sua vecchia madre non si degnava mai di accompagnarlo al cinema.
il bianco muove la regina in G9 e sorride
http://www.youtube.com/watch?v=83bmsluWHZc
Puro cinema.
dalla prima lettera del mereghetti ai cinefili
Prose Inutili alla Causa. (di uomini-vermini che tra le pietre si attorcigliano fino ad esalare urla puzzolenti spalancando le pance, ma il fatto è che l’universo pur esistente cubo solido si trova privo di orecchie)….possibile che, in quell’agonia, trovino il tempo per vezzeggiare, criticare, fabulare, acutamente opinare sul Cinematografo? Possibile che siano così ostinatamente viventi? Possibile che non sentano il bisogno di giustificarsi per quello che scrivono?
bah….che poi ho nel frattempo letto altre prose dell’Inglese su questo sito, ad esempio Il progetto, non male. forse ho dato del pelandrone al Nostro nell’unico momento in cui si stava riposando…ma non riposare!! il tempo stringe! smettila di chiacchierare e pensa a scrivere! tra poco si muore, maremma lupa, si muore!
piccoli esercizi di stile – o neo-centurie
l’enorme «carisma sportivo del prete» (e non solo) ha conquistato questo lettore qui, che ringrazia
Quest’altro lettore invece ringrazia per Colloquio di lavoro, con cui ha empatizzato profondamente, sia per ragioni prettamente letterarie che per motivi personali.
Sul piano letterario queste frasi in particolare mi hanno colpito al cuore:
“Il giorno del colloquio il vicino di casa, ingombrando il pianerottolo in ciabatte e innaffiatoio, le aveva detto che non avrebbero mai risolto il problema della cantina.”
“L’utile e l’inutile si dibattevano sempre dentro di lei. Tutto zoppicava nella sua vita. Si dedicava con energie enormi a tutto ciò che finiva, che perdeva senso e lucentezza. Sapeva seguire lo spegnimento delle situazioni, questo sì, e con grande abnegazione.”
“Gario Hadd la fece parlare. Senza che lei se ne rendesse conto, lui la stava interrogando sulle sue amicizie a Parigi, in particolar modo quelle maschili, e gli incontri fortuiti, sempre con maschi, e maschi interessati a lei, se ce n’erano stati. Ma questa curiosità eccessiva, fuori posto, che Gario Hadd dimostrava per la sua vita privata, si stava velocemente trasformando. Ora Gario Hadd stava parlando di sé (…)”
per me che non amo la poesia e probabilmente di versi comprendo soprattutto quelli dei miei simili animali, leggerti anche in prosa così di primo mattino mi mette già di buon umore.
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con la poesia si può giocherellare confezionando parole (in forma tanto gentile e tanto onesta pareidolica), anche laddove la sostanza è poca, tanto la riga è breve (con il cut up, ci riesce pure il riga-ttiere…). in prosa è molto più difficile vendere fumo, anche perché il quartiere in cui si devono spacciare le parole è assai più esteso d’una strofa. e se il fumo non è buono, basta un tiro e te ne accorgi.
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ordunque, bando alle ciance, intanto nel complesso, i tre racconti brevi mostrano un’ottima dimestichezza con la prosa. quindi non mi dilungo sulla forma, né sul citazionismo da cinefilo, già ampiamente sbeffeggiato senza sbeffetti speciali dall’ironia composta del testo.
di “campo di concentramento” (migliore del tris) m’ha fatto riflettere il senso lato per lato. la società attuale (dai militari ai militanti, dai politici ai civili) è governata dalle stesse dinamiche dei film sul campo di concentramento.
la società italiana giace a gambe aperte, in coma etilico, su un prato coperto di brina in aperta campagna (elettorale), e molti se la vogliono fare: “è un’idea diffusa e plausibile”.
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farsi il film permette di “andare a letto tardi la sera” (nano arcoreo docet), nonché di prelevare dal campo di concentramento tutto ciò di cui si ha voglia. in certi film, a seconda della xenofobia più in voga nel dato momento, gli attori parlano ebraico, francese o inglese. ultimamente è tornato di moda il tedesco, e nonostante sia chiaro che la colpa del debito italiano è tutta della merkel, quando le guardie “non leggono neppure il tedesco”, ci pensa il prigioniero a diventare carceriere di se sesso (governo tecnico docet).
“molto spesso, quasi sempre a sproposito, fa la sua apparizione” la cei. comunque il “dislivello alfabetico” è evidente: recenti ricerche stimano l’analfabetismo funzionale in italia al 47% della popolazione.
e più peggiora la crisi, con baracche e filo spinato, tanto più si ricorre al “gioco d’emozioni”: la narrazione emotiva. abbindolato emotivamente dal tifo calcistico per il bianco, il rosso o il nero, viene a galla la “cedevolezza” dell’elettore che sospende la sua capacità critica (l’innamoramento politico è così paradossale ai tempi della crisi). però ti segnalo un refuso, un mistyping di “l” con “t” verso la fine: i film, ognuno diverso, finiscono tutti non tanto con “un volo” quanto con “un voto”. in tal senso, degno di nota il sottile riferimento a goethe e, dunque, alle “affinità elettive”.
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sono, invece, le nostre speranze che prendono il volo (bob dylan docet), risucchiate dal vento.
di “colloquio di lavoro” mi ha colpito il fatto che l’utile e l’inutile si dibattano sempre dentro di noi e per questo non risolveremo mai il problema della cantina. meno male che gario hadd, dopo averci ipnotizzato snocciolando sia il nostro cervello grande come un’oliva che tutte le informazioni secondarie (compreso l’elenco dei prodotti che la centocinquantenne teneva in bagno), ci congeda con un sorriso paterno scegliendo per noi, così da “spingerci verso l’utile”. inteso come guadagno, s’intende.
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in “il mostro delle placente” ho letto un (non-)senso ricorsivo. su un piano allegorico non escluderei che sia lo stesso sergio, il placentofago. difatti, quando beffardamente scrivi “qui, però, ogni similitudine tra il cinematografo e la sua vita sembrava giungere al termine”, proprio nella solitudine verbosa di sergio appare più che mai lampante l’assenza di placente (“sergio non aveva né moglie né figli”, e anche la vecchia madre lo rifugge). ergo, in una forma di autofagia masochistica, il povero cinefilo non ha bisogno di sapere “come il mostro estraesse le placente”, poiché non serve una sala operatoria ma una mensa semibuia per continuare a mangiare fagioli freddi e a parlarsi addosso ripromettendosi invano di farsi una vita (e senza placenta non c’è vita, concordo, essendo vieppiù persona informata sui fatti: ho tre figli).
e se comunque di tutto ciò che hai scritto non ho capito un cazzo, non me la prendo: “in un film importante non è che si debba capire tutto”.
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caro malos, io spero che questi ipo-racconti, semi-racconti, che pur giocano sullo sfasamento degli stereotipi narrativi e cinematografici permettano sempre, nel contempo, di sondare il bruto buio reale nostro. Quindi le tue letture mi sembrano senz’altro legittime, anche quando ne traggono un senso che io non ero consapevole di averci messo. In questo forse sta l’unica parentela con i testi poetici: la loro concentrazione e ambiguità permette di sprigionare uno spettro di senso abbastanza ampio.
Bruto buio reale sondato. Quanto serve ad avvertire un quasi sollievo..