3 prose brevi (Ollivùd 2)
di Andrea Inglese
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Agente immobiliare
Capurro era sicuro di non avercela con le donne. Non sempre le cose erano andate bene, anzi dopo Anita malissimo, o per meglio dire nulla. Non s’innamorava più, non destava in loro alcun interesse, aveva smesso persino di scopare. Di notte sognava di essere accanto ad Anita, nel bagno della vecchia casa dei nonni. Entrambi guardavano una fila di post-it incollati contro lo specchio con le date degli anni passati assieme. Sembravano tante le date, tanti gli anni. Le guardavano e piangevano, dicendosi che forse non ci sarebbe mai stato, in futuro, un altro periodo felice come quello. Ma da sveglio Capurro sapeva che non era vero. Non aveva trascorso molti anni assieme ad Anita e non si era trattato di un periodo felice. Girovagava allora inquieto, spinto dall’urgenza di leggere qualcuno dei giornali vecchi che custodiva nell’appartamento, poiché gli mancava il coraggio di gettarli giorno per giorno. Aveva la sensazione che qualcosa di importante stesse accadendo, qualcosa che a lui sfuggiva ad ogni impaziente e svagata lettura. Da qualche parte si celava la notizia importante, quella decisiva, che avrebbe illustrato la svolta generale, la nuova china pericolosa che avevano preso gli avvenimenti, pericolosa o semplicemente imprevista, strana. Quella svolta che riguardava tutti, amaramente, e lui pure, ma in modo diverso, più fatale e pacato. Per questo motivo non gettava mai i quotidiani. Li teneva sparsi per l’appartamento, pronto a servirsene anche dopo settimane, convinto che una lettura tardiva, ormai disperata, potesse rivelargli una verità grande, una circostanza capace di occuparlo mentalmente per giorni o magari di cambiargli la vita. Le donne lo interessavano ancora, ma avevano smesso di assillarlo, cioè ci pensava meno spesso, con meno senso di sconforto, senza le immagini del terrazzo, della balaustra scavalcata, della caduta di spalle lungo la facciata del palazzo. Era convinto di non serbare rancore verso Anita. Tutto si era in qualche modo aggiustato, verso la fine. Tutte le cose, anche con le altre, avevano finito per aggiustarsi in passato. Tutti quei finali, quelle scenate, fughe, traslochi, abbandoni, partenze improvvise, tutto quel precipitare ed esaurirsi aveva con coerenza aggiustato le cose. Il mondo intorno a lui pareva ormai saldo. Non vi erano più crepe e guasti nella sua solitudine. L’unica donna che frequentava era una cinquantenne dalle labbra sottili e la voce sgradevole. Lavorava in un’agenzia immobiliare e gli mostrava delle case in vendita. Era una persona loquace e ciò riempiva i pomeriggi delle visite. Lei parlava volentieri, era una propensione del carattere, probabilmente una debolezza. Ma il lavoro che faceva giustificava questo atteggiamento. Era addirittura considerato dai colleghi e dai superiori una virtù. Lui amava ascoltarla, anche se spesso ripeteva le stesse cose, ma con variazioni allegre. I concetti erano pochi e ruotavano tutti intorno al vantaggio di acquistare proprio quello, che stavano al momento visitando, tra tutti i bilocali della città, in quanto le occasioni di realizzare un affare erano pochissime, anzi si riducevano ad una sola, proprio lì e in quel momento. L’idea di vivere ogni volta assieme a lei un’occasione unica, un momento di straordinaria fortuna, un’opportunità irripetibile dal punto di vista finanziario e immobiliare, lo riempiva di allegria e speranza.
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Il fidanzato
Hanno fatto uscire il fidanzato, appena morto. Lei doveva telefonare alla madre, la più vecchia delle due. La solita storia delle madri eterozigote. Lei e la madre più vecchia, ovviamente, tutto un piangi e sviscera. Nemmeno un’allusione, un inchino alla seconda madre. Il bandito che respira nella mascherina d’ossigeno, giace da due ore in sala d’aspetto. Incazzato nero. Riportano fuori il fidanzato, sembra star meglio, ma poi risulta proprio morto. Lo sistemano alla buona. Di solito, parte l’azione collettiva dello scavo. A meno di avere il pozzo a portata di mano. Lei deve decidere che atteggiamento avere con il bandito, è questo un consiglio della madre più vecchia, a meno che la madre gemella, ma più giovane, non veda le cose diversamente, in modo più giovanile. Bisognerebbe telefonare anche a quella. Così si fa ora di cena, e il personale è nervoso. Tornano dentro quelli che dovevano seppellire il fidanzato, ma nessuno conferma l’accaduto. Tutti puliti e risposati, come non fosse mai successo. Per due giorni grande diffidenza, e sguardi di soppiatto. Cade la linea con la madre più giovane. Il bandito non conosce rimorsi, ma con lei non sa dove mettere le mani, con quali posate iniziare. Si è portato dietro armi, camicie stirate, una cartina della regione, con i siti turistici evidenziati in rosso, come fossero zone contaminate. Quando viene ricevuto in terrazza, deve sorbirsi la lettura pubblica dei cablogrammi del fidanzato, intervallati dagli impromptus musicali di un dj spaccone. Minaccia alla fine di tornarsene a casa a piedi, senza partecipare all’aperitivo. Per altri due giorni non succede niente. Nessuno della forestale pesca nel fiume il cadavere del fidanzato, nessun giardiniere fa il suo ingresso precipitoso in sala. Il cadavere sarà andato a posto da solo. Quelli che difendevano la causa del fidanzato, sprofondano a poco a poco in un’ammirazione incontenibile per il bandito. Gli puliscono ogni quattro ore la mascherina e controllano come balie il livello di ossigeno della bombola. Quando alla fine le madri arrivano, lei ha preso già la sua decisione. Si alza pallida, appena parte la distribuzione degli antipasti, e annuncia che è in stato interessante. Nessuno ha il cattivo gusto di chiedere se per opera del fidanzato morto o del bandito che abbisogna di ossigeno. Nella vita, così come è, non tutto giunge a chiarezza, nonostante il lodevole lavoro dei detective privati.
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Far niente
Non è che io parli in prima persona, perché abbia qualcosa di intimo da dire che un altro, di me, non potrebbe dire, se solamente mi vedesse, per buona parte della giornata, mentre vivo quello che vivo, faccio le cose della mia vita, dico le poche frasi che le danno senso. Parlo alla prima persona, in quanto chi è molto povero come me, un intermediario, ossia la terza persona, non può permettersela. Non sembra sul momento, ma considerando la durata intera del discorso, i malintesi e le ripetizioni, e qualche amnesia da colmare, i costi lievitano. Ed è in ogni caso quanto basta, quello che ci chiedono, un po’ di autenticità, a gente come noi. Loro stanno raccogliendo le informazioni, le nostre, ognuno dà in ragione delle informazioni che ha, e dei mezzi di diffusione che possiede, io che ne ho poche, d’informazioni, e nessun mezzo, le dò così. Con biro e foglio. Noi, che siamo autentici, non possiamo depositare ritratti cinematografici, monumenti equestri, cofanetti audio dei nostri pianti o borbottii, abbiamo la zona bassa dello schedario, che ci è riservata, con diverse righe tratteggiate, e il pronome personale umile, ma altrettanto legittimo sul piano burocratico, della prima persona. Non dico sia dignitoso o di grande interesse, ma così posso dire anche male, direttamente, usando quella coscienza poca, povera, che mi resta, e non ho dovere d’esattezza o stile, di dominio cronachistico sui fatti, non sono un testimone oculare, ma qualcuno semmai che si confessa, già ben implicato, immerso nella colpa. Ho fatto quello che dovevo fare. Sono andato dove mi si chiedeva. E ho lavorato. Più che altro, questo. A volte, non so neppure per quale grazia, ho fatto l’amore, messo incinta una donna, avuto dei figli. E intanto, andavo in certi posti, ben suggeriti da altri, e lì – chiuso dentro – lavoravo. Potrei anche parlare di tutto il lavoro che ho fatto senza quasi rendermene conto, io da solo, negli anni della mia vita, da quando ho cominciato a lavorare fino ad oggi. Se mettessi in fila, come indirizzati a un unico progetto, tutti i miei gesti lavorativi, un acquedotto romano o una cattedrale gotica probabilmente ne sarebbe il risultato. Io da solo. Magari esagero. A volte, non so per quale grazia, ho però smesso di lavorare. E allora andavo verso un posto pieno d’erba, dove a lavorare al massimo fossero i castori, gli scoiattoli o le altre bestie del bosco. Così io andavo verso il bosco, possibilmente fermandomi un po’ prima. Ben lontano dalla città, ma vicinissimo al bosco. Non del tutto dentro il bosco, perché è scomodissimo sdraiarsi. Pochi passi prima, invece, è perfetto: dove c’è il semplice prato. Sembra fatto, quel prato, per chi ha smesso di lavorare. Allora mi ci mettevo, tirandomi dietro mia moglie e i mie figli, e mi concentravo tutto sul non fare nulla. Non volevo finire in quello stato bastardo che è l’ozio, dove uno fa qualcosa, si affanna a leggere e a suonare lo zufolo, senza neppure essere remunerato. Se non si lavora, si deve non lavorare con coerenza. E fare quindi nulla. E per raggiungere il successo, in tale operazione, trovarsi il prato adiacente al bosco è indispensabile. Poi minacciare di sberle tutta la famiglia, se mai a qualcuno venisse la voglia di andare a raccogliere funghi. Tutti sdraiati come i morti, si deve stare, a mio parere, quando non si lavora. E guai ad addormentarsi, che poi uno non se ne rende più conto, quanto è stato bello il momento del far niente.
In queste prose è in atto una secolarizzazione del narratore. bravo Andriù effeffe
Non si confà molto a quello che pensavo foste censurare ed insabbiare. Ragazzi ma che combinate? Di chi è ora, questa guerra? e per chi?
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Grazie mille di questi testi, Andrea. Mi sono molto piaciuti, soprattutto “Il fidanzato”! :)
*agente immobiliare*. i giornali vecchi che Capurro conserva nell’appartamento contenevano in effetti “qualcosa che a lui sfuggiva”. ma non era una notizia importante. era il tempo. la “svolta che riguardava tutti, amaramente, e lui pure” continuava a fare tic tac, col risultato di “cambiargli la vita” nonostante la paralisi delle circostanze. già… circo-stanze, ovvero stanze circolari, gira gira gira la lancetta anche se restiamo immobili. così Capurro semplicemente invecchia in pace con se stesso, vivendo di “concetti” più che di eventi. emblematico, pertanto, che continui a entrare e uscire da “case in vendita”, involucri vuoti che indubbiamente sono “occasioni da realizzare” che si lascia sfuggire. non le abita, se non a parole (“lui amava ascoltarla, anche se spesso ripeteva le stesse cose”), quasi a ficcare il dito nella piaga del carpe diem che non viene colto: è *proprio il momento* ciò “stavano al momento visitando”, tanto che a corpo testo viene esplicitato che “le occasioni erano pochissime, anzi si riducevano ad una sola, proprio lì e in quel momento.” il tutto finisce per trasformarsi in una sorta di riuscito esorcismo, tanto che “l’idea di vivere” rimpiazza il vivere reale, restituendo a Capurro l’allegria.
*il fidanzato*: nel testo, così come è, non tutto giunge a chiarezza, nonostante il lodevole lavoro dei lettori. interessante (in stato e non).
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*far niente*: il concetto espresso in incipit è potente: parlare è quasi ridondante perché “racconto cose di me che chiunque altro potrebbe dire, se mi vedesse”. ecco, in quel *se mi vedesse* sta tutta la potenza del bisogno di parlare.
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e avanti: il concetto successivo, tra le righe è che la prima persona (“senza intermediario”) è più autentica della terza. ma anche della prima plurale? c’è un *noi* in “Noi, che siamo autentici” che suona ironico e beffardo, gettando una luce impietosa sul vittimismo poetico dei “nostri pianti o borbottii”. nell’approssimarsi al dire, o forse (meglio) nel dire approssimativo, l’io narrante, quindi, si confessa, ammette la colpa, ma subito dopo precisa “ho fatto quello che dovevo fare”. capito l’antifona? no? allora è il caso di tornare al titolo che svetta in cima al raccontino e cogliere il richiamo incrociato e stridente tra “ho fatto quello che dovevo fare” e non ci posso “far niente”. segue un rosario di frustrazioni, dall’essere agito al puro caso (“non so neppure per quale grazia, ho fatto l’amore, messo incinta una donna, avuto dei figli”), che viene santificato sull’altare della passività assoluta. “Tutti sdraiati come i morti”, si deve stare, accettando con coerenza il subire: “hai subito di tutto? devi subire anche il nulla”. urticante. confesso che l’erbetta tenera e “comoda per sdraiarsi” sul limitare tra città e bosco m’ha dato l’orticaria, come pure la fotografia impietosa di un io-noi così addomesticato da non riuscire più a entrare nel bosco ed essere davvero antagonista. “sembra fatto apposta, quel prato, per chi ha smesso di lavorare”. povero robin hood…
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senza contare poi che addentrandosi nel bosco non ci vede più nessuno e invece, come indicato poc’anzi, è proprio sul bisogno di *essere visti*, foss’anche a far niente, che si fonda la società mercato. impensabile che ci “si affanni a leggere e a suonare lo zufolo, senza neppure essere remunerati.” impensabile che qualcuno possa mettersi in testa di “andare a raccogliere funghi” invece di “raggiungere il successo”.
insomma, un altro terzetto di raccontini stimolanti assai. tu porta pazienza se provo a comunicare e spesso finisco per delirare. non ci posso… far niente.
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grazie malos, apprezzo le tue letture in qualche modo allegoriche e “nelle pieghe” ma non piattamente contenutistiche; è una buona via da battere, anche perché c’è un tremendo e grezzo contenutismo circolante
ho letto “il progetto”, un tuo racconto breve precedente. in calce ci sono alcuni commenti, ma – se non mi sono rincoglionito del tutto, ehm – a distanza di tempo sembra non essere più possibile inserirne altri (manca il riquadro… boh).
allora ho deciso di incollare qui ciò che ho pensato: in caso, se ritieni che sia fuori luogo (visto che in un certo senso di sicuro lo è ), puoi sempre cancellarlo o non lo leggerlo.
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“grandi specchi d’acqua dalle forme regolari” m’ha fatto *riflettere* (inevitabilmente): perché un desiderio tanto grande (nonché una spinta così potente) anche quando dispone della realtà sconfinata del sogno s’inscrive e circoscrive in “forme regolari”? ci ho letto l’incapacità di trasgredire. non serve a nulla che enzo spieghi “meglio del giorno precedente le sue idee”. ridotto a un giullare del capo, enzo e il suo progetto sono *prevedibili*, quindi innocui.
il capo può riscuotersi di soprassalto e intervenire a tono in qualunque parte del discorso perché in realtà le parole di enzo proprio nell’essere invariabilmente smisurate, sono sempre quelle, ovvero acquisiscono una loro smisura predefinita.
un’unità di dismisura.
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interessante.
pertanto, indossare un vestibolo di tempo diverso, diventa per enzo il sintomo dell’eterna sconfitta. il bar è uno zoo popolato da un’umanità stagnante, una riserva indiana, un “cerchio/cerchia di concentrata esaltazione” in cui continuare ad esorcizzare più che “riscattare le miserie”. una sorta di auto-illusionismo dove, di nuovo, come già notato nel sogno iniziale, la capacità di sovvertire si riduce ad una “combinatoria minima”. ironia graffiante.
avendo letto (con godimento) un discreto (ma ancora insufficiente) numero di tuoi racconti (e di poesie), la sensazione che mi coglie è per certi versi similare. la scrittura è intima, raccolta, quasi disturbante per quanto appare remissiva e pacata nella forma, pur risultando spesso urticante nella sostanza.
il rischio potrebbe essere quello di costringersi entro un’unità di dismisura?
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mmmm…
altra cosa che ho notato, pur essendo notoriamente distratto, è che in questa manciata di prose non ci sono dialoghi. c’è un motivo (chessò, non t’ispiravano nel contesto del narrato diaristico) o semplicemente è un caso?
caro malos,
una forma remissiva e pacata che veicola una sostanza urticante, diciamo che la formula mi corrisponde, o in ogni caso mi piacerebbe che così fosse; quel che vedo in giro, spesso, è forma urticante per sostanza remissiva, non so se mi spiego…
poi la letteratura resta letteratura: è sempre una lotta obliqua, quando pure riesce ad essere lotta contro o per qualcosa…
i dialoghi no perché essi portano, in generale, sull’istante presente: sono un rallentamento verso il tempo reale; a me sopratutto in queste prose interessano le acellerazioni e le condensazioni: gli anni che precipitano gli uni sugli altri, ma sopratutto l’idea del tempo ripetuto, della reiterazione, dell’eterno ritorno dell’uguale