Da “Parti di un’autobiografia”

di Alberto Casadei

 

Era normale soffrire nella camera in cui già tanti erano passati. I vestiti neri, come quelle scarpe, gli occhi atteggiati alla circostanza e altri meno abili. Continuavano a stringergli la mano. Poi si chiedevano se era un figlio onesto, se non avrebbe dovuto piangere o mostrarsi diverso, se i familiari tenevano un contegno degno fino al giusto segno.

Il liquido bruciato per sigillare, sicura professionalità, i migliori. Ecco l’infilavite elettrico, agì velocissimo, una dopo l’altra in fondo, tenuto acceso, la vite arriva a un punto, fisso. Ma dentro ancora carne, o no, quello che era stato, lui sapeva, ora zinco, sopra. Il legno che copre neppure è eterno. Fiori visi, spalle piegate dallo sforzo, sforzo finito. Moto. Lui vedeva le sue rughe; il suo pensare costante per lui, dopo che ebbe fatto parte del suo sangue. Immoto. Si allontana nel legno.

Rimaneva dunque la consistenza degli oggetti. Il loro restare dove, in un dove, senza ambiguità. Li fissava dopo ogni istante trascorso, dopo ogni spostamento del suo corpo, come se avesse potuto scorgerne un riflesso in loro. Ma il loro era uno stato – il legno del letto delle sedie, intonaco e porfido, vernice, tutta quanta la materia viveva negli oggetti della sua stanza. Ne conosceva le dimensioni e i colori, le posizioni, i dati di fatto; le variabili (led accesi o spenti, rumori, calore, …); le perturbazioni che non avevano significato. Agisce.

Pulire la tazza, nettarla con cura affinché ogni macchia scompaia, ogni traccia del suo pasto. Trattarla con spugna, sapone liquido buono, indi sciacquare fino a completo smaltimento di bolle untumi, cose morte. Emerse di nuovo alla luce, splendida e tonda e priva di macchia. Eppure una tazza da cucina per mangiarci ogni giorno.

Perché le cose gli erano vicine tanto che a esse si sentiva vincolato come a sovrani, gli imponevano il loro restare ferme, la loro diversità da lui e da tutti i suoi simili. E le sensazioni dipendevano da ciò cui si appoggiava, diventava pietra del muro e lana del vestito e. Quando anche avessero cessato lui non avrebbe sentito il suo corpo presente, individuo.

 

[…]

 

La corda era lunga, non finiva dopo metri e attimi, durava sempre di più. Gli voltava le spalle, andando, mentre lui era fermo in quel punto. Mentre lui vedeva il suo cappotto e i suoi stivali di gomma e la sua sciarpa e il cappello sopra la testa. Lui non ha il cappello.

Si allontana stringendo la corda, numerata. Gli disse: «Stai fermo, in quel punto», come se ci fosse stata un’altra possibilità ora che il tempo e lo spazio sono in quel punto. Lui, di pochi anni.

Allora si voltò indietro per guardare se aveva obbedito. Era sereno, assorto.  Eppure lui aveva còlto tracce di altri pensieri in altre circostanze, preoccupazioni non espresse che forse non sarebbero state comprese. Parte di una vita iniziatasi in un mondo senza televisione, in un’epoca già studiata nei libri di storia. (C’è chi attraversa indenne i suoi anni, c’è chi non li attraversa affatto, ma passa loro di lato).

Oppure era per il figlio che si preoccupava, non riuscivano ancora a parlare e tuttavia si trovano nello stesso luogo, mattina pranzo cena notte mattina, e vede i bisogni le malattie insegna quanto si può insegnare in un giorno, e vede che cambia.

Reggeva la corda, calcoli metri esatti, lavorava con misuratori e inchiostri carta trasparente dopo i calcoli, per i quali restava seduto a lungo alla sua scrivania nella sua stanza. La sua vita si poteva capire da quelle migliaia di carte che lui non doveva toccare.

Ma intanto lui fermo, lui col suo cappottino e l’estremità della corda in mano, e quelle carte non c’erano, c’era la sua terra, le viti, una porzione di tempo riservata a loro, la terra secca sopra ma umida in punti nascosti, lui si piega verso la terra come ha fatto anche il suo, corda tesa, misura, si alzano, a cosa pensa, spostarsi, la terra è marrone, forse adesso riavvolge il nastro, forse si avvia verso.

La misura è di m. 15,80. Lo guardò soddisfatto, sereno.

Dall’alto la parte sospesa, il tondo perfetto; dal basso le forme geometricamente meno nobili, legate alla terra, rettangoli, liste oblique. Lui al centro come un uomo del Rinascimento; ma solo lì, nel mondo da lui costruito, in un cubo da lui abitato, non altrove. Poteva fissare oggetti, come fece da quando aveva cominciato a ricordare e spazio e tempo sorgono insieme, poi si distruggono; ma non lì, dove lui abitava, in medio, dove ancora, pensava, sarebbe stato se avesse saputo segnare i luoghi, riconoscere.

I rapporti geometrici, del resto, costituiscono un dato non accessorio, non plasmabile, condizionano i gesti in modo tale da entrare a farvi parte. I suoi gesti nascono perciò in uno spazio rigido, poi vengono modificati adattandoli ad altre circostanze.

Gli stati che identificano il suo passaggio. Il deposito dei vestiti sopra una sedia o sulla poltrona-letto in stoffa ruvida color ocra antistrappo. Su quella poltrona (o sulle sedie) deposita i pantaloni grigi, le camicie a righe, i maglioni di lana grossa, mentre in altre zone rimangono impermeabile giacca sciarpa scarpe calze di varia lunghezza. Per un po’ di tempo tutto sta così.

Il letto, ora un catalogo neutro-preciso. Il pigiama comprato in svendita, la federa con lenzuola coordinate ma più lise, bianche o al limite a scacchi marroni, piccoli; poi la coperta, la sovracoperta, ogni genere di protezione, sconvolte al mattino e risistemate, senza pieghe, drittamente, con il pigiama nascosto, perché lui viveva e mangiava e veste altri panni.

Pochi cose degne di sguardo (un orologio vecchio ma ben funzionante, colore bordò, regalo di parenti, marca Junghas o simile, tedesca), finestre da chiudere-aprire, sostituire il consumato (fiammiferi familiari, carta scottex, detersivi abrasivi acquistati su consiglio dei più esperti, pile esaurite ancorché di durata estrema). Ma infine di poco si modifica il suo valore complessivo, il suo ecosistema generato lentamente dai bisogni, nemmeno primari. Gli aspetti erano questi, l’ordine e il disordine si assomigliano per la continua e ovvia calma della condizione complessiva. Tuttavia non avrebbe potuto ripetere esattamente, fino all’ultimo dettaglio (posizione delle vesti – livello dei liquidi – numero degli oggetti sul tavolo – computo delle entrate e delle uscite), un suo giorno.

Dovunque si trovano delle certezze. Quando la lampadina si illumina allo scatto dell’interruttore o il frigorifero classe A+ congela immediatamente il prodotto; quando la musica sempre uguale, senza fruscii dell’MP3 o la regolarità elettronica della sveglia del cellulare si ripetono; quando si sa, non può essere immaginato niente. Ovvero: vivere in silenzio, tra pacchi preconfezionati di cibi e polveri, da cui trarre conforto alla normalità. Pur sapendo che non di una statica si tratta, quale per essi oggetti, ma di una congiuntura.

 

[…]

 

Lo aspettava sorridente, ha occhi stanchi ma una parvenza di gioia li attraversa quando lui si avvicinò. Quell’attimo. Poi poche frasi, sempre meno chiare, come se il contatto fosse già terminato e il suo corpo di vecchio lo avesse allontanato, lui, sua discendenza. Ma non carne, non parte del suo corpo di vecchio, i corpi non possono riunirsi.

Il braccio teso tumefatto per le iniezioni, la pelle contratta sulle ossa, rappresa. Indica il suo letto, il suo respiro. Giungendo al suo braccio l’infermiera volle dire qualcosa. Il vecchio non capì o fece finta. L’infermiera lo lasciò. Sentì il peso del suo corpo, poiché era abbandonato.

Lo guardò mentre dormiva. Un sonno strano, esce dal suo viso, diveniva quasi una maschera che faceva svanire i suoi lineamenti. La sua bocca vuota, aperta e nera, uno scavo, per il respiro affannoso assumeva forme non regolari, non pensabili, mentre la testa si fletteva lentamente verso il busto, e cadeva nello sfasciarsi della sua carne.

Poi chiese aiuto. «Aiutatemi un po’, non respiro, aiutatemi un po’, vi prego, non respiro, aiutatemi un po’». Quasi che lui potesse toglierlo dal male, dal suo corpo, e il tempo fosse fermo. Lui andava in giro con il nonno la domenica, al maneggio, dove saliva su un cavallino e guardava gli adulti sui pezzati o sui bai. Spazio, rumore, era diverso da casa. In casa c’era il silenzio, il nonno stava fuori, veniva col rumore.

Ma una volta gli disse: «Tu non ti appassioni di niente». Seppe che i loro mondi non combaciavano. E ora la sua pelle di vecchio. Le rughe orizzontali inclinate, quasi tagli. I suoi capelli raccorciati, come se fosse pronto per uscire. Invece doveva rimanere in quel letto, disteso, pesantezza. Gli occhi dentro la pelle, coperti da un velo grommosi, rivolti più all’interno che al mondo fuori di lui, vecchio. Non ogni fibra del suo corpo era logica. Si strattonava ancora, un guizzo un’energia che si scarica.

Verso di lui aveva gentilezze speciali, perché lui era la sua continuità, lui era il suo erede, il maschio nuovo. Ma adesso, delle loro tante parole cosa poteva conservare? Quanto poco di vita sapeva quel suo rimanere. Il muro il letto le tazze sul comodino erano più resistenti di quel suo corpo vecchio.

Però anche la pelle era cosa, con le rughe scavate nere, perché aveva vissuto, e ancora viveva dopo aver attraversato milioni di gesti, di minuti. Poco prima. Sulla poltrona del salotto aspettava e salutava: alla fine i gesti si fermano sulle fibre o si attaccano alle parole, cercando di consegnare un ricordo alle stesse identiche frasi.

Aspettare un segno, che giunge da una regione ignota, da un altro stato possibile, non da quel suo corpo, vecchio. «Ti ricordi quell’aria di chiesa che cantava Gigli. L’ho sognata stanotte, che bël sógn ch’a j’ ho fat». Dentro la carne stava il male, il cuore spinto dal pacemaker. Diagnosi facile per tutti i medici che si accostavano alcuni minuti. Ma il male non era lì quando andavano in giro in bicicletta. I ricordi ingannano, quel corpo vecchio non era ricordi.

La bocca aperta prendeva l’ossigeno, glielo premevano dentro ai polmoni, ma non bastava, perché tanti giorni erano passati, e dal suo stanzino ripeteva le stesse domande, quelle che si erano bloccate nel cervello. La mano si aggrappò alla sbarra del letto, serviva soltanto respirare, piegarsi, tornare a stendersi sui cuscini, fra le parole degli infermieri. Un ordine dato alle cose è destinato a svanire prima di esse, perché di esse è meno forte. Sta respirando ancora.

*

Sezione di un testo dal titolo Sui gesti lontani, di prossima pubblicazione.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.