Le dieci volte che ho incontrato Vincenzo Pardini
di Carlo Mazza Galanti
Ho incontrato Vincenzo Pardini molte volte. La prima grazie a un suo estimatore, Carlo Carabba, che alla redazione di Nuovi Argomenti mi allungò un libretto pubblicato da Quiritta presentandomelo come “un grande”, e “uno scrittore di culto”. È stato subito culto, per me, in effetti.
La seconda, ma forse dovrebbe andare per prima, è stato un déjà vu: le prime impressioni ricevute leggendo i suoi racconti, come a volte succede, mi hanno rimandato ad autori del passato che amavo: certa letteratura sospesa in atmosfere impalpabili, e però perfettamente riconoscibili, prossime ai domini del fantastico ottocentesco (Natalia Ginzburg lo definì “il nostro Maupassant”), o all’asciuttezza narrativa di suoi conterranei: Tobino, che Pardini stima molto, e Tozzi, un autore che meriterebbe di essere molto più letto. E Silvio d’Arzo, anche.
La terza volta che ho incontrato Pardini è stato dopo averne letto un po’ di libri (ne ha scritti parecchi), ed essermi reso conto del valore e della ricchezza della sua opera: La mia storia di scrittore – mi ha raccontato via mail – inizia nella metà anni Settanta. Mandai due racconti a Enzo Siciliano, poi confluiti ne Il falco d’oro. Cominciai così. Il primo libro, La volpe bianca, uscì dalla Pilotta nel 1981, nel 1983 uscii col Il falco d’oro, Mondadori, nel 1987, sempre Mondadori, con Il racconto della Luna, poi con Jodo Cartamigli. E via di questo passo, finendo da Bompiani, Giunti, Quiritta, Laterza, con testi per ragazzi, Pequod e infine Fandango.
Ricordo lo stupore leggendo Il bilancio: un racconto di giovinezza credo compreso nel Falco d’oro, già limpido e misterioso come quelli che verranno, la storia di un inseguimento tra un ragazzo e una specie di avvoltoio, azzoppato. Anche quello è stato un incontro che mi piace considerare a parte.
Ma soprattutto quello con Segregazione, lungo racconto che apre un libro del ’95, Rasoio di guerra, ripubblicato da Pequod nel 2007, che mi sembrò uscito da un immaginario così estremo, al limite dell’intollerabile, da ossessionarmi per diversi giorni. Non sono sicuro che sia davvero rappresentativo della sua scrittura: racconta in soggettiva la storia di un freak, un essere umano indescrivibile, orripilante, e si legge come una potente allegoria di ogni forma possibile e immaginabile di emarginazione e isolamento. L’ho postato sul sito minima&moralia, dove chi vuole può ancora trovarlo.
Fu per me decisivo il mio incontro con Pardini mediato dagli amici animalisti e antispecisti: a loro che abbracciano battaglie che paiono fin troppo idealiste ma che possono aiutare molto, credo, a disinnescare un’atavica miopia dell’essere umano, quella di non considerarsi un animale; a loro ho provato a passare Pardini. Non è per nulla interessato a formulazioni filosofiche e teoriche ma potrebbe diventare una vostra icona, gli ho detto. Non credo esistano altri scrittori nella storia della letteratura che abbiano esplorato con tanta intensità, sensibiltà e ostinazione il mondo animale. Quasi ogni suo testo si sviluppa intorno alla presenza di un animale. Bisogna cercare nell’arte visiva per trovare qualcosa di simile: Franz Marc o Antonio Ligabue, per esempio. E bisognerebbe leggere quello che dice Debenedetti sugli animali nei racconti di Tozzi: “movimenti di vita, chiusi e complessi grumi di un divenire nel quale riconosciamo poi, ma solo in un momento ulteriore, la sagoma di un destino che ci riguarda” per scoprire come Pardini sia andato, su quella direzione, molto più avanti del suo nobile predecessore.
“Chiusi e complessi grumi di divenire” si accordano forse meglio a forme brevi che lunghe e per me Pardini resta uno dei maggiori novellisti della letteratura italiana. Non per questo rinuncerò ad annoverare trai miei incontri con lui (siamo al settimo credo) quello con i suoi romanzi, dal magmatico Lettera a Dio fino a Il postale, da poco uscito per Fandango: storia di un postiglione dalla fine dell’ottocento alla fine della prima guerra mondiale. La morte di una professione raccontata con straordinaria perizia descrittiva, minuzia di dettagli, cammei di importanti figure del passato (Pascoli, Baracca, Puccini, Bresci), l’emergere del fascismo dalle ceneri del vecchio mondo, il rilancio del complesso militare-industriale, le nuove tecnologie. La solita lingua pulita e precisissima, dove a “barcollare” non è un ubriacone ma una culla, o dove il Serchio “ruglia”. E naturalmente la storia di un cavallo, che si chiama come quello di Achille: Balio.
In occasione dell’uscita di questo libro, Fandango ha organizzato una serata, a Roma, il 13 dicembre, un vero e proprio omaggio a Pardini dove alcuni scrittori hanno letto parti della sua opera, in presenza dell’autore. Ecco un altro incontro. Non sono mai passato nè da segreterie, nè sacrestie – mi ha detto – indipendenza e solitudine hanno un prezzo alto. Sarà, ma ognuno ha il pubblico che si merita, e quello di Pardini, per quanto numericamente limitato, mi sembra un pubblico invidiabile. Tra i contemporanei ammiratori di questo scrittore ci sono Marco Lodoli, Valerio Magrelli, Emanuele Trevi, Aurelio Picca, Mario Desiati, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Romana Petri.
L’unica volta, ad oggi, che ho incontrato Pardini nelle sue terre è stato un paio di anni fa, quando sono andato a trovarlo nella sua casa in mezzo alla campagna dell’oltre Serchio. Lui vive da sempre in quella parte della toscana, tra Garfagnana, Lunigiana, Media Valle del Serchio. Quasi ogni sua narrazione è ambientata lì: che si tratti dell’epoca degli etruschi, di quella dell’Ariosto, dell’ottocento o della contemporaneità. In questo senso la sua opera è uno spaccato verticale della storia del nostro paese, a partire da una geografia molto circoscritta. Pardini ha preferito l’intensità del “locale” all’estensione del “globale”. Una forma spontanea di resistenza. “Non vado mai in vacanza” mi ha detto, in quella circostanza. Nel senso che quasi mai si allontana dalle sue parti. Ne conosce il passato, il presente, le genti, gli animali: di cui ripete i versi in un modo particolarissimo, non una semplice imitazione ma uno stenogramma sonoro, per così dire, come se sapesse coglierne solo i tratti pertinenti, quelli che ne fanno un vero e proprio linguaggio.
[Questo articolo, con qualche variazione, è stato pubblicato su Orwell, un inserto culturale momentaneamente e suo malgrado uscito dalle edicole. Per sapere dove e come ritornerà, leggere qui]
Incontro Vincenzo Pardini quasi ogni anno, verso giugno, a Lucca. Ci diamo appuntamento davanti a San Martino e poi passeggiamo un paio d’ore per le stradine della città. Iniziamo a parlare di libri ma presto passiamo alla verdura e agli ulivi, alle cose da fare in campagna, siamo due contadini, ognuno a modo suo, che si danno appuntamento per dirsi cos’hanno piantato e mentre parlano si fermano davanti alla casa tra le mura dove Dante si rifugiò, alzano gli occhi e tacciono un attimo, oppure si fanno il segno della croce davanti all’edicola religiosa della santa bambina. Entrano ogni volta in una chiesa diversa. O durante quegli attimi di silenzio assoluto che secondo me capitano solo a Lucca, guardando tra i tetti la gabbia azzurra, si raccontano qualcosa sullo zirlo del tordo bottaccio.
Carlo Mazza Galanti, che ringrazio, al solito, sa cogliere molto bene i silenzi e le voci della prosa pardiniana.