Quali politiche per il museo di arte contemporanea?
di Michele Dantini
Annus horribilis. Il 2012 è stato funesto per la gran parte dei musei di arte contemporanea italiani, e il 2013, con le roventi polemiche destatesi attorno al Maxxi o il conflitto tra AMACI e CdA sulla conduzione del Castello di Rivoli, è iniziato sotto auspici persino peggiori. La “crisi” non è solo locale: rimanda a una flessione globale di autorevolezza e prestigio del contemporaneo, accompagnata da perplessità crescenti sul ruolo e la qualificazione culturale dei curatori più giovani, oggi precocemente inseriti in un’opaca routine di (auto)promozione e fundraising contraria alle esigenze di una serie formazione.
Dunque, che accade? Le politiche di austerità incidono. Il modello Krens-Guggenheim di museo-corporate è fallito assieme alle narrazioni più entusiastiche sulla globalizzazione, ed esiste un crescente dibattito internazionale sulla ragionevolezza degli investimenti. È lecito destinare ingenti somme di denaro pubblico a musei che sembrano avere smarrito un ruolo pubblico per diventare concessionarie di gallerie e architetture da noleggio? Colpisce che un numero sempre maggiore di voci insorga. Parliamo di Jhon Berger o Don DeLillo, Orhan Pamuk o Simon Schama: voci non pregiudizialmente avverse, come potremmo considerare quella di Marc Fumaroli o altri funerei detrattori di professione, ma di osservatori attenti e in linea di principio partecipi. Siamo cresciuti nella leggenda (anni Cinquanta, in Europa ancora anni Settanta) dell’artista incurante di convenzioni, giovane, appassionato e ribelle. Non di rado, presso il grande pubblico, ci si attende ancora che l’arte possa restituire senso ai vocaboli eroici della tradizione modernista, rigore e intransigenza in primo luogo. Ma qualcosa sta accadendo, con più evidenza dall’inizio della crisi economico-finanziaria, nel 2007; qualcosa che ricorda il primo movimento di una frana reputazionale. L’(ex) outsider di genio non è più il beniamino popolare. Simile agli artisti-principi di fine Ottocento, al servizio di banchieri, aristocratici e oligarchi, global players come Koons, Hirst o Cattelan gettano una luce che a non pochi appare ormai futile e sinistra.
Backstage di una crisi di sistema
Irresponsabilità sociale, mutazione “antropologica” del collezionismo finanziario, conformismo corporate. Tutto questo congiura, inutile negarlo, e induce al disincanto. In breve: la “differenza” etica, culturale, “antropologica” dell’artista, rivendicata ancora dalle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, appare dilapidata. Non è semplice ricostruire un’autorevolezza smarrita. Quale solidità avrebbe peraltro un simile tentativo? Potremmo supporre che sia ormai inevitabile contestare i confini istituzionali di ciò che si riconosce come “artistico”, sull’esempio della 7. Biennale berlinese, la più protestataria tra le manifestazioni recenti. E se cercassimo di definire in modo nuovo l’”arte” collocandola nel punto di intersezione tra attività estetiche e “servizi” alla comunità, addirittura sul piano delle iniziative per la legalità, il lavoro dignitoso, la difesa dell’ambiente, l’economia di relazione? O sul piano della conoscenza e della trasmissione dei saperi? “I mercanti sono dei parassiti, il pubblico non è intelligente e il vero genio, se non vuol farsi contaminare dal denaro, deve entrare in clandestinità”. Impossibile rimproverare reticenza o vaghezza a Duchamp. Abbiamo convinzioni in parte diverse, ma riconosciamo l’acutezza del rinvio alla condizione di “clandestinità”: gli artisti, agli occhi dell’autore del Grande vetro, rimangono fedeli a se stessi solo attraverso tradimenti e dislocazioni periodici. Uccidono l’arte al fine di reinventarla. L’Italia (e l’Europa mediterranea in generale) conosce oggi un momento di emergenza economica, sociale, culturale. Forse tutto il mondo attende, da parte degli artisti, dei ricercatori, degli intellettuali, pronunciamenti radicali e inventività controculturale. La produzione di oggetti luccicanti e dispendiosi non è criterio vincolante per la definizione di ciò che è “arte”. Potremmo persino giungere a concepire un mondo “senza” arte, purché più equilibrato, empatico e retto da principi di cura.
Museo, scuola pubblica, innovazione sociale: il punto di vista dell’outsider
La chiusura di un museo procura sconcerto: un luogo di relazione cessa di esistere e recare beneficio alla comunità. Il rogo di un quadro, sia pure modesto, ferisce (è accaduto al CAM di Casoria questa primavera): vanno in fumo tempo, dedizione, mitezza, pazienza, meticolosità. Ci siamo trovati come dilacerati dalla successione di notizie di impasse istituzionali o crisi rovinose: il MADRE, il Riso, il MAXXI, il Castello di Rivoli e perfino il MART. Non possiamo che deplorare, laddove sia il caso, incuria e impreparazione pubblica, insipienza politico-culturale di vertice, mancanza di investimenti qualificati. Al tempo stesso proviamo a proporre qualcosa come una riflessione distante da mere lagnanze corporative e suggerire spunti di autoriforma. La domanda è: quali politiche culturali per i nostri (migliori) musei di arte contemporanea?
L’opera d’arte (contemporanea), se tale, ha un valore intrinsecamente “politico” e non ha bisogno di accogliere “contenuti” esteriori per giustificare la propria necessità sociale. L’esperienza estetica educa l’osservatore all’interpretazione, a percorsi sperimentali di verifica e autocorrezione, all’interrogazione costante. Per i suoi caratteri di microinfrazione, l’opera d’arte (contemporanea) contribuisce a formare un’opinione pubblica informata, consapevole e indipendente, pronta a considerare criticamente un documento, l’autorità della tradizione o la validità di un enunciato; e a contrastare attivamente, con immaginazione e tenacia, corruzione, nepotismo o (poniamo) cicli recessivi. Di più: l’incontro con l’opera d’arte avvince e spinge a accogliere la complessità come sfida ludica e rituale. Educa al rifiuto del luogo comune, e propaga il gusto per l’osservazione acuta e penetrante. È importante che questo accada, in un paese in cui, sin dai più teneri anni, l’apprendimento non è vissuto dai più come gioco; e dove l’eco ubiquitaria del discorso politico consolida in ciascuno abitudini al ragionamento prudente e conformista.
La tradizione modernista italiana rifugge eccessi di spettacolarizzazione, divismo e gossip. E’ convinzione di Brandi, ad esempio, che “l’artista abbia responsabilità storiche e sociali non diverse da quelle di qualsiasi altro uomo”; e Longhi è pronto, nell’immediato dopoguerra, a elogiare l’attitudine schiva di Morandi, il suo rifiuto dell’istrionico e del “capaneico”. Dobbiamo essere esigenti quanto a arte e cultura: sono davvero importanti, in chiave civile, solo se producono conoscenze situate, o in altre parole competenza autobiografica e cittadinanza. Una politica culturale pubblica è chiamata a potenziare i compiti di agency, cioè di “pieno sviluppo della persona”; e a rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale” richiamati dall’articolo 3 della Costituzione. Stabiliamo un primo punto, che può sembrare paradossale: l’istituzione pubblica (o pubblico-privata) di cui parliamo, il museo appunto, esiste in primo luogo per i cittadini: né per gli artisti o gli sponsor né tantomeno per i politici che intendano fregiarsi del ruolo di protettori delle arti. È chiamata a conferire sostanza culturale specifica a istanze generali di equità, trasparenza, redistribuzione di opportunità. Avete presente il piccolo o la piccola seduti in ultima fila nel banco di scuola, nati da famiglie di umile origine? Bene: abbiamo una disperata necessità che il loro talento non vada disperso e dispieghi invece nel tempo risorse di attenzione e combattività.
Con opprimente scarsità di lessico, cognizione specifica e immaginazione gli economisti della cultura invocano da anni (o piuttosto intimano) strategie di rilancio del “capitale umano”. La locuzione non ci appassiona: come che sia, è evidente che proprio la disseminazione di offerta culturale innovativa, se associata a ampi, durevoli e qualificati processi educativi, può aiutare a trasformare tratti antropologico-culturali ritenuti svantaggiosi (ad esempio la “scarsa propensione al rischio” avversata nelle retoriche pro-startup). Ma non dovremmo restringere il punto di vista alla sfera economica, concentrandoci su “indotto” e impresa. Esistono innovazioni (sociali e istituzionali) che combattono esclusione o privilegio: meritano la nostra più grande attenzione anche se non contribuiscono direttamente alla crescita del PIL. L’offensiva neoliberista contro i saperi umanistici e la tradizione delle arti “liberali” impone a artisti, critici, curatori di ridefinire il museo sotto profili di resistenza culturale, in termini di etica del dono; e di sostituire alla dispendiosa ricerca del “grande evento” virtuose routine di restituzione.
[Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto]
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[…] _il manifesto, 23.2.2013, pp. 1, 10; ripubblicato in: Storie dell’arte, 24.2.2013 qui; in: Nazione indiana, 2.3.2013 qui […]
Se parla di crisi dei musei di arte contemporanea e non di crisi delle istituzioni culturali (musei, teatri, biblioteche, archivi, accademie etc.), ho il sospetto che anche questo articolo alimenti la, strisciante, guerra fra poveri che sta contribuendo a strangolare il sistema culturale italiano. I distinguo non portano a niente, creano solo ulteriore confusione.