Metafore della crisi
di Monia Andreani
Con Twilight viaggiamo dentro una metafora della crisi attuale, che è una crisi globale, scatenata dall’economia tardo-capitalista ma non confinata al campo finanziario o economico. Oggi siamo di fronte ad un livello tale di saturazione della crisi che il quadro molteplice in cui questa si è sviluppata – che è sociale, morale, politico e antropologico – comincia a diventare consapevolezza diffusa. La crisi è anche quella della nostra individualità di persone che vivono quotidianamente la forte diversificazione sociale, la frammentazione dei legami di relazione sociale e personale, la precarizzazione di tutti gli aspetti della vita (a partire dal lavoro), e la cronicizzazione delle malattie – che si è sostituita ai processi di invecchiamento e ha fatto emergere l’impossibilità di guarigione. Il modello nel quale sono cresciute le generazioni degli ultimi quaranta anni nell’Occidente ricco e liberale è fortemente segnato da processi di individualizzazione che hanno prodotto, secondo la puntuale analisi politica di Elena Pulcini, una forma di soggettività globalizzata, articolata in un io che è allo stesso tempo consumatore, spettatore, creatore: «da un lato l’individuo consumatore e l’individuo spettatore che si delineano in corrispondenza della globalizzazione economica e delle nuove sfide globali e che sono caratterizzati da atomismo e indifferenza, edonismo e conformismo, passività e insicurezza; dall’altro, l’individuo creatore, il quale, spinto da una coazione al fare alimentata dalla globalizzazione tecnologica, ha smarrito, insieme alla progettualità […] il senso e lo scopo dell’agire, finendo per ledere i suoi stessi interessi e per mettere in pericolo la sopravvivenza dell’umanità e del mondo» (Pulcini, 2009, p. 13).
Ora che la crisi ha raggiunto il suo apice e che da questo livello non tende a recedere di un sol passo, il consumatore parassita del sistema di produzione, lo spettatore avido e imbevuto dell’immagine virale, il “creatore” incentrato nella produzione capitalista a tutti i costi – anche se dislocata sempre più in fretta per motivi di profitto – sono entrati in una crisi senza precedenti. Twilight è uno specchio fantastico della crisi che investe l’Io globale, infatti ha spopolato ovunque: i protagonisti sono dei giovanissimi annoiati e soli, che vivono in una zona degli Stati Uniti periferica e difficile dal punto di vista geografico, perché lontanissima dalle capitali del sogno americano, sogno pertanto infranto sotto la scure della crisi.
Bella e i suoi amici umani sono di estrazione sociale bassa, Jacob il licantropo appartiene ad una comunità di nativi americani che vivono in una riserva. I Cullen appaiono come giovani di buona famiglia, si vestono in modo impeccabile e hanno macchine lussuose, ma questa ricchezza per loro non ha significato alcuno; di fatto non si vantano della loro condizione di élite, che serve solo a mascherare la necessità di stare separati dagli altri per motivi di sicurezza. Se fosse fatta solo di tali ingredienti, sarebbe molto difficile immaginare il successo della saga di Twilight, apparentemente centrata sulla mediocrità e sulla piatta quotidianità di una generazione in crisi. Per fortuna che a cambiare le sorti della storia interviene in un modo del tutto particolare. il lato fantastico.
Questi giovani sono speciali proprio nella loro normalità, dentro la quale non sembrano vivere con troppa insofferenza. Non sognano infatti di diventare famosi in qualche modo, di ottenere un posto di prestigio in una delle tante aziende che garantiscono stipendi stellari e ritmi di lavoro accelerati; non vogliono lavorare in qualche istituzione pubblica: non hanno in mente nulla per il loro futuro, semplicemente perché questo futuro non c’è nel loro orizzonte. Bella e i suoi amici sono speciali perché hanno a che fare con un aspetto fantastico e sovrumano della vita, che sfugge però ai desideri, divenuti irraggiungibili per l’io – globale. Questi ragazzi conoscono il valore della vita perché alcuni di loro sono morti e sono diventati vampiri; conoscono i problemi della famiglia frammentata perché c’è chi, come Bella, ha rinunciato ad una vita in Arizona con la madre per andare a vivere con un padre che conosce pochissimo in un luogo sperduto; vivono gli effetti della separazione dalla società e sono consapevoli delle limitazioni della comunità chiusa perché c’è chi, come Jacob, trascorre la sua vita immerso in una socialità definita dalle regole tribali del branco di licantropi. Bella, Edward e Jacob, per nominare solo i personaggi principali della serie di Twilight, sono rispettivamente una umana, un vampiro e un uomo-lupo; ma a parte questo dato di fatto, non vogliono trasformare il mondo o salvare l’umanità, come succede invece in tantissime saghe della fantasy o della fiction da super-eroi. Loro sono semplicemente dei ragazzi che attraversano l’adolescenza e non desiderano diventare adulti. È interessante riflettere su come la figura del vampiro si inserisca a pennello in una storia il cui dato fondamentale è la mancanza, nei termini di impossibilità, di una visione della vita proiettata verso il futuro.
Il ricorso al vampiro è sintomatico di un aspetto della crisi vissuta e percepita dalle generazioni giovanili che si concentra proprio nell’assenza di futuro, perché il vampiro è colui che vive un eterno presente senza fine. Se il vampiro poi è giovane, è destinato a rimanerlo per sempre, a ricominciare le scuole superiori e a terminarle per poi ricominciarle e mai accedere ad un posto di lavoro. Pensiamo ai tanti diplomi di Edward, tutti appesi in casa, ma che danno l’impressione di essere solo dei tristi cimeli, inutili in quanto destinati ad accumularsi per un “sempre” che ha perso la sua misura. Dracula poteva ringiovanire dalla sua secolare vita di essere mummificato grazie ad una buona dose di sangue giovane; questi ragazzi non possono ringiovanire e non possono invecchiare, sono legati alla loro età, eternamente giovani, per sempre incompiuti.
Su Dracula l’investimento dell’immaginario della fine dell’Ottocento aveva una proiezione del tutto diversa, potremmo dire opposta, rispetto a quella che si rispecchia oggi in Twilight. Il Conte Dracula è indubbiamente un resto della società nobiliare decaduta, surclassata dalla rivoluzione industriale e dalla capacità imprenditoriale e di sviluppo del capitalismo. Dracula è figlio dell’Inghilterra anche se vive in Transilvania, e proprio a Londra si svolge parte del romanzo, perché è nella capitale della rivoluzione industriale che lui vuole andare a vivere. Il Conte rappresenta senza troppa fantasia il vecchio nemico della borghesia vincente, e nei colloqui con il suo giovane ospite inglese è chiaro il disprezzo che prova nei confronti di chi non vanti la sua discendenza. Però la società che idealizzava i valori a cui è abituato, è ormai decaduta così come il suo castello che è chiuso tra mura diroccate e pieno di oggetti di valore ma del tutto inutili. Una parte di Dracula è morta con il suo vecchio mondo, la parte che è ancora in vita, quella per cui egli è vampiro, lo fa diventare un neofita della nuova società, avido e veloce nell’apprendimento. Fino a quando egli rimane in Transilvania e vive isolato dalla società moderna, dal cuore pulsante del rinnovamento, la sua vita è monotona e lenta, egli è immerso nei fasti del passato, vive di ricordi. Ma Dracula è anche pronto a cogliere l’opportunità di cambiamento, che progetta nei minimi dettagli con una surreale emigrazione verso Londra.
Il Conte non si lascia sfuggire la possibilità di espandere il suo potere, di rinforzarsi, di ringiovanire, di accrescersi. L’ultima immagine di Dracula descritta da Harker prima di fuggire dal castello illustra perfettamente la personalità di questo vampiro: «Il Conte giaceva nella cassa, ma sembrava che il tempo fosse tornato indietro, perché i baffi e i capelli erano diventati color grigio ferro: le guance erano più piene e la pelle sembrava più colorita: la bocca era più rossa che mai perché sulle labbra c’era sangue fresco che gocciolava lungo il mento e il collo. Gli occhi incavati e brucianti erano immersi nel gonfiore delle palpebre. Quell’orribile creatura era gonfia di sangue: giaceva come una lurida sanguisuga, esausta nella sua pienezza» (Stoker, 1976, p. 61).
Se lo leggiamo con le lenti della teoria politica, Dracula è un emulo dell’uomo prometeico, figlio della società industriale e della trasformazione del potere sovrano. Come l’individuo descritto da Hobbes – completamente dedito all’acquisizione spasmodica e alla ricerca di un potere che gli assicuri la conservazione della vita –, Dracula cerca di imparare a conoscere e a usare i suoi poteri, si sforza di accumulare sangue nel suo corpo, di conservarsi e migliorarsi, per ristabilire la salute data solo dalla gioventù; egli desidera – e anzi vuole a tutti i costi – avere una compagnia, per questo trasforma nuovi vampiri (Hobbes, 1987; Pulcini, 2009, p. 33). Il Conte non ha limiti, non si pone freni di sorta, è lanciato verso un continuo accrescimento del suo potere; nella sua corsa verso l’espansione egli non ha obiettivi di altro genere se non quelli di un individualismo sfrenato ed egoistico, in questo è simile ad un bambino e proprio in questo sta la sua più grande debolezza.
Dracula cade sotto il peso della efferata e incontrollata aberrazione dell’ideale capitalista e liberale: in lui manca l’aspetto della rinuncia e del sacrificio, non conosce disciplina ma solo voglia di mettersi alla prova; il suo destino di mostro è quello di parodiare alcuni aspetti di una individualità che egli non potrà mai acquisire del tutto, semplicemente perché la sua radice è in una società defunta e il suo rinnovamento non può durare. Il Conte ha un antagonista che è giovane e vincente, il prodotto perfetto della società rinnovata: intelligente e scaltro, amorale quanto basta per rubare l’oro del suo nemico durante la fuga dal castello, e per fondare la sua fortuna su questo furto/risarcimento del danno e sulle altre malefatte di Dracula.
Jonathan Harker misura i suoi successi in stretta relazione con gli insuccessi del Conte, ne è una controparte speculare; è coraggioso ma ancor di più lo è Mina sua moglie, che forma con lui un perfetto quadretto matrimoniale borghese.
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Tratto da: Monia Andreani, Twilight. Filosofia della vulnerabilità (Ev Edizioni, 2011), pp. 66-73.
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per sviscerare la nostra crisi,e magari metterci in riga,ci sarebbe voluto Hannibal Lecter che è l’archetipo del filosofo(nel primo episodio della sagra,Manhunter,si chiamava Lecktor,non a caso.E si risolveva iniziando a pensare con la propria testa).Ora è tardi(e il naufragar m’è dolce in questo spread)
http://downloads.redwampa.com/Twilight%20Chapitres%201,2,3,4%20Musiques/4%20R%C3%A9v%C3%A9lation/02.%20Angus%20%26%20Julia%20Stone%20-%20Love%20Will%20Take%20You.mp3
Scusami, cosa intendi quando scrivi che la cristi è stata scatenata dall’economia tardo capitalistica?
Mah, non so, questa lettura mi lascia davvero perplesso.
Anche io alle medie guardavo una serie americana di figoni e figone straricchi, Beverly Hills. Anche quella era costruita ad arte perché noi preadolescenti dei primi anni ’90 ci identificassimo nei protagonisti. Allora l’american way of life tirava ancora che era un piacere e quel mondo di ricchissimi figli di papà era un sogno. Ma lo spettatore adolescente, che ricco sfondato come i ragazzi viziati di LA non era, trovava a garantire una rassicurante identificazione e a introdurre senza complessi di inferiorità in quel mondo sbrilluccicante due protagonisti del Minnesota, Brandon e Brenda, semplici, non troppo ricchi, molto ben educati e nient’affatto gaté (in realtà fighissimi pure loro due, e con una casa da crepar d’invidia per chi come me abitava in un condominio).
La metafora era evidentemente: guarda quanto è bello questo mondo glittering e ricchissimo, potresti farne parte anche tu, che vieni dalla povera a patetica provincia dell’impero.
Di qui a far di quel telefilm metafora sociologica di un’epoca, ne passa un po’.
Ho letto tre quarti del primo Twilight, per dovere professionale (faccio l’insegnante e cerco di capire, non ho aristocratiche spocchie verso il pop).
Mi ha rattristato, perché conferma gli adolescenti nella loro stessa percezione di sé (falsa, perché non è loro in realtà, bensì quella che gli adulti entertainers pensano che essi debbano avere di sé). In effetti non che mi aspettassi qualcosa di diverso.
Comunque credo che esso rispecchi altro del mondo adolescenziale, non l’assenza d futuro, e che lo assolutizzi: Bella è solitaria e tanto tanto sensibile (come probabilmente si sente ogni ragazzina americana che non sculetti da cheerleaders), il vampiro è prima così lontano e irragiungibile e tanto tanto bono… finché non sceglie proprio Bella (possibile che abbia scelto proprio me? che emozione…); e quei muscoli sotto il maglione, mmm… (ricordo questo particolare, che ricorre più volte: alla terza ho abbandonato la lettura. La mia disponibilità al pop è alta, quella alla letteratura pop di quint’ordine no).
Insomma, visto che con una critica sociologica si può trovare una metafora della crisi in parecchie altre produzioni, val davvero la pena elevare a paradigma il prodotto di un immaginario tanto deteriore? Tra descrizione e giustificazione o nobilitazione a volte poco ne passa. Mi spiacerebbe che i giovani senza futuro di oggi mettessero sul comodino come loro breviario Twilight, come in altri tempi si metteva il Werther o Sulla strada.
“trovava a garantire una rassicurante identificazione e a introdurLO”
mah, non mi pare che l’autrice stia proponendo di sostituire Romeo and Juliet con Twilight, tutt’altro – non è che tutte le volte che parliamo di pop, di Lost come di Eminem o di Lady Gaga o Rat-man o che so io, stiamo proponendo di buttare nella spazzatura Werther e Mozart, no?
si riflette, piuttosto, su come funzionano questi “specchi fantastici”, perché sostengono così tanta identificazione, e come attraversano delle figurazioni come questa del vampiro, che da almeno un secolo e mezzo seduce e ripugna abbastanza da far sospettare di star dicendo qualcosa di rilevante su noi stessi
No, certo, quello che sto dicendo è che secondo me l’identificazione con questi personaggi dipende da qualcosa di piuttosto triviale (la sensibilità narcisistica e china sul proprio ombelico, il vellicare la propria irripetibile sensibilità e le proprie private sofferenze – vere e false, avrebbe detto Fortini -) e non tanto da un rispecchiamento di sé come individui senza futuro. Se l’arte, per quanto pop, già producesse un rispecchiamento del genere (in fondo tragico: l’individuo solo e condannato dal destino) sarebbe una buona cosa. Ma forse, in questo caso, troppa grazia.
daniele, se ci aspettiamo che l’arte faccia questa cosa “da sé”, senza mediazione degli interpretanti, che cosa caspita facciamo a fare i critici o i filosofi? andiamo tutti di corsa a scrivere poemi e lasciamo gli osservatori di ombelichi ad accortocciarsi su se stessi
La prego, non mi faccia così altezzoso.
Pensi che in questi giorni sto leggendo una Divina Commedia manga che mi ha messo in mano uno studente e mi sto domandando se e come si potrebbe usarla come interpretante per mediare quanto di Dante sia ormai tanto lontano dalle nostre categorie da risultare incomprensibile (non mi basta che i ragazzi conoscano come nozione che so, il sistema morale di Dante: vorrei che lo capissero, che ci entrassero in relazione dialettica). Proprio perché non si accartoccino su di sé, magari schiacciati dal peso di un monumento che resta per loro incomprensibile.
Dunque, molta critica e filosofia, ci mancherebbe, anche in dialogo col pop. Nessun’autonomia dell’arte, mentre il mondo in basso si rimescola nella sua fanghiglia.
Solo, contestavo QUESTA lettura che è stata data di Twilight.
Ma no, scusi lei l’eccesso di verve semmai – però riconoscerà che è più facile amare un Dante a fumetti che prendere sul serio (che non vuol dire assumere a classico) un polpettone neo-romantico pop :)
Comunque ribadisco: questo saggio sulla vulnerabilità di Andreani (che usa Twilight e più in generale le varie manifestazioni vampiriche attraverso letteratura e cinema; qui, naturalmente, solo un breve estratto) è delizioso. Non credo tanto che nobiliti qualcosa che non merita, piuttosto illumina/elabora una figurazione che, ci piaccia o no, mobilita grandi passioni (e non solo tra i giovanissimi).
Eh sì, Dante – maledetto – riesce a farsi amare pure a fumetti. Ma che c’avrà mai quell’uomo lì? Chissà, forse la grazia divina… mah.
Saluti
Beh, Daniele, se la mette su Dante VS Dracula – come dice quella certa pubblicità? – le piace vincere facile :) non era quello il punto, infatti – del resto prendo atto, c’est tout!
L’intento del mio libro è quello di non snobbare la letteratura minore o commerciale che è, effettivamente, quando lo è, di grandissima fruizione da parte delle persone di tutto il mondo – in questo caso adolescenti – ma di cercare motivazioni dell’interesse e soprattutto portare a riflettere e a sviluppare una analisi sull’attuale e sulle immagini che da tale letteratura vengono proiettate … Dante non c’entra nulla!
Se vuole può leggere interamente il libro, la questione è come trovare una linea di destrutturazione sulla loro presunta conferma di immobilità – che anche noi proponiamo loro – … potrebbe trovare anche motivazioni che non sono così concilianti … del resto loro cercano qualcosa, dentro la loro ricerca e dietro la patina del glamour ci possono essere elementi di contatto con una modifica dell’attuale visione che loro stessi hanno di sé – e poi non è Bella ad essere fortunata perché il vampiro ha scelto lei, ma il vampiro che è scelto da Bella, è lei che agisce in tutti i romanzi come colei che decide, e per la prima volta in una storia mainstream sul vampirismo è una umana che decide di diventare vampira, segnale-sintomo della situazione contemporanea … ma oltre il vampiro c’è di più, ci sono gli affetti, i legami, la voglia di famiglia non tradizionale, di comunità fondata sulla relazione, questo è il rischio che mi sono presa con la mia lettura, un tentativo di andare a fondo e vedere l’uscita dal buio …
A Dante eravamo arrivati per slittamenti successivi io e Morresi post dopo post.
La mia chiusa sorridente sul poeta era appunto solo una chiusa, non un rilancio; anche io prendo atto che “c’est tout”, quel che pensiamo lo si è detto, si è composto quel che c’era da comporre, sul resto non si è d’accordo. Bien.
Saluti a entrambe