Il romanzo e la strategia dell’inventario
Di Andrea Inglese
Spunti kunderiani
Nel 2010, il Seminario Internazionale del Romanzo ci ha offerto uno spunto di riflessione, mettendo a confronto in maniera polemica due principi che, di per sé, dovrebbero garantire al genere romanzesco la sua vitalità: il principio architettonico, che organizza ed esplora il materiale narrativo, e il principio – come io lo definirei – della peripezia, che costituisce il materiale narrativo allo stato per così dire “grezzo”. In realtà, come Massimo Rizzante ha sottolineato, l’odierna produzione editoriale, che fa del romanzo il suo genere letterario privilegiato, contribuisce ad enfatizzare il principio della peripezia a scapito di quello compositivo, privando così il genere delle sue potenzialità conoscitive.È un tema questo, che troviamo sviluppato da Milan Kundera in un paragrafo del saggio Il sipario. Egli rileva nel Tom Jones di Fielding la prima esplicita rivendicazione dell’importanza che il romanziere assegna al principio architettonico, ossia alla forma libera e autonoma di presentazione degli avvenimenti narrati. Scrive Kundera:
“Fielding intende soprattutto impedire che il romanzo si riduca a quella concatenazione causale di atti, gesti e di parole che gli inglesi chiamano story e che pretende di costituire il senso e l’essenza del romanzo; contro il potere assolutista della story egli rivendica in particolare il diritto di interrompere la narrazione, “dove e quando vorrà”, introducendo commenti e riflessioni, ovvero digressioni.”
Oggi assisteremmo, quindi, a una forma di regressione che, in ragione di strategie commerciali, riconducono e costringono il romanzo nel letto di Procuste della story. Non mi soffermo su questa diagnosi, che condivido nelle sue linee generali. Ho intenzione, invece, di esplorare uno di quei procedimenti che fa parte del bagaglio “architettonico” del romanziere, l’inventario. Si tratta, in effetti, di un procedimento che si oppone, all’interno del discorso romanzesco, alla pura concatenazione degli avvenimenti. A livello generale constatiamo che, quando l’istanza narrativa procede a un inventario, lo sviluppo dell’azione s’interrompe. L’inventario, insomma, ostacola, rallenta o differisce il resoconto delle vicende.
Il mio primo obiettivo sarà di chiarire quale possa essere la portata conoscitiva dell’inventario all’interno del romanzo. In secondo luogo, cercherò di mostrare come l’inventario da procedimento tattico, ossia circoscritto e alternativo rispetto alla story, giunga persino ad acquisire il ruolo di procedimento strategico, organizzando a partire da sé l’intero discorso romanzesco. Varrà poi la pena di chiedersi se, in tali casi, abbia ancora senso parlare di “romanzo”.
Intreccio e peripezia
Prima di procedere, è però indispensabile chiarire alcuni termini chiave. Kundera, utilizzando il vocabolario anglosassone, parla di story, per evidenziare la “concatenazione causale” degli atti. Punto importante, in quanto ci ricorda che, a partire dalla Poetica di Aristotele, la narrazione – sia essa tragica, epica o romanzesca, in versi o in prosa – è innanzitutto definita dal concetto di mimesis praxeos, “imitazione dell’azione”. Non è un richiamo banale, in quanto è importante sottolineare come l’intreccio non sia né imitazione del “carattere” o, in termini moderni, della “coscienza” dell’eroe, né imitazione della “vita”, la quale si presenterebbe come materia informe, senza possibile vero inizio e fine. Quando diciamo che le peripezie sono la “materia” che il principio architettonico mette in “forma”, all’interno del romanzo, utilizziamo una semplice metafora. Se ad essere imitata è un’azione, e non la semplice vita, significa che siamo di fronte già ad una realtà organizzata. L’arte del romanziere è quella di illuminare attraverso questa realtà circoscritta (l’azione dell’eroe) una realtà più ampia e sfuggente: la guerra, l’ambizione sociale, l’amore, il destino di classe, l’esperienza dell’invecchiamento, ecc.
Nella Poetica Aristotele definisce il muthos (il racconto, l’intrigo), che interviene nella narrazione sia tragica che epica, come l’“imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita”. Definizione capitale, che subordina alla logica dell’azione e dell’evento il carattere, ossia ciò che oggi chiamiamo la “personalità” o la “coscienza” dell’eroe. Continua Aristotele: “non si agisce per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri a motivo delle azioni”. Il carattere è inteso come la disposizione stabile di una persona a compiere certe azioni in certe circostanze. Il carattere ci dice ciò che dell’uomo è prevedibile. L’azione o l’evento ci dicono, invece, ciò che nella vita dell’uomo, in relazione con la natura, la comunità o gli dei, risulta imprevedibile. Ciò che viene posto in risalto da Aristotele è il ruolo di tutti quegli aspetti oggettivi che hanno la capacità di favorire, ostacolare o stravolgere le inclinazioni, i desideri, le volontà umane. In una parola: l’intrigo è un carattere più una serie di circostanze del tutto indipendenti da esso.
Questa definizione rimane ancora valida per la story romanzesca. Proprio per questo, però, preferisco parlare del principio della “peripezia”. Nel significato corrente, il termine designa “vicenda o successione di vicende disgraziate o pericolose o ingrate” (Devoto-Oli). Nell’uso che ne fa Aristotele nella Poetica, la peripéteia è un elemento indispensabile dell’intreccio, in quanto definisce un rovesciamento imprevisto di situazione cui l’eroe va incontro. A livello più generale, il significato etimologico esprime l’idea d’imbattersi in qualcosa o qualcuno (peripítō, “cado sopra”). La peripezia rimanda dunque al concetto moderno di “avventura”, ossia a quelle circostanze straordinarie, che deviano l’azione abituale del protagonista, indirizzandolo verso universi non familiari. Si tratta, quindi, di un meccanismo basato sulla sorpresa, che nutre l’attenzione del lettore di continui rovesciamenti di fortuna, non per forza esclusivamente negativi: l’innocente è ingiustamente incarcerato, ma il prigioniero può improvvisamente fuggire.
Sottoposto al dispotismo della story o della peripezia, il romanzo è quindi costretto ad abbandonare le regioni della banalità quotidiana, della routine, dell’insignificanza, per concentrarsi sull’avventuroso e lo straordinario, nei modi che le nostre forme di vita attuali, post-esotiche, ancora ci consentono.
Futilità e romanzo
Se è Fielding il primo romanziere a circoscrivere la funzione romanzesca della story, per Kundera è però Sterne, nel Tristram Shandy, a sancirne “la prima compiuta e radicale destituzione”. L’orchestrazione di digressioni e di micro-episodi, che dissolve l’unità narrativa del Tristram Shandy, costituisce una scelta formale ricca di conseguenze sul piano conoscitivo. Lo scandalo, che Sterne ha suscitato nei suoi contemporanei, risiede innanzitutto nella futilità e nell’insignificanza degli argomenti, di cui la sua opere tratta. Così facendo, però, Sterne offre ai suoi lettori un inedito strumento ottico, da volgere verso loro stessi. Conclude Kundera: “Ebbene, sono davvero le grandi azioni drammatiche la chiave migliore per comprendere la ‘natura umana’? Non si ergono piuttosto come una barriera che dissimula la vita qual è veramente? Non è forse proprio l’insignificanza uno dei nostri grandi problemi? Non è forse il nostro destino?”.
L’inventario, come il procedimento della digressione in Sterne, non solo si manifesta all’interno del romanzo in opposizione allo svolgersi delle peripezie, ma valorizza anch’esso il territorio dell’insignificanza e della banalità. In un autore come Georges Perec, l’inventario finisce persino coll’assumere una funzione strategica, andando a strutturare l’insieme del testo. Quando ciò accade, però, il registro descrittivo e prosastico non solo prevale sulla logica dell’intreccio e sulla centralità dell’azione, ma mette in dubbio la possibilità stessa di organizzare gerarchicamente gli eventi di una vita in una forma unitaria, sia essa intesa come “destino” o come “personalità”.
Le quattro interrogazioni di Perec
Il caso di Perec è particolarmente interessante. In lui, infatti, convivono in modo consapevole il fascino per le peripezie allo stato puro, sul modello dei romanzi di Jules Verne, e l’interesse ossessivo per il “quotidiano”, inteso come ciò che, in ragione della sua estrema familiarità, sfugge completamente all’attenzione e alla memoria del soggetto che vi è immerso. In un breve testo apparso postumo, è l’autore stesso a definire i “quattro modi d’interrogazione”, secondo cui è possibile catalogare la sua opera letteraria [“Notes sur ce que je cherche” in Georges Perec, Penser / Classer, Seuil, Paris, 2003]. Perec mostra così di essere in perfetta sintonia con l’idea di Kundera, secondo la quale il principio architettonico del romanzo determina l’ambito della realtà umana che la scrittura è in grado di rischiarare. All’interrogazione di tipo “sociologico”, corrispondono le opere che più c’interessano: Les Choses, Espèces d’espaces, Tentative d’epuisement d’un lieu parisien, ecc. Vi è poi l’interrogazione “autobiografica”, che include libri come W ou le souvenir d’enfance, La Boutique obscure, Je me souviens, ecc; quella “ludica”, legata all’esperienza dell’OuLiPo e dei vincoli formali; infine quella propriamente “romanzesca”, che esprime “il piacere delle storie e delle peripezie, la voglia di scrivere dei libri che si divorano sdraiati sul letto”, come La Vie mode d’emploi.
Nell’ottica dell’inventario, però, questi confini tra gruppi di opere si rivelano solo in parte pertinenti. Se il gusto della peripezia non attraversa tutta l’opera di Perec, è possibile constatare invece l’onnipresenza dell’inventario. Inoltre, l’inventario è determinante nello strutturare anche alcuni testi autobiografici come Je me souviens o lo stesso Penser / Classer. Per chiarire appieno la portata della strategia dell’inventario in Perec, ci sembra indispensabile, però, richiamare alcuni casi illustri di uso dell’inventario che precedono l’apparizione del romanzo moderno. Il modello descrittivo dell’inventario attraversa, in realtà, l’intera storia della letteratura occidentale. Umberto Eco ha di recente curato un libro per il Louvre di Parigi, dedicato interamente all’argomento: Vertigine della lista [Bompiani, 2009]. Si tratta, in questo caso, di un inventario dell’inventario, che spazia dall’antichità ai giorni nostri, in un’ottica prevalentemente enciclopedica. Appare chiaro che, pur nella diversità degli usi e dei contesti, ci troviamo di fronte a qualcosa che potremmo considerare un’invariante antropologica, una sorta di disposizione universale dell’essere umano di fronte alla ricchezza caotica del mondo.
Ordinare il mondo attraverso la parola
Nell’introduzione al suo celebre saggio sulle “forme semplici” del 1930, André Jolles sottolinea il nesso che lega certe forme intermedie del discorso, come la leggenda, la saga o la sentenza, e una più generale necessità della parola di ordinare il mondo sul piano sintattico e semantico. L’autore, inoltre, stabilisce un parallelismo tra queste forme semplici, che sono disposizioni mentali collettive e spontanee, precedenti qualsiasi elaborazione di natura retorica o propriamente letteraria, e il lavoro umano, nelle sue tre varietà principali: contadino, artigianale, sacerdotale. Per Jolles, il discorso deve essere considerato come un lavoro compiuto sulla lingua, affinché quest’ultima concorra, assieme alla produzione materiale, all’ordinamento del mondo. Egli scrive:
“Preso nel suo insieme, nella sua diversità sfumata, nel suo disordine e nel suo tumulto, esso [il mondo] appare più simile al caos o a un luogo selvaggio. Per comprendere il mondo, l’uomo deve immergersi in esso, ridurre l’infinito numero dei suoi fenomeni, intervenire al suo interno in maniera selettiva. (…) quanto si raduna nella confusione del mondo (…) non possiede una forma propria. Al contrario, ciò che viene qui distinto e separato assume una forma propria solo quando, grazie alla scomposizione, si unisce a ciò che è affine.” [André Jolles, I travestimenti della letteratura. Saggi critici e teorici (1897-1932), trad. it., Bruno Mondadori, Milano, 2003.]
Come la comunità, lavorando il suolo, trasformando gli oggetti esistenti, e creando relazioni tra loro, modifica il mondo, rendendolo una totalità ordinata, così fa il discorso attraverso alcuni procedimenti fondamentali. Nel passo citato, anche se non lo menziona espressamente, è evidente che Jolles si riferisce all’inventario. Esso corrisponde a un’operazione linguistica elementare, che ne precede ogni utilizzo all’interno dell’arte retorica o letteraria. Se ne trova infatti traccia in alcune delle principali forme semplici del discorso, come la leggenda, la saga o il mito. Sono quindi innumerevoli le occasioni comunicative, semplici o complesse, orali o scritte, nelle quali entra in gioco l’inventario.
Se ci riferiamo alla tradizione retorica, l’inventario è riconducibile alla figura dell’enumerazione o elenco. Il Salvatore Battaglia definisce l’inventario: “enumerazione e descrizione ordinata e completa di oggetti che in un determinato momento si trovano in un determinato luogo”. Nel Manuale di retorica di Mortara Garavelli, l’enumerazione “come procedimento discorsivo corrisponde alla percezione analitica degli oggetti opposta al ‘colpo d’occhio’ che coglie simultaneamente una totalità. Corrisponde alla scomposizione di un insieme nelle sue parti e alla elencazione di queste. Vari tipi di testo si caratterizzano, relativamente alle procedure enumerative, per la presenza o l’assenza di un ordine sistematico”. Questa definizione, che ci permette di considerare i termini “enumerazione” e “inventario” come sinonimi, mette in luce un nuovo aspetto della questione. Nel momento in cui consideriamo l’inventario un procedimento per produrre dal caos un cosmo, da una totalità confusa una molteplicità ordinata, si profilano due difficoltà maggiori: 1) quale limite porre all’intento analitico, ossia dove fermare la scomposizione? 2) quale garanzia abbiamo di ottenere delle serie omogenee di elementi? Proponendosi di stabilire un ordine nei fenomeni, l’enumerazione si espone anche, nel medesimo tempo, a una specifica forma di disordine. Il dizionario registra questa ambiguità. Per il Battaglia, il significato peggiorativo di “enumerazione” indica: “mera giustapposizione, accostamento senza nesso logico di dati e notizie”. Lo strumento linguistico e retorico preposto all’ordinamento del mondo può di continuo scivolare nel suo contrario, rivelandosi come un’accumulazione incongruente di elementi.
Catalogo e memoria
Uno dei più celebri inventari dell’epica antica è la rassegna degli eserciti Achei contenuta nel secondo libro dell’Iliade. Gli studiosi hanno dato diverse letture di questo brano, riferendosi in modo particolare alla poesia catalogica e all’esigenza, all’interno di una cultura orale, di trasmettere un repertorio di conoscenze indispensabili per custodire il rapporto con il passato e riaffermare la propria identità collettiva. Elisa Avezzù, nel suo commentario all’edizione dell’Iliade curata da Maria Grazia Ciani, scrive a questo proposito: “nel lungo catalogo del libro 2 (…) sono presenti annotazioni che fermano per sempre un nome e una storia: con che la poesia si fa carico di una funzione individualizzante, in cui il nome dell’eroe comporta ad un tempo identità e garanzia di memoria” [Elisa Avezzù, “Commento”, in Omero, Iliade, a c. di M. G. Ciani, Marsilio, Venezia, 1990, p. 1050.]
Il catalogo dei condottieri e dei loro luoghi di provenienza funziona come una trama capace – attraverso la serie dei nomi propri – d’individualizzare contemporaneamente tribù e territori. Se la narrazione epica pone in primo piano le gesta di un numero limitato di eroi, il catalogo allestisce lo sfondo: la moltitudine delle milizie e la loro diversa origine geografica. Le peripezie dei singoli si stagliano contro un orizzonte costituito dalla collettività.
Il procedimento dell’inventario trova qui, però, oltre che la sua applicazione, anche il suo limite. Più l’inventario si vuole completo, scomponendo un’entità complessa (l’esercito degli Achei) nelle sue componenti individuali, più esso incontra un ostacolo invalicabile: l’impossibilità del cantore di nominare tutti i soldati coinvolti nella spedizione contro Troia. Riaffiora una delle maggiori difficoltà dell’enumerazione: dove fissare il confine del nominabile, di fronte alla moltitudine degli individui e dei nomi propri che li identificano? Il testo omerico ne è perfettamente consapevole, associando in modo esplicito l’aspirazione al catalogo esaustivo e il topos dell’indicibilità:
“Ed ora, Muse che in Olimpo avete dimora – dee che siete dovunque e tutto sapete, mentre noi nulla vediamo e ascoltiamo solo la fama –, ditemi dunque chi erano i capi, i duci dei Danai; non parlerò degli uomini, non li chiamerò per nome, neppure se avessi dieci lingue o dieci bocche, una voce instancabile, un cuore di bronzo nel petto; le Muse dell’Olimpo soltanto, figlie di Zeus, potrebbero ricordare quanti vennero ad Ilio; io invece nominerò tutti i condottieri e tutte le navi.”
Omero istituisce una dicotomia fondamentale tra le Muse – custodi della memoria sovrumana e infallibile di tutto ciò che accade – e l’aedo – custode della fama, ossia della memoria epica, che è inevitabilmente selettiva. La fama, dunque, può fare l’inventario dei condottieri, ma non di tutti i soldati.
Questa dicotomia, lungi dall’estinguersi assieme all’epica antica, riaffiora nella vicenda del romanzo moderno. Quest’ultimo non ha fatto che ampliare le regioni dell’esperienza umana degne di essere narrate. Detto in altri termini, la narrazione romanzesca ha rivoluzionato progressivamente la nozione di memorabile. In questa direzione, però, essa ha dovuto spostare il fuoco dell’attenzione dalla peripezia posta in primo piano (l’antica azione epica), per esplorare lo sfondo condannato un tempo all’oblio, in quanto gremito di una moltitudine di fatti e gesti privi di grandezza ed esemplarità.
Kiš e l’infinita narrabilità di qualunque vita
L’estensione del narrabile è un fenomeno complesso e al centro delle riflessioni dei maggiori teorici del genere romanzesco. L’evoluzione del romanzo, dal realismo ottocentesco ai giorni nostri, sembra aver fatto sempre più spazio al quotidiano, ossia a tutto ciò che fa da sfondo all’evento singolare, avventuroso, anomalo. Ciò implica, come ricorda Guido Mazzoni in Teoria del romanzo: “l’ingresso della democrazia nella letteratura”. La democrazia in letteratura non promuove semplicemente l’avvento di nuovi protagonisti sulla scena della narrazione, fino ad allora esclusi da quella che Auerbarch definisce la rappresentazione “seria” e “problematica” della vita. Sono molteplici gli aspetti dell’esistenza umana che vengono coinvolti da tale rivoluzione interna alla raffigurazione letteraria. Scrive Mazzoni, rifacendosi alle tesi di Auerbach espresse in Mimesis:
“Oltre alla gerarchie sociale, la metamorfosi tocca anche le forme di esperienza. (…) Fino alla nascita del realismo esistenziale, la narrativa illustre si concentrava sulle azioni eroiche dell’epos, sulle avventure del romance, sugli eventi inauditi che costituivano l’argomento delle novelle e degli exempla, sull’amore come puro stato d’eccezione (…); dopo la nascita del realismo esistenziale, la scelta cade sulle classi sociali e sulle sfere di esperienza che meno si prestano, in linea di principio, all’anomalia. (…) Nel XIX secolo emerge quell’utopia mimetica che troviamo espressa nell’Enciclopedia dei morti di Danilo Kiš: l’utopia della narrabilità universale. La semplice esistenza, ormai libera dalle gerarchie (la divisione degli stili), dal controllo etico (il moralismo), dai significati generali (l’allegoria), rivendica un’attenzione assoluta.”
Il riferimento alla novella di Kiš, che costituisce anche il titolo dell’omonima raccolta di novelle, è particolarmente pertinente per il tema che ci interessa. Innanzitutto, l’autore stesso ci invita a leggere questo suo testo come un’allegoria della letteratura. Lo dice apertamente nel corso di un’intervista apparsa nel 1988: l’Enciclopedia dei morti “è anche l’indicazione del mio ideale di scrittore. Prendere dei piccoli dati della vita e fare in modo che ciò divenga un libro mitico, eterno; rivelare attraverso un piccolo numero di parole un’immensa realtà nascosta”. Anche in questo modello narrativo ritroviamo l’opposizione figura-sfondo, ciò che viene strappato all’oblio, occupando la scena dell’intreccio, e ciò che invece costituisce il mero sfondo, informe e sfuggente. Solo che Kiš rovescia consapevolmente il paradigma epico, e porta in primo piano, attraverso un gesto radicalmente democratico, ossia non selettivo, gli eventi qualunque della vita individuale. Vi è un passo del racconto, in cui questo aspetto decisivo è sottolineato esplicitamente:
“Come pure, attenendosi al principio ispiratore del loro programma – secondo il quale non esistono nella vita di un uomo né particolari insignificanti, né una gerarchia degli avvenimenti – hanno registrato non solo tutte le malattie infantili che abbiamo avuto, orecchioni, angine, tosse, convulsa, scabbia, ma anche la comparsa dei pidocchi e i problemi di mio padre con i polmoni”.
Il principio ispiratore dell’“enciclopedia dei morti”, dove sono registrate tutte le biografie che non compaiono in alcun altra enciclopedia (le biografie e gli avvenimenti che non fanno parte della storia ufficiale), si basa sull’abolizione di ogni gerarchia nella considerazione degli eventi umani. Ciò significa abolire ogni criterio di organizzazione e di selezione dei fatti che si vogliono rappresentare. Tale postulato presuppone che la vita umana e individuale sia considerata come qualcosa di sacro in quanto irripetibile: tutto ciò che accade in una vita è sacro perché accadrà così solo una volta in tutta l’eternità. Il rovesciamento operato rispetto all’epos antico non si limita a una semplice sostituzione del primo piano con lo sfondo, dell’azione straordinaria e singolare con i piccoli gesti ripetitivi della vita consueta. Kiš, al contrario, mostra la superiorità di ciò che è irripetibile rispetto a ciò che è eccezionale. Inseguire le azioni e gli eventi che si scostano dalla norma significa operare delle esclusioni; considerare la vita come una sequenza irripetibile di eventi significa mirare alla totalità, all’inclusione di tutto ciò che, infimo o importante, ha costituito una vita.
Nello stesso tempo, la biografia paterna del personaggio narrante dell’Enciclopedia rappresenta per molti versi la biografia di ognuno. Qui la massima particolarità della vita individuale e la massima universalità della vita della specie umana si congiungono: ognuno ha avuto delle malattie infantili, ognuno in tempo di guerra ha sofferto fame e miseria, ognuno ha insegnato ai propri figli qualcosa di nuovo e sorprendente; tutto ciò è comunque accaduto una volta sola, la disposizione dei medesimi elementi della vita della specie non avviene mai in una successione identica e in un modo uguale per ogni individuo.
Ciò che il racconto di Kiš dice è che ogni vita è irripetibile ed unica; ciò che il racconto fa è trasformare la biografia di un uomo comune nella biografia di ognuno. In questo modo l’Enciclopedia dei morti è un’allegoria della letteratura. La letteratura narra ciò che la storia non può né riesce a narrare. Non esistono individui eccezionali, né biografie comuni. L’individuo cosmico-storico hegeliano non esiste se non come emblema funzionale ad una narrazione estremamente selettiva. La vita di ognuno è profondamente intrecciata da ogni parte con la vita degli altri, anche con quella delle figure più secondarie e defilate. Ogni biografia è così un’enciclopedia di biografie. Ogni romanzo e racconto non è mai la storia di un solo personaggio. Ogni vita, come la monade leibniziana, riflette in sé una moltitudine di altre vite. Inoltre non vi è una vita più irripetibile e unica di tutte le altre.
L’ideale letterario di Kiš coincide, in fondo, con il postulato della letteratura moderna, secondo cui ogni vita è unica e irripetibile, e per ciò degna di narrazione e memoria. Il corollario di questo postulato è che non vi possa essere gerarchia di avvenimenti all’interno di una vita. L’individuo eccezionale, degno d’interesse per lo storico, esiste solo in virtù di un contesto di lettura e d’interpretazione che, per ragioni contingenti, trasceglie dalla moltitudine dei fatti una serie molto specifica e su tale scelta fonda un confronto con le biografie “comuni”. Napoleone è eccezionale in virtù delle sue azioni nei palazzi e sui campi di battaglia, ma Napoleone che si ammala, che fa l’amore, che invecchia, che litiga e si offende con i suoi famigliari, che scrive lettere, che sogna e si demoralizza, tutto ciò corrisponde alla vita di ognuno.
La storia e in genere i saperi specialistici costituiscono, nel mondo desacralizzato della modernità, la memoria collettiva della vita, laddove la letteratura costituisce la memoria individuale, quella memoria che ogni persona anziana possiede e che scomparirà con lei, alla sua morte, senza lasciare traccia in nessun documento ufficiale. Memoria affettiva legata all’individuo corporeo, al raggio del proprio microcosmo di relazioni e incontri.
Rappresentare fedelmente questa memoria è ovviamente impossibile. Ma ciò non dipende esclusivamente dai limiti soggettivi, “psicologici”, a cui l’azione rammemorante va incontro. Gli enciclopedisti del racconto di Kiš sembrano non incontrare ostacoli nel loro lavoro di minuziosa documentazione delle biografie ordinarie: ogni dettaglio, anche il più infimo e risalente all’infanzia, non sfugge alla loro onnisciente attenzione. Sono quindi loro stessi a porre un limite alla potenziale narrabilità infinita di ogni esistenza. Come Kiš sceglie di tradurre narrativamente la sua allegoria della letteratura nella forma breve della novella, così gli enciclopedisti decidono di racchiudere la straordinaria ricchezza delle biografie individuali in uno stile che si presenta come “un incredibile amalgama tra concisione enciclopedica ed eloquenza biblica”. L’utopia della raffigurazione democratica della vita, che elimina per principio ogni criterio selettivo, non può che incarnarsi in uno stile altamente selettivo. Poiché idealmente la letteratura vuole raccontare l’infinita densità di una vita particolare, essa deve essere maestra nel suggerire il lavoro lacunoso della memoria attraverso l’ellissi, nel dipingere con due tratti un intero paesaggio, nell’evocare grazie a un singolo gesto un carattere complesso. La letteratura, nei fatti, non può che essere allusiva e sintetica. Essa si avventura nel tempo strano e non omogeneo della memoria individuale, imitandone così i ritmi, gli scarti, i vuoti, le accelerazioni o le dilatazioni.
Va comunque sottolineato che lo stile degli enciclopedisti, per ellittico e sintetico che sia, include ripetutamente il procedimento dell’enumerazione, come risulta anche dalla citazione riportata più sopra, dove è questione di un piccolo inventario delle malattie infantili. Laddove, infatti, non sono più le peripezie a organizzare l’intreccio, la semplice successione cronologica degli avvenimenti di un’esistenza finisce per assumere la forma dell’inventario. Ogni nuovo ambiente, naturale o sociale, con cui l’individuo entra in contatto, diventa occasione di una rigorosa enumerazione. In definitiva, l’“enciclopedia dei morti” dovrebbe constare di un grande inventario che includa la descrizione e il nome di tutti quegli oggetti o esseri viventi che sono penetrati almeno una volta nel cerchio dell’esperienza individuale. Tale successione sarebbe intervallata quasi unicamente dalla narrazione di quei gesti che si ripetono più o meno uguali per buona parte di un’intera esistenza. Di questo inesauribile elenco di nomi e di gesti, L’enciclopedia dei morti costituisce uno scorcio narrativo magistrale.
La minaccia dell’oblio
L’ideale della letteratura moderna, che la novella di Kiš esprime meglio di qualsiasi riflessione teorica, pone lo scrittore, però, di fronte a un dilemma. Nel caso del romanziere, esso si manifesta nella contraddizione tra la fedeltà a un principio democratico e anti-gerarchico di raffigurazione e l’esigenza formale di elaborare un testo finito, che selezioni nel continuum dell’esistenza alcune situazioni da narrare. Kiš si è servito dell’illustre tradizione della novella, genere per eccellenza sintetico ed allusivo, per aggirare l’ostacolo. La sua finzione narrativa, sapientemente costruita, ci parla indirettamente della letteratura e di ciò che essa, nel mondo moderno, aspira a realizzare. L’opera di Perec presenta alcune importanti similitudini con quella di Kiš. In entrambi riscontriamo la medesima utopia letteraria, ma di fronte ad essa i due autori adottano una diversa postura. Perec, a differenza di Kiš, ha tentato di esprimere in termini quasi letterali l’utopia della narrabilità infinita della vita qualunque. Per fare questo, piuttosto che ricorrere alla tradizione letteraria, si è servito delle scienze umane e della sociologia in particolare. Non intendo dire che Perec si sia dedicato a scritti di tipo sociologico o filosofico, ma che la sua scrittura letteraria si è evoluta grazie agli strumenti concettuali che gli venivano da questi settori della conoscenza.
In Kiš come in Perec, l’utopia della narrabilità infinita non è semplicemente legata all’evoluzione del realismo romanzesco, ma affonda le sue radici anche in una condizione autobiografica particolare. Sia il padre di Kiš che la madre di Perec morirono nei campi di concentramento nazisti, così come altri membri delle loro rispettive famiglie. Entrambi gli autori hanno conosciuto da vicino la violenza annichilente e sistematica del genocidio. E si sono dovuti confrontare con quell’impresa storica abnorme, che aveva come proprio obiettivo la cancellazione di un intero popolo e della sua memoria.
Questo trauma ha contribuito a rendere centrale, nel progetto di scrittura di Perec, il tema della memoria, ma secondo una visuale diversa rispetto a quella di Kiš, che rimane più incentrata sull’anamnesi letteraria della vicenda familiare o delle vittime anonime della violenza storica. Perec ha perseguito l’ideale di una memoria da costruire a partire dal presente, una sorta di memoria prospettica piuttosto che retrospettiva. Ed è perseguendo questo obiettivo che egli si è trovato spontaneamente ad utilizzare l’inventario come procedimento di strutturazione globale del testo letterario.
Il passo più completo ed esplicito, in cui egli affronta questo tema è tratto da un articolo apparso inizialmente sulla rivista “Cause commune” nel 1977 e intitolato Les lieux d’une ruse (I luoghi di un’astuzia). Qui Perec fornisce una diretta testimonianza della sua esperienza di analisi compiuta alcuni anni prima con lo psicanalista Jean-Bertrand Pontalis.
“Nello stesso tempo s’instaurò come un fallimento della memoria: cominciai a temere di dimenticare, come se, a meno di notare tutto, non potessi conservare nulla della vita che fuggiva. Ogni sera, scrupolosamente, con coscienza maniacale, cominciai a scrivere una specie di diario: era tutto il contrario di un diario tipico: non vi affidavo che ciò che mi era successo di “oggettivo”: l’ora del risveglio, i compiti del giorno, gli spostamenti, gli acquisti, il progresso – valutato in righe o in pagine – del mio lavoro, le persone che avevo incontrato o semplicemente visto, il dettaglio della cena che avevo fatto in tale o talaltro ristorante, le letture, i dischi che avevo ascoltato, i film che avevo visto, ecc. Questo panico di perdere le mie tracce si accompagnò con un furore di conservare e di classificare. Tenevo tutto: le lettere con le loro buste, i talloncini del cinema, i biglietti d’aereo, gli scontrini, la matrice degli assegni, i depliant, i cataloghi, gli inviti, i settimanali, i pennarelli asciutti, gli accendini finiti e persino le fatture del gas e dell’elettricità riguardanti un appartamento in cui non abitavo più da sei anni, e a volte passavo la giornata intera a selezionare e selezionare, immaginando una classificazione che riguardasse ogni anno, ogni mese, ogni giorno della mia vita.”
Abbiamo qui la motivazione autobiografica di quell’interrogazione che, in un diverso contesto, Perec stesso ha definito “sociologica”. Il procedimento dell’inventario trova in questa duplice esigenza la sua funzione strategica: da un lato, contro la minaccia sempre incombente della sparizione delle tracce e dell’oblio della propria storia, è indispensabile catalogare e classificare tutto quanto costituisce una semplice “prova” materiale dell’esistenza; dall’altro, questa coazione al catalogo permette di strappare all’apparente piattezza e ovvietà intere zone dell’esistenza umana, che vanno sotto il nome poco attraente di “quotidiano”. La tara psicologica individuale costituisce il motore di un progresso conoscitivo del mondo.
Il tessuto delle individualità
I testi, in cui Perec persegue la sua utopia della narrabilità infinita della vita, applicando il procedimento formale dell’inventario alle tracce della quotidianità più banale, impongono una ridefinizione dei generi letterari. Detto altrimenti, Perec a differenza di Kiš spinge la scrittura letteraria in una zona incerta, difficilmente riconducibile ai generi della tradizione narrativa. Non si tratta più, in questo caso, di valutare il ruolo che l’enumerazione acquista all’interno dell’architettura romanzesca, indebolendo l’importanza della story. Nemmeno possiamo limitarci a considerare come la dissoluzione delle gerarchie morali, stilistiche o sociali in atto nell’evoluzione del realismo romanzesco si accompagni ad una centralità dell’inventario, come procedimento di organizzazione democratica dei nomi o degli oggetti esistenti. Il caso di Perec ci parla della fuoriuscita della scrittura dalle coordinate formali dei generi narrativi. Assistiamo alla comparsa di una scrittura in prosa che sempre meno è interessata all’imitazione delle azioni umane. Come possiamo, infatti, definire dei testi come Tentativo di esaurimento di un luogo parigino o Mi ricordo?
Eppure, per certi versi, Mi ricordo non fa altro che proseguire il progetto degli enciclopedisti celebrati da Kiš. In entrambi i casi si tratta di mostrare come la massima particolarità della vita individuale coincida con la massima universalità della vita collettiva. Nel suo Post-scriptum ai suoi 479 ricordi, Perec scrive: “Il principio è semplice: tentare di ritrovare un ricordo quasi dimenticato, inessenziale, banale, comune, se non a tutti, almeno a molti”. In questo modo, l’atto del rammemorare, che è per eccellenza individuale, acquista una valenza collettiva, di “luogo comune”. Questo comporta, però, un partito preso anti-proustiano: non è la fenomenologia del ricordo, il suo itinerario singolare nella mente del soggetto rammemorante, che interessa l’autore, ma la pura traccia mentale della realtà, per erronea, incompleta o distorta che sia. Siamo di fronte a quella che un poeta francese contemporaneo, Jean-Jacques Viton, chiama “memoria periferica”. In noi hanno sedimentato una quantità innumerevole di dettagli, nomi propri, nozioni slegate, che sono del tutto inutilizzabili persino nell’ottica di una narrazione autobiografica. Non esiste una forma narrativa e, probabilmente, neppure una forma lirica, in grado di organizzare un tale materiale. La scelta di Perec è allora quella dell’inventario: raccogliere in una semplice successione numerica una certa quantità di enunciati, in ognuno dei quali è espresso un ricordo, una traccia soggettiva di realtà. Non vi è altro criterio che questo. Non c’è alcun tentativo di costruire un ordine cronologico, di cogliere una fase passata della propria vita personale, di registrare un nucleo di ricordi connessi a dei momenti chiave della vicenda individuale o collettiva. Questa serie che, idealmente, dovrebbe continuare all’infinito, si presenta in definitiva come un tessuto di nomi propri. Se apriamo una pagina a caso del libro, ce ne rendiamo subito conto:
“276
Mi ricordo che Jean Jaurès fu assassinato al Café du Croissant, in via Montmartre.
277
Mi ricordo della marea nera (la prima, quella del Torrey-Canyon) e dei sedimenti rossi.
278
Mi ricordo che il nome robot è un nome ceco, inventato, credo, da Carel Capek.
279
Mi ricordo delle avventure di Luc Bradfer.
280
Mi ricordo della grande orchesta di Woody Herman.”
Non solo quasi ogni ricordo contiene un nome proprio, ma spesso, all’interno di un singolo ricordo, i nomi propri sono più di uno. Nel paragrafo 276, abbiamo il nome proprio di un personaggio storico, di un caffè e di una via di Parigi. La proliferazione dei nomi propri coincide con la ricchezza degli esseri individuali che popolano l’esperienza del soggetto rammemorante, siano essi persone reali, personaggi fittizi, artefatti, eventi singolari, ecc.
Ritroviamo anche in questo testo l’articolazione tra figura e sfondo che, nel catalogo del secondo libro dell’Iliade, poneva in rapporto la celebrazione epico-narrativa dei condottieri e delle tribù con la necessità di condannare all’anonimato, all’indistinzione e dunque all’oblio la moltitudine dei singoli soldati dell’esercito acheo. L’inventario dei ricordi di Perec si pone come scopo di restituire esistenza a una moltitudine di esseri individuali, che le forme attuali della “fama” e della narrazione epica spingono impietosamente verso la sparizione. Perec sembra amalgamare le forme popolari della finzione romanzesca con i paradigmi narrativi propri alla società dello spettacolo. Informazione, letteratura d’evasione, intrattenimento: sono queste realtà a decidere dei confini di ciò che oggi è degno di essere rappresentato e ricordato. Scrive Perec in un articolo del 1973, Approches de quoi? (Dintorni di che cosa?):
“Ciò che ci parla, mi sembra, è sempre l’evento, l’insolito, lo straordinario: cinque colonne in prima pagina, titolo a caratteri cubitali. (…) Bisogna che ci sia dietro l’evento uno scandalo, una crepa, un pericolo, come se la vita non dovesse rivelarsi che attraverso lo spettacolare, come se a parlarci, a significare fosse sempre l’anomalo: cataclismi naturali o sconvolgimenti storici, conflitti sociali, scandali politici… (…) Ciò che accade veramente, ciò che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Ciò che ritorna ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo? (…) Forse si tratta di fondare alla fine la nostra antropologia : quella che parlerà di noi, che andrà a cercare in noi ciò che abbiamo così lungamente saccheggiato negli altri. Non più l’esotico, l’endotico.”
Porsi all’ascolto dei resti e dell’infra-ordinario significa, per Perec, ripensare le forme stesse della scrittura letteraria, anche se ciò implica, come abbiamo visto, la fuoriuscita dai generi ereditati. Nella ricerca degli strumenti adatti all’esplorazione del quotidiano, il procedimento dell’inventario si è rivelato strategico, a tal punto da assumere, in alcuni suoi testi, una funzione strutturante. Ciò significa che l’enumerazione ancor prima di essere un procedimento formale costituisce una disciplina della mente, una sorta di ascesi rovesciata, che ci strappa all’irrealtà dello spettacolo contemporaneo, per orientarci sempre di nuovo verso ciò che ci sta sotto gli occhi ogni giorno, ma proprio per questo motivo non è visto, non è pienamente goduto, considerato, valorizzato. Perec, attraverso l’inventario, esercita una pietà nei confronti della realtà intesa come tessuto infinitamente denso di entità individuali e non equivalenti, ossia non riconducibili a insiemi più astratti, all’interno dei quali i nomi propri sparirebbero in funzione dei nomi comuni. L’inventario costituisce, quindi, una delle vie più certe per ritornare alla realtà dentro cui sempre siamo, quella corporea, quella dei “dintorni” del corpo. L’inventario non è solo un procedimento letterario, esso ambisce ad essere ars vivendi, ossia arte del radicamento nel mondo e nella propria vita attraverso la scrittura.
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[Questo testo è incluso in Pro e contro la trama, a cura di Walter Nardon e Carlo Tirinanzi De Medici, Università degli Studi di Trento, 2012.]
Note
Per una disamina dei rapporti tra il progetto letterario di Perec e l’evoluzione di alcuni settori delle scienze umane nel dopoguerra in Francia si veda Derek Schilling, Mémoires du quotidien: les lieux de Perec, Septentrion, Lille, 2006. Dalla storia di lunga durata di Fernand Braudel sino alle analisi critiche del quotidiano del sociologo marxista Henri Lefebvre, Perec ha avuto modo di entrare in contatto con una sorta di rivoluzione di paradigma, che ha avuto un ruolo importante anche sul suo modo di concepire i limiti non più solo del “narrabile”, ma anche dello “scrivibile”.
L’ultimo dei paragrafi del libro, il numero 480, è incompleto. Contiene solamente l’enunciato comune a tutta la serie: “Mi ricordo” ed il sintagma spostato in basso a sinistra “(a seguire…)”. Perec riconosce l’impossibilità di giungere a un ricordo finale. L’inventario non prevede né scioglimento narrativo né explicit, ma neppure, in casi come questo, la possibilità di giungere a un termine ultimo, di porsi quindi come esaustivo.
Bello.
Un gioiellino, nell’insieme, anche l’analisi della funzione della tecnica catalogica, che è per molti aspetti il punto d’origine dell’inventario.
Del resto una forma di inventario implicito è già latente nel patrimonio culturale tradizionale dell’aedo o del bardo, che sono il punto di inizio di ogni cultura letteraria.
Molto interessante. Come scriveva un autore citato nel post: (per il romanzo) nulla è importante se non la vita stessa”; per il romanziere rimane forse il dubbio che, per il lettore, certe vite, certi quotidiani sono più… à la page di altri. Di nuovo complimenti per il testo.
saggio davvero dettagliato e stimolante. molto significativa tutta la parte su kis e sulla memoria. mi piace l’idea dell’inventario come grimaldello al servizio dello scrittore per rendere omaggio e onori all’entropia, signora incontrastata dell’universo, che scardina gli aspetti rassicuranti della narrazione intesa come strumento generatore di (immaginifico) senso delle cose umane. sarà che l’argomento è tra quelli a me più cari, sarà che è divertente confrontarsi su aspetti spesso assai sfuggenti delle dinamiche del romanzo, fatto sta che me lo sono letto tutto con attenzione. beh, se mai c’incontreremo al bar, sono certo che potremmo dissertare per ore in proposito. nello specifico, è interessante come, nonostante lo sforzo di definire al meglio cosa s’intenda per questo o per quello, sia spesso difficile superare le sfumature soggettive nel significato attribuito alle singole parole (come ad esempio “storia”).
ecco allora qui di seguito dubbi e le perplessità (o anche semplici riformulazioni per verificare eventuali incomprensioni) che mi hanno accompagnato durante la lettura. non che richiedano risposte o controdeduzioni particolari, sono più che altro miei deliri di cui non tenere troppo conto.
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“il principio architettonico, che organizza ed esplora il materiale narrativo”. semplificando, forma.
“il principio della peripezia, che costituisce il materiale narrativo”. semplificando, sostanza.
“l’odierna produzione editoriale, che fa del romanzo il suo genere letterario privilegiato, contribuisce ad enfatizzare il principio della peripezia a scapito di quello compositivo, privando così il genere delle sue potenzialità conoscitive”. in realtà mi pare che nell’odierna produzione editoriale entrambi gli elementi siano assai trascurati, a favore di un’omogeneizzazione seriale del *prodotto commerciale*, il che è anche inevitabile visto che a dettare le scelte editoriali sono mere logiche di mercato. quindi non solo la forma, ma anche la sostanza “nell’odierna produzione editoriale” consta di storie organizzate in trame deboli e prive di originalità.
resto quindi un po’ perplesso leggendo la “diagnosi” iniziale che affermi di condividere “nelle sue linee generali”, sempre pronto a ricredermi qualora si portino esempi concreti delle migliaia e migliaia di romanzi che affollerebbero gli scaffali delle librerie negli ultimi decenni pieni di storie memorabili e rutilanti.
resto un po’ perplesso anche sull’elevato valore artistico attribuito in sé alla forma (alta letteratura architettonica) e sul disprezzo velato per la sostanza (la storia come *regressione*, sì, insomma, “robba” da plebei trogloditi).
non so, non riesco ad attribuire alto valore a priori al “principio architettonico” e un basso valore a priori alla story: entrambi, a seconda dei casi, potranno essere sviluppati con risultati artistici scarsi, mediocri o eccellenti.
peraltro, l’idea di poter prescindere dalla story, o di relegarla a un ruolo marginale di secondo piano, potrà apparire elegante da un punto di vista *intelletterario*, ma è traballante da un punto di vista scientifico (il cervello umano ragiona per causa-effetto, e una storia/micro-storia, ridotta ai suoi componenti elementari, non è altro che una relazione di causa-effetto: immaginiamo storie tutto il santo giorno qualunque cosa facciamo, che ci piaccia o meno, anche scrivendo un saggio letterario… da cui alcuni paradigmi della psicologia cognitiva che recitano più o meno “evolution has wired our brains for storytelling” o anche “human is a storytelling animal”).
“l’inventario da procedimento tattico, ossia circoscritto e alternativo rispetto alla story, giunga persino ad acquisire il ruolo di procedimento strategico, organizzando a partire da sé l’intero discorso romanzesco.” anche qui non so. ha senso parlare di “inventario” come *alternativa* alla “story, ovvero di forma come alternativa alla sostanza? mi pare un discorso po’ astratto e assolutista (la forma in sé e la sostanza in sé, antitetiche e disgiunte mi rimandano alla filosofia ontologica metafisica…). forse come alternativa alla trama intesa come organizzazione di micro-storie.
“Sottoposto al dispotismo della story o della peripezia, il romanzo è quindi costretto ad abbandonare le regioni della banalità quotidiana, della routine, dell’insignificanza, per concentrarsi sull’avventuroso e lo straordinario, nei modi che le nostre forme di vita attuali, post-esotiche, ancora ci consentono.” ma esisterà davvero un “avventuroso” o uno “straordinario” in sé? anche la banalità quotidiana, nelle parole di un buon narratore, diventa facilmente avventurosa e straordinaria. il discorso potrebbe forse essere anche qui ricondotto all’interazione funzionale e dinamica tra forma e sostanza, più che allo scontro antitetico tra categorie del pensiero.
“L’orchestrazione di digressioni e di micro-episodi, che dissolve l’unità narrativa”. non è che digressioni e micro-episodi sono anch’essi storie e micro-storie (futili o meno)? sono d’accordo se parliamo di trama (intesa come insieme di micro-storie), ma il discorso mi pare forzato se si vuole far passere l’idea che la forma possa cancellare non solo la trama unitaria, ma anche le storie. in pratica: possiamo certamente rinunciare all’unità narrativa, ma non alle storie e micro-storie che la compongono, a meno di cancellare anche le parole.
“mette in dubbio la possibilità stessa di organizzare gerarchicamente gli eventi di una vita in una forma unitaria, sia essa intesa come destino”. traduco: di organizzare le microstorie in una trama unitaria. ok?
“Se il gusto della peripezia non attraversa tutta l’opera di Perec, è possibile constatare invece l’onnipresenza dell’inventario.” ma davvero può esistere, di un qualunque autore, uno scritto che non contenga “peripezia”, ovvero storie e microstorie? mmmm…
“ci troviamo di fronte a qualcosa che potremmo considerare un’invariante antropologica, una sorta di disposizione universale dell’essere umano di fronte alla ricchezza caotica del mondo.” qui non ho capito a quale invariante antropologica fai riferimento.
“e una più generale necessità della parola di ordinare il mondo sul piano sintattico e semantico.” direi che ad ordinare il mondo, fornendone una interpretazione mediante il loro giochino mentale di causa-effetto sono invece le storie, più che la parola in sé. non è un po’ come se sostenessimo che il rastrello riordina il giardino? a me pare che il rastrello in sé e per sé non ordini un bel niente senza due mani che lo muovono.
“Lo strumento linguistico e retorico preposto all’ordinamento del mondo può di continuo scivolare nel suo contrario, rivelandosi come un’accumulazione incongruente di elementi.” ohi, talvolta è proprio vero!!!
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“La letteratura narra ciò che la storia non può né riesce a narrare.” vedi? a quale storia ci stiamo riferendo? al limite si poteva usare la S maiuscola.
“In noi hanno sedimentato una quantità innumerevole di dettagli, nomi propri, nozioni slegate, che sono del tutto inutilizzabili persino nell’ottica di una narrazione autobiografica.” potremmo anche definirle micro-storie?
“Non esiste una forma narrativa e, probabilmente, neppure una forma lirica, in grado di organizzare un tale materiale.” ovvero assemblarle in una trama unitaria. ok.
“La scelta di Perec è allora quella dell’inventario: raccogliere in una semplice successione numerica una certa quantità di enunciati, in ognuno dei quali è espresso un ricordo, una traccia soggettiva di realtà” non è che giochiamo con le parole? enunciati, nozioni, dettagli… sembra che si cerchi in ogni modo di non chiamarle storie o micro-storie. è accettabile se, terra terra, definiamo l’inventario come elenco di micro-storie?
“Mi ricordo che Jean Jaurès fu assassinato al Café du Croissant, in via Montmartre.” infatti, mi pare un ottimo esempio di micro-storia.
finito. scusa di nuovo i miei deliri e grazie per gli spunti di riflessione.
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caro malos, purtroppo non ho tempo di risponderti su ogni punto, ma mi pare che si siano verificati alcuni malintesi. In ogni caso, sono questioni importanti quelle che tocchi, tanto che una risposta chiara e non sommaria richiederebbe parecchio tempo. Io ci provo invece rapidamente. Per quanto riguarda la questione di principio architettonico e peripezia né Rizzante né Kundera né io vogliamo dire che uno sia più importante dell’altro. Sono entrambi necessari a sviluppare fino in fondo le possibilità conoscitive del romanzo. Nello stesso tempo pur essendo entrambi necessari, tra di loro si ordinano in una precisa gerarchia. Una storia, o micro-narrazione, è in realtà già una forma. Nel romanzo però questa forma – forma elementare – è al servizio di una seconda forma che la organizza, assieme ad altri elementi ad altre forme semplici. Ed è quanto viene chiamato qui principio architettonico. La nostra vita è fatta di una successione di micro-narrazioni, ma il romanzo NON è la nostra vita, e quindi il romanzo non è un semplice assemblaggio di micro-narrazioni. Quindi se quanto precede è chiaro, l’idea di avere un principio architettonica senza “story” non ha gran senso. Quello che può accadere è che elementi secondari rispetto alla story come la descrizione, la digressione, l’inventario possono acquisire preminenza, fino al caso limite in cui essi dissolvono la stessa forma romanzo.
Inoltre la peripezia è una caso particolare della narrazione.
“Mi ricordo che il nome robot è un nome ceco, inventato, credo, da Carel Capek.”
E’ una micro-narrazione? Boh? Senz’altro siamo al grado zero della peripezia, dell’avventura, dell’imprevisto, ecc.
caro andrea, innantutto grazie per l’attenzione (anche se e soprattutto se non hai tempo).
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“tra di loro si ordinano in una precisa gerarchia”
non so. di “preciso” in letteratura c’è pochissimo e “gerarchia” torna a suggerire un rapporto di supremazia e subordinazione. ciò che leggo in questo o quel romanzo è un’infinità di micro-storie (singole cellule nervose in grado di codificare un segnale), alcune delle quali possono anche essere o apparire collegate tra loro componendo network neuronali (fasci di microstorie o di fibre nervose) dalla cui ulteriore eventuale interazione nello spazio e nel tempo si può ottenere una sorta di “cervello del romanzo” con annessa trama interpretativa – più o meno *immaginaria* – frutto dei pensieri dell’autore e del lettore.
ogni microstoria è autosufficiente e al servizio prima di tutto di se stessa (non “di una seconda forma”), come dimostra il famoso romanzo di sei parole di hemingway (“for sale: baby shoes, never worn”) o quello di manzoni (“dopo infinite difficoltà renzo sposò lucia”)
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descrizione e digressione, allora, forse sono solo microstorie divergenti.
l’inventario forse è solo un elenco telefonico di microstorie.
e il “principio architettonico” magari è solo un sogno romanzato dell’autore, che il lettore finirà per allucinare a suo modo.
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sarà che sono un letterato da due soldi (porta pazienza), ma mi pare suggestivo che le neuroscienze dimostrino che la principale funzione del cervello è quella di immaginare relazioni causa-effetto, e che per farlo il cervello non possa che raccontarsi in continuazione delle microstorie. quindi scusami la sovrasemplificazione, però a volte finisce che mi perdo (il gusto della sostanza) tra sinonimi e astrazioni. addirittura (tunoncicrederai) sono convinto che “il romanzo” non è morto perché non esiste, essendo “il romanzo” solo una parola astratta, un assoluto… esistono semmai i romanzi – infiniti, pieni di microstorie infinite – ovvero una sterminata popolazione di singoli romanzi che al massimo potremo indagare mediante la statistica di popolazione.
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“Mi ricordo che il nome robot è un nome ceco, inventato, credo, da Carel Capek.”
*protagonist*: io che richiamo un ricordo; *conflict*: “credo”; *obstacles*: fallibilità della memoria, lingua straniera, arbitrarietà dell’invenzione; *resolution*: “Carel Capek”.
(ps: come al solito scusa i miei deliri e grazie per gli spunti di riflessione)
Credi ci sia un collegamento tra l’inventario, la catalogazione, e gli status sui social network? Il bisogno di tutti di condividere le proprie piccole e insignificanti imprese (trascorso bellissima giornata al parco, speso del tempo con il mio piccolo nipote di 3 anni, è stato un piacere lavorare con voi ragazzi, bellissima atmosfera domenica allo stadio), per dare un senso al proprio sé?
Io penso di sì.
Se la vita è letteratura e la letteratura vita, la perdita di potere della story, del grande evento, nei confronti dello sfondo, mi pare avere impressionanti analogie con la perdita di potere di alcuni valori indissolubili attorno a cui prima gravitava la vita. Farsi una famiglia entro i trenta. Avere una professione da qui alla pensione. Paletti a cui ormai molti non guardano più, o guardano con sempre meno focus. Meglio quello che c’è intorno. Si può scrivere su facebook, – ho messo su famiglia. -, oppure, – mi sono sposata -. Noia. Si può scrivere ma è noia. Non è diverso dalla giornata al parco, hanno pari dignità.
Io credo che il procedimento del 900 di distruzione e destrutturazione sia arrivato alla vita, quindi ora nuova fase. Penso che l’inventario sia già uno strumento inefficace e anacronistico se fine a se stesso. Credo vada utilizzato per mettere nuovi paletti, e il primo paletto mi pare possa fissare è quello dell’individuo. In senso artistico, l’autore per me deve mirare a divenire un mondo, completamente, molto più che nei secoli passati, la tecnologia lo supporterà in questo processo.
L’inventario a quel punto diverrà strumento per ricercare nel mondo-autore. Il lettore troverà il suo percorso. Troverà anche i paradossi che hai ben spiegato. Troverà un sistema ordinato di figure, di storie, ma questo ordine non è cronologico, è un disordine.
Come dici il pericolo è l’oblio. Lo sentono tutti, ne hanno tutti una gran paura. Prima pensare alla morte era roba per i pedanti, gli intellettuali, i vecchi. Ora la paura dell’oblio ce l’hanno tutti, la smania di poter elencare un giorno – le cose che ho fatto -, e sentirmi pieno e soddisfatto, la voglia di aver vissuto la vita in pieno, adesso sta prescia ce l’hanno anche iragazzotti di 18 anni. Vuoi per il meccanismo della fama vuoi perché molti valori determinati si sono sciolti come le pastiglie di detersivo nella lavastoviglie. Non basta più una cosa sola da raggiungere nella vita, ne servono tante, e visto che non si può, perché la vita è breve, bisogna dare importanza anche alle piccole cose. Ma ho paura che anche questa sia una illusione.
La latteratura è vita ma è anche finzione. Quindi le piccole cose vanno dette con grandi parole. E in questo senso credo che il romanzo debba idealmente avvicinarsi alla poesia o almeno ai suoi intenti.
Mi sono dlungato un po’ troppo, ma questo tuo articolo è davvero stra interessante e mi piacerebbe leggerne di più di questo genere. Complimenti.