L’ombra del Grillo
di Nicola Fanizza
Uno spettro si aggira fra le tenebre trasparenti che avvolgono la nostra penisola: lo spettro del grillismo. Che si fa latore di inedite speranze di salvezza, di nuovi sogni e, insieme, di nuovi incubi. Alcuni fra i nostri direttori di coscienza ritengono che il M5S si configuri addirittura come un fenomeno di rinascenza del fascismo. Da qui il loro invito a combattere contro il nuovo mostro bicefalo. La consegna è una sola: instillare nelle masse il germe della paura. Si ridà vita a ciò che è morto – il fantasma del fascismo – per combattere ciò che, invece, è vivo, l’ombra del M5S (l’ombra in greco stava a indicare la vita). Tuttavia non è la prima volta che ciò accade. Dall’avvento dei partiti di massa gli intellettuali organici hanno sempre veicolato la paura come strumento di lotta sia nei periodi di scarsa effervescenza sociale sia durante le fasi in cui si affermano nuove forme di sociabilità. Di fatto oggi viviamo in un mondo in cui si sta frantumando il vecchio tessuto delle relazioni sociali, un mondo che non riconosce più il ruolo dei politici e che ha già consumato da tempo la sua rottura con i partiti. I politici parlano a una città che ormai non li vuole più ascoltare. Il contenuto dei loro messaggi – incentrato sulla paura – appare statico e sostanzialmente ripetitivo.
Non è inutile rilevare che i partiti di destra e, insieme, di sinistra – a partire dal secondo dopoguerra – hanno contribuito a forgiare le diverse identità politiche attraverso una doppia paura: da una parte la paura dei comunisti senza che ci fosse il comunismo; e, dall’altra, la paura dei fascisti senza che ci fosse il fascismo.
Il fantasma della paura – insieme agli altri idola che strutturano le diverse identità politiche – non è tuttavia scomparso con la fine della Prima Repubblica. Berlusconi ha reiteratamente ipostatizzato lo spettro del comunismo, anche se il suo successo politico è riconducibile al fatto che gli Italiani hanno visto rivivere nel suo stile di vita alcuni tratti della loro sensibilità: l’animo gioioso, leggero, scettico, individualista ed esteriore. Di fatto nell’immaginario degli epigoni di Berlusconi il nostro Paese è quello di sempre, senza unità ideali, senza scopo comune. Ognun per sé e qualche camorra – i partiti! – per molti.
Sul fronte opposto, a partire dalla fine degli anni Ottanta, gli epigoni di Togliatti, dopo aver abbandonato la lotta contro il mercato capitalista e accettato i dettami del liberismo economico, andavano alla ricerca di una nuova identità. Dovevano comunque marcare una certa distanza dai loro antichi avversari! Da qui l’esigenza di trovare un nuovo nemico per determinare la propria differenza. L’attesa è durata comunque poco: Berlusconi – pur mettendoci del suo – è diventato subito il nemico. Un nemico che bisognava tenere a tutti i costi in vita. Di fatto i dirigenti e gli intellettuali organici del Pd, mantenendo in vita il suo fantasma, sono riusciti a dare un senso al loro impegno in politica, in quanto hanno desituato su quest’ultimo la parte maledetta della loro stessa coscienza. Quello che qui voglio dire è che Berlusconi – per quello che evoca a livello simbolico – non sta fuori noi, poiché abita e signoreggia a pieno titolo nei sotterranei del nostro immaginario.
Ma torniamo al M5S. Diciamo subito che non è un movimento rivoluzionario. Ciò che esso rivendica è la democrazia policentrica, che si dà attraverso la coestensività di istituti di democrazia diretta – i diversi movimenti presenti nella rete – e di istituti di democrazia rappresentativa. Si tratta della riattivazione del vecchio modello di democrazia promosso dai giacobini. Questi ultimi nella Convenzione prestavano attenzione alle istanze che venivano dalla Comune di Parigi, che a sua volta si configurava come un istituto di democrazia diretta. Da qui il revival della liturgia giacobina – l’uso del termine cittadino! – e la tesi che il deputato eletto in Parlamento ha il vincolo di mandato, poiché la sua funzione è solo quella di essere un fedele portavoce del movimento che lo ha designato.
Il programma del M5S è sicuramente il più avanzato, poiché sembra andare incontro alle esigenze dei ceti sociali più deboli. Certo, anche il programma del movimento fondato da Mussolini, nel marzo del 1919, a Milano era più avanzato rispetto al programma del Psi: prevedeva, infatti, l’abolizione del Senato, la creazione della Repubblica, il voto alle donne e ai diciottenni, la giornata lavorativa a otto ore, introduzione di una tassa sui grandi patrimoni, ecc.
Non è un caso che, a Piazza San Sepolcro, il servizio d’ordine fosse composto dai repubblicani della sezione di Forlì. Sindacalisti rivoluzionari come Giuseppe Di Vittorio e Alceste de Ambris, repubblicani come Piero Delfino Pesce e Tonino Spazzoli – futura medaglia d’oro della nostra Resistenza – o poeti come Eugenio Montale, inizialmente, guardarono con interesse al diciannovismo. Nondimeno la loro attenzione nei confronti del movimento fascista venne meno allorquando presero atto della sua involuzione autoritaria.
La simpatia manifestata da una parte dei nostri direttori di coscienza nei confronti del M5S è per molti versi simile a quella evidenziata dai nostri intellettuali nei confronti del diciannovismo.
E tuttavia ciò che agli osservatori più attenti appare poco condivisibile non sono tanto le recenti determinazioni assunte dal M5S sul piano politico, quanto le forme di sociabilità che lo stesso Movimento promuove. Il M5S non è ritenuto un vero e proprio movimento, in quanto – dice Pietro Barcellona – la comunicazione fra i membri del M5S avviene nello spazio virtuale della rete. Qui di fatto mancano i corpi, ovvero manca – e qui sono io che parlo – quella patina di opacità, che consente di addomesticare la distanza fra i diversi individui, e di avere una comunicazione autentica. Non diceva Nietszche che noi conosciamo anche attraverso i corpi! Al di là del fatto che gli esponenti del M5S probabilmente si incontrano non solo nel web ma anche in altri luoghi – alcuni giovani mi hanno detto che «lì possiamo parlare, partecipiamo, ci ascoltano» –, ritengo che le considerazioni di Barcellona inerenti alla comunicazione non valgono solo per il M5S, poiché possono essere estese all’intero spazio sociale. La comunicazione nell’ambito di alcune riviste non avviene forse senza il contatto fisico dei redattori? Se oggi siamo infelici non è solo perché abbiamo meno soldi in tasca. E’ perché non abbiamo più amici. Il deserto avanza!
Per altri versi, il dispositivo argomentativo con cui viene stigmatizzato il movimento di Grillo è in larga parte identico a quello utilizzato nei confronti di tutti i movimenti, compreso quello del ’68. I movimenti – si dice – sono caratterizzati dall’ambiguità, poiché consentono al loro interno la presenza di posizioni opposte. Ebbene, quando si criticano i movimenti per la loro ambiguità, si dimentica troppo spesso che l’essenza dell’uomo è proprio l’ambiguità, che non va valutata negativamente, poiché rimanda quasi sempre alla possibilità. Viceversa l’ambiguità dei politici è come la vernice: è sempre superficiale e giammai esistenziale.
D’altra parte prefigurare, sulla scorta di ciò che è accaduto in seguito al movimento diciannovista, una deriva reazionaria del M5S non ha molto senso. Si sa che quando i generali fanno la guerra pensano che sia uguale a quella precedente e, invece, si trovano a combattere un’altra guerra. Lo stesso discorso vale per le rivoluzioni e i movimenti. Quello che è certo è che il M5S è irriducibile a tutti i movimenti precedenti!
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Trovo piuttosto offensivo accostare alla stigmatizzazione del grillismo quella del ’68. Credo inoltre che il massimalismo sia un male, da dovunque abbia origine, nel m5s ci sono elementi riconducibili al fascismo, chiaramre, come è vero, e lo rivendico senza spinte erettili di sorta, che fra i presunti intellettuali organici che criticano grillo c’è anche chi si è fatto Genova. Poi, certo, si possono comprare i dvd di grillo sul suo sito, e c’è uno che programmava siti di politici molto poco di sinistra e che fa il papa nero del movimento, sostenendo che un’idea buona non è nè di destra nè di sinistra, c’è stata l’ambiguità totale su casapound, c’è una visioen dell’immigrazione che fa schifo, protoleghista, nel comico degli ombrelli in piazza, ma tant’è, questi okkupano le camere, accidenti che paura…buona rivoluzione virtuale.
anche monti che ormai è imprescindibile da qualsiasi governo la sinistra abbia in mente,e pure lui quanto all’obsolescenza dei concetti di destra è sinistra ha compiuto ragionamenti così ben articolati che persino Magdi Allam avrebbe potuto fare meglio.Per ciò che concerne il m5s credo che la scarsa operatività cui il contesto lo sta costringendo a volte incoraggia a parafrasare la storica battuta di piazza san giovanni per cui “un salto nel buio è meglio di un suicidio assistito”,chiedendosi se per caso quel principio di programma valesse ugualmente per i salti nel vuoto.Detto questo,appare chiaro a chiunque abbia un minimo di esperienza con la comunicazione politica passiva che i partiti tradizionali,mentre si preoccupano di mettere in ogni modo i bastoni tra le ruote a tutto ciò che rischia di sopravanzarli,per il futuro possono garantire giusto una sopravvivenza inducendo al coma farmacologico la nazione.Detto questo non si può non applaudire al comportamento tenuto fino a questo momento da Sel che probabilmente troverà un riscontro nella prossima tornata elettorale,in particolare se i suoi maggiorenti faranno notare all’onorevole Boldrini,che ha un Palmares lodevole per quanto riguarda la sua esperienza al di fuori della politica,che forse la presa di posizione sull’uscita di Battiato meritava riflessioni più interessanti e meno tranchant,così come quella sulla mossa dei grillini di “occupare l’aula”(ma intanto mi arriva una news secondo cui vendola si sarebbe dimesso da parlamentare per una campagna mediatica malignazza che lo riguarderebbe.E allora ritorno col pensiero al lost in the mancha di gilliam e più precisamente alla battuta relativa ai mulini della Realtà che contrattaccano)
http://www.youtube.com/watch?v=gXzA9tVv38Q
A parte la generica rivendicazione di una «democrazia policentrica, che si dà attraverso la coestensività di istituti di democrazia diretta – i diversi movimenti presenti nella rete – e di istituti di democrazia rappresentativa» – che resta generica tanto quanto la retorica dell’eliminazione degli sprechi, finché non mi si spiega come farla; di quale programma «più avanzato», che «sembra andare incontro alle esigenze dei ceti sociali più deboli» stiamo parlando? Non c’è un solo punto indicato dall’autore di questo articolo che comprovi questa asserzione. Di quali ceti sociali più debili stiamo parlando? I dipendenti statali, nel mirino del M5S in quanto tali, lo sono – dal momento che una larga fetta di loro è al di sotto del reddito medio italiano (me compreso)? I punti programmatici condivisi (o coincidenti) con Giavazzi, Zingales, Renzi (versione Leopolda), sono anch’essi “avanzati”? Alcuni dei critici del M5S hanno argomentato con puntiglio sul programma del M5S: sono anch’essi seminatori di paura? La retorica della crisi come inevitabile, ed anche salutare, che Grillo ha agitato, non aveva come scopo «instillare nelle masse il germe della paura» per proporsi come unico medico curante dell’epidemia?
Ho notato che l’atteggiamento di persone come Bologna o Zorzoli o lo stesso Fanizza nei confronti del Movimneto 5 Stelle, ossia persone che hanno una certa età e una lunga esperienza politica, sia molto meno apocalittico e isterico, di quello incarnato in modo esemplare oggi da “La Repubblica”. Cito un passaggio da un pezzo di Sergio Bologna, intitolato “I figli della Gabanelli”:
“Arrivano le elezioni e succede il finimondo e tutti quelli del “populismo” adesso ripetono come automi la parola “preoccupazione”. Io non ho votato Grillo, ma non sono per niente preoccupato o, meglio, non più di quanto lo sia stato in questi ultimi trent’anni a vedere delle classi dirigenti smantellare sistematicamente quello che di buono aveva questo paese. Perciò non mi chiedo chi sono questi “populisti” che hanno invaso il Parlamento, basta guardare le loro facce invece di quella del comico, sono gente normale, sono giovani normali. Chi li ha messi su quella buona/cattiva strada? Secondo me la loro vera educatrice politica e civica è stata la Gabanelli. Sono persone normali che non vogliono più vivere in quel paese che “Report” ci ha fatto vedere tante volte. Solo questo e niente di più. Troppo o troppo poco, d’accordo, ma in cambio che c’é?”
Io continuo a propendere per questo atteggiamento. Non ho le medesime esperienze, la medesima cultura politica, della maggior parte delle persone che hanno votato o aderiscono al Movimento 5 Stelle. E ci sono atteggiamenti che mi rendono estraneo ad esso, come il rifiuto tutto ideologico della partizione sinistra-destra. Ci sono cose che trovo detestabili: le sparate sui rumeni, la questione della partecipazione al Movimento legata alla cittadinanza italiana. Detto questo mi è impossibile, e mi rifiuto per ora di farlo, di trattare in blocco, e in modo univoco, una realtà che palesemente non è monoblocco e univoca. Inoltre, vedo dei contenuti progressisti veicolati da questo movimento, e quindi di difesa anche dei ceti sociali più deboli (basta scorrere il programma.) Contenuti che, non sto a ripeterlo, convivono con altri ben più moderati o liberisti. Questo non fa né di Grillo né dei militanti del MoVimento i salvatori del Paese o della democrazia, ma nemmeno gli inequivocabili becchini, come “Repubblica” si ostina a propagandare.
Sul “manifesto”, che non è un giornale di estrema destra, si chiede oggi a firma di Luigi Sereni la costituzione delle Commissioni parlamentari, appoggiata anche da SEL, che il Movimento 5 Stelle sta pureda tempo chiedendo. E qui la questione non è la sacra governabilità – che vuol dire applicazione del Fiscal compact – ma il funzionamento del parlamento, e dunque una dinamica più democratica di quella garantita dai governi che avanzano a decreti.
Un’ultima questione sull’immigrazione… Questa è stata una delle poche elezioni politiche che io ricordi che – nonostante si sia in piena crisi – non ha messo al centro – ossia a portata della destra così come della sinistra – la questione SICUREZZA, INVASIONE, ecc. Non ne faccio un merito esclusivo ai grillini, ma di certo un partito populista di estrema destra non avrebbe fatto campagna elettorale su altri temi che non fossero questi.
Fanizza nota in un passo del suo articolo che il M5S è irrudicibile a tutti i movimenti precedenti. Ha dimenticato di aggiungere che il M5S è la farsa di quei movimenti, così come la democrazia che rivendica è una caricatura di quella giacobina, non foss’altro perché manca il suono ristoratore della ghigliottina …
«lì possiamo parlare, partecipiamo, ci ascoltano»
poi decide uno solo, ovvero il PROPRIETARIO del marchio registrato M5S. Chi prescinde da questo dato di fatto, parla del nulla.
a ” dice Pietro Barcellona” mi sono fermato, ho capito che ciò non aveva alcuna serietà.
I fasci da combattimento esprimevano in origine una relatà monoblocco?
Forse neanche gli elettori della lega rappresentavano, negli anni 90, una realtà monoblocco e univoca, oggi nel nord est ci sono figli di immigrati che votano lega, e gente che è passata dalle feste dell’unità a miss padania, questo non toglie che la classe politica che esprimono sia riprovevole, che le istanze che rivendicano siano egoistiche e xenofobe, etc.
Per dire: certo che nel m5s ci sono tonnellate di persone in buona fede con la faccia di gente con cui si giocava a calcetto il sabato, o si facevano le assemblee a scuola, o addirittura manifestazioni pro palestina, ma questo non toglie che le logiche dleterie espresse da un blog con un milione di adepti dove vendono dvd del comico a pagamento, abbiano prodotto un’idea di democrazia -diceva bene nega- caricaturale, e a tratti eversiva, nonchè due gruppi parlamentari ridicoli, dove il dissenso e la discussione critica sono soffocate, e riamdnate costantemente al controllo via blog dei capi.
Io capisco il senso di fratellanza e talora di identificazione che si può provare vedendo tanta gente che conosciamo e che stimaimo che vota grillo, o le loro facce esacerbate, ma questo nontoglie che ho visto ex ragazzi da centro sociale a roma, con proverbial eorecchino e bandana sopra alla casacca gialla dell’easy jet e un brel volo di ritorno a casa dopo essersi sfibrati a londra a lavorare in qualche call center, discettare oggi di ‘cambiamento’ come bene in sè prodotto da grillo, e alcontempo smadonnare in tempo reali contro la zingara della stazione. Ora a parte le singole esperienze, da cui non si induce nulla di generale, esiste forse unproblema di degenerazione delle identità scoalsitche originarie, in tanta di questa gente, o anch ein noi stessi o no? Cosa esprime il comico, se non questa degenerazione, questo cazzeggio a oltranza, questo peggio di ciò che io stesso, a tratti, posso sentire di essere per esperienze personali, delusioni lavorative, odio per il nepotismo etc.? Ecco qeusto farsi manipolare da due miliardari scemi, che non sanno nulla di economia politica e si imaprano a memoria la costituzione italiana perchè basta citare articoli a vanvera nel loro contenuto letterale e si di fende la ‘dmeocrazia’, credo che sia questo il problema di fondo di un movimento nato da un blog (lo ripeto, perchè la cosa è insè oltre che grottesca, è pericolosa, e assai vicina al fascismo, a un senso di gerarchia indotto dalla rete, che tutti conosciamo, tutti).
quando mi sento posseduto dalla sicumera torno al racconto che segue(spero non da solo),confidando che mi venga perdonata la scarsa brevità:
I ragazzi di Cucarasi (by Gian Carlo Fusco)
Una ventina di giorni fa, dopo tredici anni precisi, ho
risentito la sua voce. Ero sul tram numero uno, che dalla
stazione porta alla periferia settentrionale di Milano. La
folla dell’ora di punta mi pigiava da tutte le parti; una
vecchia signora dai capelli azzurri faceva di tutto per
accecarmi con l’ombrellino. Riuscii finalmente ad
aggrapparmi a un sostegno, il quale, frutto di una recente
invenzione, cominciò subito a suonare una samba.
Fu allora che la sua inconfondibile voce uscì dalla
calca. Parlò alludendo, appunto, al sostegno musicale:
«Non sanno più cosa studiare per romperci l’anima» disse.
E dopo un attimo di silenzio, soggiunse: «È uno schifo».
Se mai fosse stato possibile confondere quella voce
con un’altra, il modo come pronunciò la paro la schifo
toglieva ogni dubbio. Dalla “esse” lungamente sibilata,
usciva un “chi” che pareva un ringhio, più simile a un
“ghi”; il “fo”, aspro e sordo, acquistava una doppia “effe”.
Proprio quel modo di pronunciare la parola “schifo”
mi aveva impressionato nell’autunno del 1940, quando per
la prima volta avevo visto Ferro Maria Ferri. Allora
eravamo in Albania, fra i cespugli marci di pioggia del
Tomorezza. Accampata alla meglio sulla riva del torrente
che trascinava grosse radici e muli morti, la nostra
divisione cominciava appena a riaversi dalla sua
massacrante ritirata. Continuavano ad arrivare i dispersi, a
piccoli gruppi e isolati. Molti di essi affondavano nel
fango i piedi nudi e scorticati perché avevano dato le
scarpe ai montanari in cambio di pane giallo e piccoli
formaggi duri come sassi. Un capotai maggiore del genio,
impazzito di solitudine lungo la strada, arrivò cantando a
squarciagola: «Celeste Aida».
Ferro Maria Ferri giunse alla tenda «Roma» che
accoglieva provvisoriamente la mensa ufficiali proprio
all’ora di colazione.
I commensali si erano da poco seduti attorno alla
tavola sostenuta da rozzi cavalletti e il capitano Teofili,
comandante della posta militare, aveva già suscitato il
solito buonumore annodandosi al collo la pezza da piedi
che usava come tovagliolo. Anche il tenente Ragazzi,
comandante dei forni da campo lasciati al nemico, aveva
già, come ogni giorno, allietato gli animi facendosi il
segno della Croce con esagerata compunzione. Poi, coi
teli-tenda in testa per ripararsi dalla pioggia sottile e
incessante, arrivarono i tre militari addetti alla mensa: il
caporale Panico, i soldati Laurenti e Pantano. Portavano
marmitte di cottura, scatole di dentice e di marmellata,
qualche bottiglia di vino speciale (quello denso e forte di
Salaparuta), carpita chissà come a una sussistenza di
rincalzo. Il brodo bollente, costellato d’occhi di grasso, fu
versato in gavette nuove, piatti di alluminio, qualche
scodella di coccio. Le pagnotte, già tagliate a fette sottili,
parevano intatte sulla tovaglia fatta con tre lenzuoli
giuntati a grossi punti. Gli ufficiali cominciarono a
mangiare.
Nonostante i recenti rovesci e il pratico sfasciamento
dei reparti, benché alcuni (non molti) fossero delusi dalla
mancata avanzata lampo su Atene, nonostante il disagio
della nuova posizione «prestabilita», la mensa provvisoria
del Tomorezza era piuttosto allegra. A capotavola, il
colonnello Cristofori mostrava la sua faccia cordiale,
lucida e rossa, sulla quale i peli bianchi della barba, rasata
un giorno sì e un giorno no, scintillavano come limatura
d’argento. Alla sua sinistra, il tenente colonnello medico
Rosini, richiamato dall’aspettativa, padrone di fattorie
nella campagna di Pisa, declamava poesie di Stecchetti o
di Fucini, e a richiesta, dopo brevissima resistenza,
attaccava il famoso Processo di Sculacciabuchi, del quale,
a trent’anni dalla laurea, non aveva dimenticato neppure
un verso. Alla destra del colonnello, il maggiore
veterinario Mangione, avellinese, parlava poco,
preferendo assaporare i cibi con una lentezza ch’egli
chiamava «scientifica» e che affermava di aver appresa
dai cavalli e dai muli, gli unici che in vent’anni di carriera
gli avessero insegnato qualcosa di utile. Tutt’attorno alla
tavola, in posizione corrispondente al grado e all’anzianità,
gli ufficiali discutevano della guerra, dei greci,
dell’energia tedesca che bisognava affrettarsi ad imitare, di
amanti lontane e di passate campagne. Anche se gli
ufficiali effettivi erano un poco più riservati e circospetti
di quelli di complemento, la conversazione, sotto il
tendone, non conosceva imbarazzi. Quella vivacità
febbrile che accompagna sempre i disastri le dava, anzi,
un tono disinvolto e animato. La pioggia, che picchiettava
sulla tenda ben tesa e rimbalzava sui finestrini di mica,
aumentava l’intimità e favoriva la confidenza.
Il tenente Ferro Maria Ferri entrò in quell’ambiente
bonario, poco prima che il caporale cominciasse a
distribuire la marmellata di mele cotogne che sostituiva la
frutta. Entrò leggermente di sbieco e per un momento,
passando dalla luce alla penombra, restò fermo sulla porta.
I suoi occhi, sotto la falda del cappello alpino sformato
dall’acqua, erano piccolissimi e appuntiti. L’ombra color
bistro della barba risaliva il viso, magro e segnato, fin
quasi alle orbite. La bocca, pallida, era piegata in una
smorfia di stanco disprezzo. Indossava un’uniforme da
soldato, senza il minimo ritocco, scurita e appesantita
dalla pioggia. Sulle maniche, i filetti di cotone giallo,
appuntati con gli spilli, erano un po’ storti. Sul petto un
nastro azzurro, sbiadito, precedeva quello giallo e rosso
della marcia su Roma. Due dita sopra il taschino, spiccava
il distintivo scarlatto degli squadristi. Le gambe, strette
nelle fasce, apparivano magre e un tantino storte. La mano
sinistra, protetta da un guanto nero, usciva dalla manica
come cosa staccata dal corpo quasi dimenticata.
Il nuovo arrivato restò qualche secondo immobile,
con la mano nera abbandonata lungo la coscia e le spalle
inclinate, a scrutare la tavola resa silenziosa dalla sua
improvvisa presenza. Poi, camminando leggermente di
traverso, avanzò. Il suo passo era quello di un uomo che
riesce ancora a vincere con la volontà una grande
stanchezza. Fece il giro della tavola. Cominciando dal
colonnello, si presentò. «Ferro Maria Ferri» ripetè venti
volte con voce sorda ma chiara. Stringeva con forza le
mani e figgeva gli occhi negli occhi come per arrivare fino
in fondo alle anime. Poi sedette in un angolo, tirandosi
sotto, bruscamente, lo sgabello che il caporale Panico si
era affrettato a portare insieme a un piatto di alluminio,
due posate e un bicchiere di latta. Tuffò il cucchiaio nel
brodo con gesto sicuro e si cacciò la prima cucchiaiata
nell’angolo destro della bocca. Attorno, si taceva ancora.
Fu il colonnello Cristofori a uscire per primo da quel
silenzio. Non usò il “tu” regolamentare. «Lei è di
passaggio, tenente, o è destinato alla divisione?» gli
chiese. Ferro Maria Ferri lo guardò un istante,
attentamente, prima di rispondere: «Alla divisione». Ci fu
ancora una breve pausa, poi il colonnello riprese: «Viene
dall’Italia?». «Purtroppo» fece subito il tenente, stringendo
il cucchiaio. Ancora un silenzio, più lungo. Quindi, fu la
volta del tenente colonnello Rosini, il quale, con la sua
solita leggerezza toscana, domandò: «Che si fa di bello in
Italia?». Ferro Maria Ferri calò il cucchiaio nel brodo e
abbassò il viso sul piatto. Sotto l’ombra scura della barba
non rasa, si videro le sue mascelle pulsare nervosamente.
Poi, un istante prima che la cucchiaiata entrasse in bocca,
si udì la sua voce aspra e sorda rispondere: «Schifo».
Qualcuno rise, ma per poco, già che Ferro Maria Ferri
sollevò dal piatto, di colpo, i suoi piccoli occhi appuntiti.
Il caporale Panico, alle sue spalle, pronto a servirgli un
grigio pezzo di lesso, acquistò un’aria spaventata. Il
capitano Teofili appiattì fra le dita la pallina di mollica che
di solito gettava a qualcuno prima di alzarsi da tavola. Il
maggiore Mangione ebbe per la prima volta una
espressione interessata. Si mise gli occhiali cerchiati di
tartaruga. «Schifo» ripetè Ferro Maria Ferri. E parlando a
scatti, aspramente, continuò: «Finché non ci metteremo
all’opera noi della vecchia guardia. Allora saranno dolori».
Così dicendo, si prese con la mano destra la sinistra
inguantata di nero e la posò sulla tovaglia, accanto al
piatto vuoto, come un oggetto qualsiasi.
Il tenente Ferro Maria Ferri, ex vicefederale di un
capoluogo irredento, sansepolcrista a sedici anni,
squadrista a Lucca nel 1921 e poi, per due o tre anni,
dissidente dal fascio in seguito a un ceffone ricevuto da
Carlo Scorza, decorato al valore sulle sponde del lago
Tana e ferito alla mano sinistra a Guadalajara, si era
deciso ad abbandonare la scrivania di un dopolavoro
provinciale dopo la mancata conquista lampo della Grecia.
Avrebbe potuto raggiungere il fronte come centurione
della milizia. Aveva preferito un grado di meno negli
alpini, suo corpo d’origine. La sua regolare iscrizione
all’albo dei giornalisti e la sua preparazione politica gli
avrebbero dato diritto a dirigere uno dei tanti uffici “P”
(propaganda) che distribuivano giornali ed opuscoli alla
truppa. Aveva preferito spingersi avanti. Quando i tendini
offesi della sua mano sinistra gli procuravano atroci
dolori, accorciandosi od allungandosi, secondo i
cambiamenti del tempo, non ricorreva al dottore. Alcuni
bicchieri di cognac, gettati giù come acqua fresca,
bastavano a soffocare lo spasimo.
Tutta la divisione venne a sapere questi particolari in
capo a due o tre giorni, dal soldato Valentini, marchigiano
di Mombaroccio, assegnato come attendente al nuovo
ufficiale. Si seppe anche che, nonostante la ritirata avesse
resi vacanti diversi comandi di plotone e di compagnia, il
tenente Ferri sarebbe rimasto temporaneamente a
disposizione del comando di divisione. Ma forse si
trattava, addirittura, del comando di corpo d’armata.
Comunque fossero le cose, Ferro Maria Ferri si fece
costruire una tenda di dodici teli in un angolo appartato,
dietro una specie di terrapieno fangoso. Quella tenda,
rinforzata con legno compensato, cartone catramato e
coperchi di scatoloni di sigarette, era completamente
affondata in un groviglio rossiccio di cespugli spinosi. Era
possibile vederla interamente solo dall’alto,
arrampicandosi sul tetto di un edificio rimasto incompiuto
per via della guerra, nel quale il comando del corpo
d’armata aveva installato i propri uffici.
Il tenente dalla mano nera passava la maggior parte
del suo tempo in quell’appartato ricovero. Era raro che
comparisse alla mensa; era ancor più raro incontrarlo sulle
strette corsie di sassi che il genio zappatori aveva costruito
sul fango giallo e profondo. Soltanto il soldato Valentini
recava, di tanto in tanto, notizie del suo solitario ufficiale.
Si seppe così che sotto la tenda a dodici teli, Ferro
Maria Ferri passava la maggior parte della sua giornata (e
molte ore della notte, alla luce attenuata di una lampada
Petromax) leggendo e scrivendo. In una cassetta costruita
su misura egli si era portate dall’Italia tutte le opere di
Guido da Verona, rilegate in tela turchina con le rifiniture
di pelle rossa. Prendeva un volume a caso, ne scorreva
qualche pagina, poi restava a lungo con gli occhi fissi
lontano e un dito giallo di nicotina a tenere il segno.
Oppure scriveva, a piccolissimi e precisi caratteri, su certi
quaderni spessi dalla copertina marrone. Il tenente Ferri
non scriveva mai lettere.
Regalava al Valentini, che aveva tre madrine di
guerra, la sua spettanza settimanale di cartoline in
franchigia. Sempre dal Valentini (uno spilungone
allampanato, pettegolo e servile, nato apposta per fare
l’attendente) si seppe che sotto la tenda solitaria c’erano
diverse altre cose interessanti: un grande pugnale abissino
dal fodero in pelle di rinoceronte; un libro francese pieno
di donne nude, una delle quali, bionda e formosa, faceva
all’amore con un somaro; un fucile corto, per cacciare di
frodo, conservato in un sacchetto di stoffa verde; una
cornicetta d’argento nella quale c’era un ricciolo castano
legato con un nastrino celeste. Ricciolo, secondo il
Valentini, troppo minuto e increspato per essere di capelli.
Certe volte, il tenente guardava per qualche minuto quel
ricciolo, poi lo metteva via con una scrollata di spalle e
una specie di ringhio soffocato.
Passò tutto dicembre. Dalla vigilia di Natale al primo
dell’anno, fatta eccezione per qualche breve scroscio,
cessò di piovere. Una volta sulla destra, dalla parte di
Berat, si aprì perfino una striscia di azzurro. Si affacciò al
massiccio del Tomori qualche aeroplano, nero e alto, a
gettare nella valle piccole bombe che tonfavano lontane. Il
nostro fronte si andava rapidamente rinforzando, anche se
una notte un intero battaglione della guardia di finanza
albanese passò al nemico, col capitano in testa e i muli
dietro in fila indiana. Alle prime luci dell’Epifania, davanti
al villaggio di Treppalle, una compagnia di arditi greci,
coi piedi fasciati di stracci per non far rumore, come al
tempo di Temistocle, sorprese i nostri avamposti e li
sopraffece. Per evitare un aggiramento che avrebbe messo
in pericolo due battaglioni di fanteria, il comando tattico
della divisione ritirò il fronte di alcuni chilometri. Quel
giorno stesso, cadde nelle mani di una pattuglia alpina un
maggiore greco dal profilo tagliente e dagli spessi occhiali
a stringinaso. Fu portato giù al Tomorezza. Interrogato in
greco antico da un capitano messo a fare l’interprete
all’ufficio “I” (informazioni) perché da civile era
professore in un liceo di Napoli, il maggiore rispose in
corretto italiano: «Non ci arrenderemo mai a voi. Ci
arrenderemo piuttosto ai tedeschi».
Fu allora che il tenente Ferro Maria Ferri, il quale
nell’ultima settimana aveva vissuto più appartato che mai,
uscì dal suo isolamento. Una mattina, verso le dieci, con
l’uniforme ripulita e gambali gialli al posto delle fasce,
egli si presentò al comandante del corpo d’armata. Lo si
vide entrare nel palazzotto incompiuto del comando col
guanto nero infilato nella bottoniera e un frustino di nervo
stretto nella destra.
Il comandante del corpo d’armata era un generale
piemontese incaricato del grado superiore. Piccolo e
tarchiato, con un pizzetto grigio sul doppio mento e il
cranio perfettamente lucido, la sua voce gracile
contrastava col corpo robusto. Per quell’ottimo ufficiale,
tre volte decorato al valore e una volta promosso per
merito di guerra, esistevano soltanto le leggi dell’onor
militare, la cultura militare, i casi della vita militare. Per
lui, che da capitano aveva sposato la figlia del suo
colonnello e adesso aveva una figlia sposata a un suo
capitano, le questioni politiche erano qualcosa come la
religione e lo spiritismo. Nel 1922, aveva visto con
simpatia il fascismo (a parte la “cagnara” della marcia su
Roma e i sottotenenti diventati di colpo generali) perché
gli era sembrato che semplificasse le cose. Poi, col passare
degli anni, non ci aveva capito più niente. Si sapeva che
una volta, parlando con alcuni ufficiali di sua fiducia,
aveva detto che, tutto sommato, la guerra contro
l’Inghilterra e la Francia, forse l’America e probabilmente
la Russia, era «una bella vaccata». Per il resto, vaccata o
no, faceva scrupolosamente il suo dovere, cercando di
nascondere una certa timidezza tutte le volte che gli
capitava di trattare coi politici. Per lui, il tenente Ferro
Maria Ferri, ex vicefederale, squadrista, segretario di
dopolavoro, autore di un opuscolo intitolato Società
littoria, era anzitutto un politico.
Il tenente entrò nell’ufficio dalle pareti rugose
d’intonaco camminando, come al solito, leggermente di
traverso. Si fermò davanti alla rozza scrivania del generale
e restò rigido sull’attenti, le spalle un po’ inclinate a
sinistra. I suoi occhi, piccoli e scuri come chicchi di
zibibbo, si puntarono, senza ombra di timidezza, in quelli
azzurri del superiore. Il quale, fingendo di mettere a posto
alcuni documenti, si schiarì la voce e disse: «Stia comodo,
tenente».
Il Ferri si afflosciò un poco, ma in compenso la mano
inguantata di nero si fece più dura sulla coscia. Il generale
si accese un mezzo sigaro, rigirandolo sul fiammifero, poi
disse ancora: «Vedo che lei si è messo a rapporto per
ragioni urgenti e straordinarie. Di che si tratta?».
Ferro Maria Ferri acquistò una espressione amara che
gli scavò nel viso magro solchi più fondi. Rispose al
generale che gli dava del lei con un voi asciutto e marcato.
«Signor generale» egli disse. «Sono arrivato in
Tomorezza un mese fa, preferendo la guerra alle
scartoffie. Ho preferito anche attendere una buona
occasione anziché assumere un comando d’ordinaria
amministrazione. Ora mi sembra che il momento sia
giunto. Vi chiedo di poter formare e comandare un reparto
speciale di arditi, pronti a tutto, votati, se occorre, alla
morte.» Quel breve discorso fu pronunciato con voce
uniforme, bassa e aspra, senza che mai gli occhi
abbandonassero quelli del generale. Alla parola morte,
l’intonazione si fece ancora più cavernosa e insieme
aggressiva.
Il generale guardò la punta del sigaro, spostò ancora
qualche carta, poi disse: «Mi compiaccio con lei per
l’aggressività che dimostra. I suoi nastrini e la sua mano,
del resto, mi dicono che lei è coraggioso. Ma credo che la
sua proposta non sia, purtroppo, realizzabile. A parte il
fatto che c’è già in corso un arruolamento di paracadutisti
al quale non si possono sottrarre uomini, i nostri
battaglioni hanno già le loro squadre di volontari per le
azioni più rischiose e difficili. La terrò comunque
presente».
Chiunque si sarebbe arreso a quelle garbate e ferme
parole. Ma il tenente Ferro Maria Ferri non era uscito
dalla sua tenda solitaria per ritornarvi facilmente battuto.
Il suo corpo ossuto s’irrigidì, le mascelle bluastre si
strinsero, gli occhi diventarono acuti e lucenti come
schegge di carbon fossile. Parlò con voce rauca.
«Sapevo, signor generale, delle squadre arditi già
esistenti e dell’arruolamento di allievi paracadutisti per
Tarquinia. Io stesso feci domanda, e solo per questa
zampa rotta non sono stato accettato. Ma quando vi ho
parlato di arditi, non intendevo dire soltanto arditi.» Fece
una pausa, ebbe un breve sogghigno e continuò:
«Intendevo dire qualcosa di più. Dei superarditi, per i
quali ciò che gli altri considerano ardimento non è che
ordinaria amministrazione. Un pugno d’uomini senza ponti
alle spalle».
Il generale, che pure nel 1917 aveva tre volte
attraversato il Piave e aveva sul braccio quattro stanghette
d’argento, restò impressionato. Guardò più attentamente
l’ufficiale che gli stava davanti, tacque un momento, poi
disse: «Non posso prometterle nulla. La sua è una
proposta che va esaminata con cura. Vedremo nei
prossimi giorni».
Ferro Maria Ferri, che stringeva sotto il braccio il
cappello e aveva infilato il frustino nel gambale, stese il
braccio nel saluto romano e uscì. Si allontanò dal
palazzotto del comando senza guardarsi attorno e andò
direttamente nella sua tenda.
Un po’ dagli ufficiali addetti al comando, un po’ dagli
scritturali del quartier generale, un po’ dal Valentini, la
divisione seppe ogni cosa la sera stessa. Il telefonista
Paradossi raccontò che uscendo dall’ufficio del generale il
tenente mostrava i denti come un lupo. Il capitano
Diotaiuti, addetto al protocollo segreto, riferì la
conversazione avvenuta nell’ufficio. Il Valentini, che da
qualche tempo imitava stupidamente l’aria brusca e dura
del suo ufficiale, fece sapere che appena rientrato in tenda
il tenente si era messo a scrivere. Aveva empito due
pagine del suo quaderno marrone, poi, per la prima volta,
aveva scritto due brevi lettere. Aveva quindi mandato
l’attendente a consegnarle a un sottotenente dell’autocentro
che stava per tornare a Tirana con una colonna di camion.
Aveva raccomandato che le lettere fossero subito
impostate con francobollo aereo. Il Valentini non
rammentava esattamente gli indirizzi, ma giurava che
erano destinate a due pezzi grossi.
Si cominciò a parlare molto del tenente Ferri e del suo
gruppo “superardito”. Ne ragionarono gli ufficiali alla
mensa, che intanto si era trasferita in una baracca
appositamente costruita dal genio; ne discussero i
sottufficiali e i soldati addetti agli uffici mentre, sotto le
tende e nelle baracche sparse sul fango, si facevano delle
frittate con le uova avute dai contadini in cambio di riso e
di chinino.
Le opinioni erano diverse. Per alcuni il passo
compiuto dal tenente era sacrosanto: degno di un ufficiale
che i tedeschi avrebbero già fatto generale da un pezzo.
Altri sostenevano che non era questione di arditi o
superarditi ma di armamenti e di vestiario. Qualcuno,
incontrando la disapprovazione pressoché generale, si
azzardò a dire che in un modo o nell’altro, anche
spuntandola coi greci, si sarebbe persa la guerra.
Il tenente Ferro Maria Ferri acquistò, comunque, vasta
fama e molta importanza. La sua invisibile presenza,
dietro il terrapieno fangoso e i roveti rugginosi, cominciò
a essere “sentita” da tutti. Si sapeva che là dietro c’era un
uomo che non rideva alle barzellette antifasciste e che
intendeva mantenersi fedele a un ideale a costo della vita.
Il tenente colonnello Rosini spiegò, una sera, che il
coraggio dipende dagli ormoni e che bastava guardare il
tenente Ferri per capirne l’eroismo costituzionale. Il
maggiore Mangione, impegnato a demolire la piccola
collina di gnocchi, disse che rispettava gli eroi ma, tutto
sommato, li considerava degli scocciatori.
Verso la fine di gennaio, il nuovo fronte, fra il lago di
Pogradec e l’Adriatico, aveva già acquistato una notevole
consistenza. Le divisioni che avevano sostenuto il primo
urto e che la ritirata del novembre aveva semidistrutte,
avevano ricevuto complementi di uomini e di armi. Altre
divisioni erano sbarcate a Durazzo e a Valona. I cannoni
da “149” che si erano addormentati nei magazzini dopo
l’armistizio del ’18, tornarono a barrire fra gli uliveti di
Spilea e i tetri sassi di Lin. Le nostre forze, tuttavia, erano
ancora molto inferiori a quelle nemiche. Gli alpini della
Tridentina si battevano notte e giorno, con le barbe
ghiacciate, sugli speroni orientali del Tomori; i Lupi di
Toscana, i fantaccini sbrindellati della Ferrara e i
bersaglieri infangati fino agli occhi, lasciavano muriccioli
di morti davanti al bivio di Clisura. Negli ospedali delle
retrovie, migliaia di feriti si addormentavano alla voce
monotona di Giovanni Ansaldo, zio pacato e giudizioso
della guerra.
Fu proprio in quei giorni che il “progetto Ferri” entrò
nella sua fase conclusiva. Vi fu al comando del corpo
d’armata un rapporto allargato a cui parteciparono capi di
stato maggiore, aiutanti e comandanti tattici. Si sapeva che
qualche giorno prima erano arrivate da Roma
sollecitazioni importanti, anche se non ufficiali, a tenere
nella massima considerazione le proposte del tenente
Ferri, la cui posizione sul fronte doveva essere considerata
del tutto speciale. Durante il rapporto allargato, il Ferri
illustrò più ampiamente la sua idea, scese ai particolari,
mosse sulle carte topografiche, con grande sicurezza, il
suo indice secco sul quale la nicotina era scura come
tintura di iodio. Ribatté, asciutto, le osservazioni. Ascoltò
le critiche con sogghigni da lupo. Ogni tanto si prendeva
la sinistra con la destra e la posava bruscamente sulla
scrivania come vi avrebbe posato una rivoltella.
Era presente, fra gli altri, un console della milizia,
certo Bocchi, che da giovane, prima della marcia su
Roma, aveva fatto il barbiere in una città delle Marche. Un
buon diavolo, alto e grosso, dai capelli grigi, che non
aveva rinunciato al suo bel cappotto nero dai bottoni
dorati. Prese la parola verso la fine del rapporto. «Mi
sembra che insistere nell’arditismo e addirittura nel
superarditismo,» egli disse «sia offensivo per i nostri
soldati, e specialmente per la nostra milizia, la quale è
volontaria e, quindi, già ardita di per se stessa. Non siamo
nell’altra guerra. Oggi la truppa ha raggiunto un grado di
combattività ben più elevato e cosciente.» Ferro Maria
Ferri, che durante tutta la riunione aveva mantenuto
l’atteggiamento rispettoso, sì, ma duro e appuntito di un
subalterno costretto a mordere il freno, scattò avanti come
un serpente d’acciaio: «Qui non si tratta» egli disse,
spingendo le parole fra i lunghi denti irregolari, «di fare
della propaganda fascista. Sono stato in Africa e in
Spagna. Ho avuto la tessera numero dieci della milizia, ho
dormito con Teruzzi e spartito la sigaretta con Galbiati.
Qui si tratta di riscattare il 28 ottobre 1940 con azioni che
rammentino ai borghesi italiani il 28 ottobre 1922. Gli
angolini vanno ripuliti dappertutto, qui come a Roma».
Seguì un silenzio un po’ imbarazzato. Un tenente
colonnello degli alpini strinse gli occhi e si accarezzò la
barbetta bianca protesa in avanti. Il generale alzò gli occhi
azzurri e disse semplicemente: «Tenente non esageri». Il
console Bocchi, con le orecchie rosse come papaveri,
brontolò qualche parola indistinta.
Ferro Maria Ferri lasciò il comando mezz’ora dopo
l’autorizzazione a formare un gruppo di cento, al massimo
centocinquanta “superarditi” da impiegarsi in azioni
straordinarie e di altissimo rischio. Neppure la vittoria
ottenuta cancellò dal viso magro del tenente i solchi
profondi scavati dallo spettacolo della quotidiana,
ordinaria amministrazione.
Da quella sera, Ferro Maria Ferri cambiò vita.
Abbandonò la tenda in cui aveva trascorso quasi due mesi
e lasciò libero l’attendente Valentini, il quale, del resto,
non fu affatto scontento di allontanarsi da una situazione
che stava diventando davvero pericolosa. Lo spilungone
tornò al suo reparto col libro pornografico francese che il
tenente gli aveva donato.
A bordo della topolino mimetica che gli era stata
assegnata, il tenente cominciò a muoversi nelle retrovie,
fece frequenti puntate a Tirana, si spostò fra Elbassan,
Berat e Valona. Talvolta si spingeva avanti, fino ai
comandi di battaglione, risalendo con le mascelle strette le
terribili mulattiere del Tomori. Andava così reclutando i
suoi uomini. Li voleva scegliere personalmente, uno per
uno, guardandoli negli occhi. Tutti, ufficiali, sottufficiali e
soldati, dovevano essere come le dita di una stessa mano
di acciaio. Si seppe che interrogava i candidati in modo
brusco, quasi crudele. Preferiva gli orfani, quelli che non
avevano affetti, che consideravano le donne una manica di
p…, che organizzavano scorrerie nei villaggi per prendere
a calci i pastori e tornare con capretti ed agnelli. Quelli
che chiamavano «giargianesi» gli albanesi tremanti per la
malaria e gialli di pellagra, che schiaffeggiavano i
montanari che non sapevano l’italiano. Regolandosi a
questo modo, il tenente mise insieme il suo gruppo
speciale. Si prese come aiutante un anziano capomanipolo
della milizia, certo Mattarella, che nel 1921 aveva
ammazzato un capostazione e poi se ne era messo in testa
il berretto rosso. Scelse come sottufficiale di fiducia un
caposquadra di quarant’anni che la sera dopo il suo arrivo
in Albania, nel dicembre, aveva smaltito una tremenda
sbornia in una casa di tolleranza, nella quale si era
addormentato dopo averne pugnalato tutti i sofà.
Una mattina, verso la metà di febbraio, il tenente
Ferro Maria Ferri schierò i suoi centoventi “superarditi”
sul piazzale fangoso davanti al corpo d’armata. Tutti, come
il comandante, avevano i teli-tenda a mo’ di mantello e gli
elmetti assicurati dai sottogola ben stretti sotto la
mascella. Ognuno era armato di un moschetto “38”, con la
baionetta a cerniera e aveva al fianco un pugnale. I
graduati avevano anche alcune bombe appese alla cintura.
Ma l’arma più temibile erano quei duecentoquaranta occhi,
lucenti, fissi, implacabili.
In assenza del generale, il tenente Ferri presentò la sua
forza al colonnello capo di stato maggiore, il quale girò fra
le file a dare una occhiata. I “superarditi”, al suo
passaggio, si limitavano ad alzare il mento e a stringere
più saldamente le armi. Tutto dava l’impressione di una
temibile forza. Da lontano, addossati ai muri o affacciati
alle finestre, i comuni soldati guardavano timidamente la
scena.
Vi furono brevi discorsi. I pugnali lampeggiarono
freddamente nella luce grigia come pesci nella rete. Vi fu
un triplice grido che mai prima aveva risuonato fra le
truppe: «Atene, Savoia, a noi!». Subito dopo i
“superarditi” di Ferro Maria Ferri montarono su tre
camion Lancia 3 Ro, e si allontanarono in direzione
opposta al fronte. Li seguivano due piccoli autocarri,
carichi di quei generi straordinari di conforto che il
tenente Ferri aveva facilmente ottenuto per i suoi votati
alla morte. Tre barili grossi di vino. Dieci casse di latte
condensato. Un bariletto di cognac e un caratello di anice.
Sei casse di sigarette, tutte trestelle. Mille cartoline in
franchigia. Quattro casse di marmellata, due di cioccolata
(una al latte e una amara), tre di pasta lunga speciale, una
di salsa di pomodoro specialissima per mense ufficiali,
due cosce di bue congelato fasciate in tela di sacco. Il
tenente Ferri, che aveva preso posto accanto all’autista del
primo camion, aveva anche in tasca una discreta somma
concessa ai morituri per pagarsi, a turno, nelle case chiuse
di Elbassan e di Tirana, le estreme esperienze amorose.
Quando la colonna dei “superarditi” fu scomparsa
dietro l’ultima curva, diretta a Cucarasi, un villaggio trenta
chilometri indietro, dove quei coraggiosi si sarebbero
riposati, in appositi distaccamenti, fra un colpo di mano e
l’altro, il caporal maggiore Capon, alpino del battaglione
Verona, sceso dai monti per fare la spesa, disse: «Poveri
fioi, i xe più de là che de qua. Speremo che almeno i passa
alegri gli ultimi dì».
E dopo aver caricato sul suo mulo i generi prelevati
alla sussistenza (meno il vino e il cognac, venuti a
mancare per la distribuzione straordinaria ai superarditi),
riprese la sua strada nel fango, verso la prima linea.
Da quel giorno, fino alla fine delle operazioni contro
la Grecia, si ebbero poche e confuse notizie del tenente
Ferro Maria Ferri e dei suoi uomini. Si seppe che i
centoventi “superarditi” (che tutti, ormai, chiamavano
semplicemente «i votati») stavano nei loro baraccamenti a
Cucarasi, sotto tetti coperti di doppio cartone catramato,
da cui saliva continuamente il fumo azzurro delle cucine e
delle stufe. Si seppe che ogni tanto, a Tirana e a Elbassan,
perfino a Valona e a Durazzo, le ragazze dei postriboli
venivano assaltate da quei valorosi che prima di mordere
il fango volevano provare per l’ultima volta la voluttà. Gli
ufficiali del comando raccontarono che tre o quattro volte
il tenente Ferri era stato interpellato per qualche azione
speciale: annientamento di nidi di mitragliatrici, puntate
dietro le postazioni in muratura dei tiratori del Pindo,
isolamento di avamposti fastidiosi. Ma ogni volta, dopo un
rapido sguardo alle carte e alle fotografie prese dagli
osservatori aerei, il tenente aveva fatto una smorfia di
disprezzo e aveva fatto capire che si trattava di imprese di
ordinaria amministrazione, per le quali erano sufficienti i
comuni arditi di battaglione e di compagnia. Che piuttosto
si mandassero ai suoi uomini rifornimenti di vino, di
marmellata, di cognac e di sigarette, affinché i loro ultimi
giorni trascorressero meno tristi e monotoni. E si passasse
parola alle ronde in servizio serale a Elbassan e a Tirana di
chiudere un occhio, quando i «ragazzi di Cucarasi»
facevano un po’ di baccano nelle osterie e nelle case di
amore. Quell’amore che molto presto non avrebbero
assaporato più.
Passarono così le settimane. Pioveva meno. L’impeto
dei greci diventò più debole. Il fango cominciò a ritirarsi
lungo il Tomorezza e attorno alla terribile quota “731”. Il
vento che per tre mesi era soffiato incessantemente dal
nord, torturando le vedette della Tridentina, della
Cuneense e della Pusteria, cominciò a farsi più fiacco e
meno frequente. Verso la metà di marzo, Mussolini venne
a dirigere personalmente una battaglia che avrebbe dovuto
«spezzare le reni» al nemico. Ma dopo quattro giorni di
assalti sanguinosi e inutili, migliaia di morti, decine di
migliaia di feriti, si dovette constatare che la presenza del
duce, primo maresciallo dell’impero, non era sufficiente a
piegare la resistenza dei greci.
In quei quattro giorni, centinaia e centinaia di alpini e
di fanti, medicati alla meglio negli ospedali da campo,
operati sommariamente dai piccoli centri chirurgici,
vennero portati indietro, con ogni mezzo, anche nel settore
del Tomorezza. Le scosse della strada sassosa, piena di
buche, facevano spasimare quei poverini; i quali, passando
davanti ai baraccamenti di Cucarasi, tendevano le orecchie
ai canti guerrieri dei “superarditi” di Ferro Maria Ferri. I
canti a squarciagola un po’ ubriachi di chi non ha più
speranza davanti a sé, né ricordi alle spalle.
«Poveri fìoi» si dicevano i feriti, movendo a fatica le
labbra pallide. «I xe più de là che de qua. Fan ben a star
alegri i so ultimi dì.» Erano dunque tredici anni che non
udivo la voce di Ferro Maria Ferri, quando la sentii uscire
dalla folla milanese che mi schiacciava sul tram. Quella
voce era sempre la stessa, sorda, aspra, piena di soffocato
rancore. Cercai subito di vedere l’antico “superardito” del
Tomorezza, ma non vi riuscii. Lo vidi soltanto quando
scese dal tram, una fermata prima di corso Sempione.
Abbandonò il predellino come un paracadutista che si getti
risolutamente nel vuoto. Intravidi uno scorcio del suo viso
tormentato, ombreggiato dalla barba non rasa. Mi sembrò
di scorgere, sulle orecchie asciutte e sporgenti, un
accentuato biancore di capelli. Aveva indosso un
impermeabile stretto alla vita, abbastanza sudicio al collo.
Serrava sotto il braccio sinistro una vecchia borsa di pelle.
Mentre si allontanava dal tram che riprendeva la corsa,
notai che sulla sua mano sinistra il guanto nero non c’era
più.
“Si ridà vita a ciò che è morto – il fantasma del fascismo”
e ancora
“Non è inutile rilevare che i partiti di destra e, insieme, di sinistra – a partire dal secondo dopoguerra – hanno contribuito a forgiare le diverse identità politiche attraverso una doppia paura: …. la paura dei fascisti senza che ci fosse il fascismo.”
Mi perdoni Fanizza, lei ritiene che oggi, e perfino nel dopoguerra, il fascismo fosse un’esperienza morta e inesistente? Cioè che l’antifascismo fosse una specie di pratica esoterica?
Mi pare che questo tipo di affermazione vada contro ogni evidenza; anche volendo ignorare tutte le interessantissime analisi che associano il movimento 5 stelle ad una retorica fascistoide, pensare che il fascismo come idea e pratica sia uscito dalla contemporaneità, e che lo fosse già nel dopoguerra (da quando più precisamente secondo lei?), è, con tutto il rispetto, inconcepibile.
Forse lei confonde il fascismo, con le camicie nere ?(e anche quelle non sono mancate)
Il blocco sociale che si era riconosciuto nel totalitarismo fascista nel secondo dopoguerra continua ad esistere e di fatto viene rappresentato dalla Dc. Nondimeno la Dc, a fronte dell’anima nera di gran parte del suo elettorato, ha comunque garantito le libertà democratiche. Si può dire che ha usato la candeggina nei confronti del suo elettorato. D’altra parte il Msi – in quanto erede del Ventennio – non ha mai rappresentato un vero pericolo: alle elezioni politiche, almeno fino alla fine degli anni sessanta, non è mai andato oltre il 5%..
Visione un po’ minimale della storia italica, e dell’espressione ‘fascismo’. Il fascismo è anche una mentalità, un modo di ragionare, non solo un’epoca storica, c’è poi da tener conto che viviamo in un paese dove un tizio che si faceva fare i decreti legge ad hoc da Craxi ha governato per quindici anni, associando se stesso a mussolini…che l’idea dell’uomo forte, del singolo che comanda, della personalità carismatica fa parte di un senso comune molto più ampio di quello espresso storicamente dal msi, essendo nel dna di tanta piccola borghesia nostrana, che l’idea che si viva in un’epoca dove le ideoogie sono morte, sottende quella assai discutibile di primato della tecnica, in questo senso restano lungimiranti alcuni saggi di Pasolini sui nessi fra la parola fascismo e il sistema economico in cui viviamo…Sul piano della storia dei partiti politici, a mioa vviso non esaustivo, la domanda è: esistono enssi fra il pdl, la lega, e la parola fascismo? O no? Sul piano storico tout court, siamo davvero sicuri che la paroal fascismo si esuarisca nel solo ventennio italiano, e nel msi? Mi pare un po’ poco…
Due cosette su M5S e la cornice tecnologica di riferimento:
http://www.keinpfusch.net/2013/04/i-social-cambiano-o-meno-la-situazione.html
http://www.keinpfusch.net/2013/04/la-democrazia-privatizzata-di-grillo.html
“Nondimeno la Dc, a fronte dell’anima nera di gran parte del suo elettorato, ha comunque garantito le libertà democratiche”
None, la DC delle libertà democratiche ha garantito giusto quel che bastava ad impedire una guerra civile coi comunisti.
Per il resto giova ricordare i proiettili della celere di Scelba, i tintinnar di sciabole degli anni sessanta e le bombe degli anni settanta.
La strategia con cui si è marginalizzato e distrutto il dissenso e si è costretto il PC alla compromissione storica. Il bastone delle leggi speciali e dei fiumi di eroina e la carota delle assunzioni clientelari degli anni ottanta.
20 anni di Berlusconi hanno prodotto questa tragica illusione ottica che riabilita la DC agli occhi di molti sinistroidi. Ma Berlusconi non ha fatto mettere bombe in piazza. Non ne aveva bisogno, d’altronde, ci avevano già pensato altri. La DC, appunto. Berlusconi non viene dal niente, e nemmeno Craxi.
Che poi le “libertà democratiche” sono in genere libertà di poco conto, hai diritto di dire quello che vuoi, se va bene, ma nel frattempo chi ha il diritto di manovrare manovra, checchè tu ne dica. Un pò come succede nel blog di Beppe Grillo, che non ha inventato niente di niente. E mentre noi parliamo di Berlusconi una rivoluzione tecnologica indipendente da lui cambia le nostre vite molto più di quanto lui abbia mai pensato o voluto.
Che poi le continuità tra stato fascista e repubblicano mica son state poche, a partire dall’amnistia di Togliatti, ma basterebbe ricordare che il codice penale vigente è ancora quello fascista, e anche i nomi dei salotti buoni di finanza ed economia non cambiarono così tanto, e sono finanza e industria che hanno forgiato questo paese, che hanno messo sul piatto il peso di un potere materiale in grado di rendere inattuabile parti consistenti della costituzione del 1946.
Ciò detto, il fascismo rimane il fascismo, mentre l’autoritarismo insito nel M5S è di natura diversa, meno violenta fisicamente, ma potenzialmente più pervasiva. Ha più a che fare con l’anarcocapitalismo americano che col fascismo italiano, col benevolo dittatore a vita (http://it.wikipedia.org/wiki/Benevolo_Dittatore_a_Vita), che col Duce.
(Non so perchè, ma wordpress mi inghiotte il commento nel vuoto atemporale, non ho capito se a voi arriva, perciò insisto e insisto)
Dal Manifesto di oggi:
“Per il momento quella del M5S è l’unica posizione degna di nota su una guerra ultradecennale, evidentemente persa e in cerca di una via d’uscita che meriterebbe un po’ più di attenzione e trasparenza: quando e come il ritiro, con che tempi, con che spese. Soprattutto decidere se investire finalmente nel civile, non più nel militare. Per ora Sel sta lavorando a una sua mozione, ma c’è chi teme che sia la difficile convivenza col Pd su certi temi a mettere il freno alla sinistra dello schieramento.”
Mentre alcuni compagni passano per l’ennesima volta al vaglio il passato e le sue ombre, altri compagni cercano di guardare al presente e al futuro.
il futuro il futuro il futuro…
l’impronta di un paesaggio cantiere lasciata dal sigillo del dominio della tecnica, per citare uno che compagno non fu mai, anzi.
ciò di cui si parla nei due articoli linkati sopra (ma quello è il presente, il futuro è qui: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/29/computer-viventi-costruito-primo-circuito-a-base-di-dna/546158/)
il futuro nasce dal passato, attraversa il presente: attenti che a guardare troppo avanti qualcuno non vi pigli alle spalle.