Gobetti, i padri, il cimitero
di Helena Janeczek
Lunedì 22 aprile mi arrampicavo ignara per il cimitero Père Lachaise alla ricerca di una tomba tra le decine di migliaia di coloro che dormono lassù sulla collina. Il cielo era sereno, l’umore in ripresa, però a fatica. Scarpinando tutto il giorno per Parigi, mi capitava comunque la fortuna di perdermi la strigliata del Presidente al Parlamento e al Partito, la scena perfetta di un paese dove i padri soffocano i figli e ancora più i nipotini per poi consegnarsi come scolaretti volontari all’autorità riesumata di un quasi novantenne. Quel che stava succedendo lo sapevo.
Le pacificazioni, con o senza virgolette, contengono sempre un corollario di violenza e arbitrio, come i conflitti dai quali sono sgorgate. Quest’ultima, nella storia della Repubblica italiana, appare una delle più indegne; ripetizione decrepita e sterile di alcuni processi del passato, ripetizione forse nemmeno meritevole di essere chiamata restaurazione.
Avrei sempre voluto andare al Père Lachaise, ma non ci ero mai riuscita. Ero delusa. Non me lo immaginavo così affastellato, piuttosto malcurato, con tutte quelle tristi tombe di famiglia a misura di cabina balneare che oscuravano la vista sulle sepolture singole. Non mi ero immaginata che avrei potuto perdermi: non solo per via dell’estensione, ma a causa delle strade circolari, quasi labirintiche, sebbene all’entrata avessi comprato una mappa a 2.50 euro.
“Quelle-est vôtre langue, madame?” mi aveva chiesto il tizio che le vendeva. Fa lo stesso, gli ho detto. Ha insistito, ripetuto la domanda, e io mi sono irrigidita. “Le mie lingue sono più di una”, ho risposto per principio e per dispetto.
La mappa pullulava di nomi sacri. Non avevo molto tempo, e non avevo voglia di cercarli. Sono passata in prossimità di un punto segnato in grassetto che diceva Balzac e ho pensato che bastava amarne i romanzi, che fosse quello il nostro unico vero legame.
Poi ho visto un puntino piccolo, vicino alla mia destinazione, che diceva: Gobetti.
Era stata sufficiente una bronchite con complicanze cardiache a prevenire il lavoro sporco del fascisti. Eppure Piero Gobetti non lo percepivo come un martire; piuttosto come il faro di un’umanità che in venticinque anni era stata capace di seminare intelligenza, rigore (e anche levità ironiche), vitalità ormai pressoché inimmaginabili.
Allora mi sono aggirata per un po’ in mezzo al settore 93°, a lato di Avenue Patchod, cercando l’orientamento di riquadri divisori riportati nella mappa, però in realtà sepolti dalle tombe. Ho strisciato accanto a sepolcri vietnamiti che evocavano tempietti, ma Piero Gobetti non l’ho trovato.
Bastava il pensiero. Basta sicuramente per ritrovare, in vece di una tomba, quel bandolo nel labirinto cimiteriale che mi permetteva non arrendermi alla sua immagine e somiglianza (domanda: che Padre era quel Pére Lachaise?).
Poi c’è anche una poesia breve, sentita spesso sfoderare con elegante arte declamatoria (e provocatoria) dal suo autore, Franco Buffoni.
Le costituzioni, recita il mio vecchio
Dictionary of Phrase and Fable,
Possono essere aristocratiche o dispotiche
Democratiche o miste.
Ecco, per te che non prometti
Di perseguire l’imperseguibile
– La felicità degli uomini –
Vorrei non pensare davvero a quel “mixed”
Che ricade sugli effetti salvando i presupposti:
Di te che prometti il perseguibile
Vorrei restasse il lampo negli occhi di Gobetti,
Già finito per altro in poesia.
Passiamocelo, quel lampo costituzionale, in una staffetta di generazioni alternative.
mi sono commosso,grazie helena
c.
Sentite,ma allora Gobetti è muort’ inutilmente?
Nun ce simmo ‘mparate niente d’e parole
e l’esempio ‘e chist’ommo? Si dice ca ‘o popolo
tene cose cchiù nicessarie ‘a penzà. Si, è overo.
Ma pure ‘na vota ce steva a famme e a miseria.
E ccose nun songo maie accussì luntane.
Si ce pienze, allunttanà ‘e ccose, è n’arte:
ll’arte di ingannare a chi nun tene sant’ ‘mparavise.
Ma ‘o popolo tuocchece ogni cosa ma mai ‘e sante.
Annanzo ‘a ll’uocchie vedo ‘a Mussolini:
fa ‘a vaissa dint’o Parlamento cu ‘a
Boldrini, dichiaranno: Mò vi dò una chicca.
Sarà eletto Prodi con i voti di Cinquestelle.
Ma allora Gobetti è muort’ inutilmente
si suppurtammo ‘na ‘nzevata fascista
comm’è chesta chiazzera ca se vanta nun sulo
‘e fà pronostici sbagliati, ma se vanta di avere
l’orgoglio del suo cognome: ‘o nomme ‘e un fucilatore.
Fra le tante cose e persone che non conosco c’era pure Gobetti…grazie di avermelo fatto conoscere, Helena!
Un paio d’anni fa ci andai anch’io. D’inverno. Un gran freddo. La tomba è appartata, esiliata persino nel cimitero. Alla fine del lato nord, se non ricordo male; accanto al monumento per le vittime del disastro aereo Concorde (sempre se non ricordo male). Una cosa positiva: sta agli antipodi rispetto al buon Jim Morrison, il che consente un omaggio in santa pace. Comunque perdersi cercando la tomba di Gobetti è un gesto estremamente etico, forse ancora più che trovarla.
Porca miseria, avresti dovuto farmi fuochino, fuocherello, Davide.
Transit: ma se uno pubblica uno sforzo messo in versi, comunicarvi l’autore (nome e cognome) pare brutto? Non è obbligatorio, eh.
E a tutti grazie…
Helenù, chisto è nu rialo pe’ tte.
Mi chiamo Giorgio Guaglione … annummenato Capa di Bomba và ‘n terra e nun se rompe, ma pure Capa di Vacca Bomba va ‘n terra e nu se spacca; sono nato a sette anni dalla fine della guerra. Si potrebbe chiedere quale guerra, di quale anno insomma. Una guerra, la guerra è per sempre. ‘A guerra è nu juorno ca nun fernesce mai. ‘A guerra è ‘o regala eterno dei ricchi donano ai poveri. E i poveri sono convinti che la guerra ci vuole: – Siamo in troppi – , dicono i poveri.
Sui giornali c’era scritto che la guerra era finita. E anche alla radio, il parlatore diceva che la guerra era finita. Si, fernuta, per modo di dire. ‘A guerra è comm’a sfaccimma: nun fernesce mai. ‘E femmene escono incinte pecchè ll’uommene stanno arrapati e accussì nascono le craature, sarebbe a dicere: Braccia per la fabbrica, la disoccupazione e pirciò p’a guerra. ‘A guerra è ‘nu bisiniss comm’a droga: guerra e droga, fatica e disoccupazione, droga e guerra.
Certo, poteva essere così,che la guerra fosse fernuta, ma per nei vicoli addò ‘o mare è ‘na malatia, per noi, la guerra continuava e non era pe’ niente finita. Continuava perché i nostri padri e i fratelli grandi e gli zii non avevano lavoro. La mattina si svegliavano e per arrangiare andavano in cerca di qualcosa. oppure se ne stavano sotto al bar o nella piazza o agli angoli del vicolo. I grandi parlavano e sognavano a occhi aperti, sapendo che l’unica abbondanza erano i sogni e la miseria. Ma per non morire di fame si prestava il fianco e il sorriso agli sconosciuti e ai preti: in chiesa nascondevano sempre qualcosa da mangiare. Molti si inginocchiavano e pregavano. La preghiera apriva qualche porta perché quando si ha fame, Dio è uguale al Diavolo.
Quanno ‘e surdate straniere e taliani veneveno ‘ncopp’e Quartiere Spagnoli e abbascia ‘a Marina, nuje pate e mamma ‘e figli, acalanno ll’uocchie dicevamo : – Và, piccerè, vuttate. Và, guagliò, accumpagna a soreta – E giranno a capa, chiagnevano. ‘O dolure d’a carne e d’o sango era friddo e cavero dint’o stesso mumento. A sera a tardi, redenno e pazzianno, si metteva ‘o piatto a tavola. ‘O telaro d’a porto steve sempe apierto e chinque passava, chiunque d’a famiglia diceva: – Trasite, mangiate cu nuje; beviteve ‘nu bicchiere ‘e vino – .
Sapevamo che il giorno dopo, la mattina presto, avremmo visto ancora la fame nei nostri occhi, ma invitare parenti, amici e conoscenti alla nostra tavola ci sembrava una cosa di bene, di dignità, anzi normale.
Ringrazio anch’io Helena Janeczek per quest’omaggio a Piero Gobetti (uno dei tanti colpevolmente dimenticati nel nostro Paese).
Approfitto per ricordare anche i nomi e l’opera dei fratelli Rosselli.
Una piccola gag. Nelle mie frequenti ma brevi visite in Francia non ho avuto molte occasioni per confrontarmi davvero con il famoso sciovinismo francese. Sapevo che c’era ma non mi capitava di imbattermici nelle persone con cui avevo a che fare, gentilissime.
Qualche anno fa vado al Peré Lachaise. Fra le altre cose voglio visitare la tomba del filosofo Alain (al secolo Emile-Auguste Chartier). Alain è una delle mie piccole ossessioni. Per me è stato importante, da quando ho scoperto i ‘Cento e uno ragionamenti’ nella bella edizione Einaudi curata da Sergio Solmi. Oggi possiedo i quattro volumi a lui dedicati della Pleiade. Ai suoi tempi (è morto nel 1951) era piuttosto famoso; oggi è al massimo ricordato come maestro di Simone Weil.
Comunque, sono lì al Lachaise, cerco e non trovo. So qual’è la divisione in cui dovrebbe trovarsi ma niente. Mentre vago fra le tombe noto quella di Gobetti e dei Fratelli Rosselli; nella divisione accanto quella di Modigliani. Però. Ma Alain niente.
A quel punto un signore mi si rivolge in francese: Monsieur, state cercando la tomba del filosofo Alain? Io, comprensibilmente stupito (ma ce l’ho scritto in faccia, che cercavo proprio lui?), dico di sì e il signore me la indica. Guardo, porgo i miei laici omaggi, fotografo. Poi chiedo al signore: ma come ha fatto a capire che cercavo proprio Alain (un nome nemmeno troppo familiare anche per i francesi oggi)? Ma perchè non c’è nessun altro di importante in questa divisione! mi risponde lui. Ah, faccio io. Grazie comunque…
Gobetti e i Rosselli non sono importanti, dal punto di vista di un francese colto e gentile…