Il 25 aprile di mio padre
di Davide Orecchio
C’è una casa nel corso del tempo dove un uomo non parla, un bicchiere di whisky sta sulla libreria scura, una sigaretta accesa sta sul bordo dello sgabello, un televisore trasmette gli anni settanta, un bambino squaderna sul pavimento il libro di Gianni Rodari, una palla rotola sul parquet scheggiato, un gatto entra dal terrazzo, centinaia di volumi crescono negli scaffali fino al soffitto: di letteratura, storia, teatro, poesia, sociologia, denuncia, compromesso, reazione, rassegnazione, rivoluzione e provocazione.
Ma il libro numero uno è lui, il signore in poltrona.
Quello coi pantaloni di fustagno e il golf da marinaio?
Esatto. Lui è il libro in un’altra lingua, quella che non conosci.
Non farti illusioni. Non dirà nulla neanche oggi.
Lo so. Ma ci provo lo stesso.
“Che vuol dire che eri partigiano?”
(silenzio)
“Che cos’è la Resistenza?”
“E’ la guerra.”
“E la guerra cos’è?”
“Uno schifo.”
Che ti avevo detto? Non parla molto.
– II –
Adesso s’apre una finestra e al giorno segue la notte, il re distratto dei conti che non tornano fa l’unica cosa che sa: passa, si lascia rimpiangere e l’uomo non ne ha più sessanta ma settantaquattro e il bambino ne ha venti e conversano in una fessura tra la moquette, la nicotina, l’intonaco che si distrae e sgretola, la porta di compensato, la miscela per il ciclomotore, la sciatica dell’anziano, il freddo alle ossa, l’ulcera domestica, l’illusione della famiglia ed ecco che qualcuno domanda: “Cosa studi all’università?”
E’ l’uomo. L’ha chiesto l’uomo.
Brava. Il bambino risponde: “La storia” e “fai bene”, commenta l’uomo, “la storia è importante” e la sigaretta ora è un mozzicone che annerisce il legno, il gatto non c’è più, il televisore trasmette gli anni novanta, l’uomo a volte sragiona, non ricorda, scende le scale, va al bar, cade, si rompe un femore, lo mettono su una sedia a rotelle, cambia casa, ha paura di camminare, guarda Berlusconi in tv e s’impressiona, si ammala, guarisce, si ammala di nuovo mentre il bambino parte, ritorna, parte ancora e un giorno s’incontrano circondati dal bianco.
L’uomo giace in un letto bianco che è enorme.
Ti sbagli. Il letto è normale. È lui che è diventato piccolo.
È vero. Sembra che una strega gli abbia fatto un incantesimo. Guarda com’è magro! Il bambino si appoggia a una parete e saluta l’uomo, che tra poche ore morirà. Muore verso l’alba e quindi ciao.
– III –
Su questo muro è appeso un diploma in Resistenza. Il diplomato era mio padre, fiero dell’attestato e se lo teneva vicino. Vuoi descriverlo tu?
Non posso. La tua malinconia mi ha abbassato la vista.
Un disegno di Renato Guttuso. Il volo di una ragazza. Veste di rosso. Si aggrappa a una bandiera tricolore. Più sotto appaiono parole e aggettivi che letti tutti insieme dall’inizio alla fine dicono…
Vedi almeno la medaglia e le firme?
?
Se dici che ci sono, mi fido.
Stava nei Gap di Roma.
E non ti ha mai raccontato nulla. Forse ponevi le domande sbagliate.
Ho trovato una storia in un vecchio libro. Il tre marzo del 1944, di fronte alla caserma di viale Giulio Cesare, alcune donne romane chiedono la liberazione di compagni, figli e fratelli presi dai nazifascisti. Una di loro, Teresa Gullace, mentre cerca di parlare col marito detenuto nel carcere: la uccide un colpo di pistola. Pallottola nazista. Hai capito di cosa sto parlando?
Certo. E’ uno degli episodi più noti dell’occupazione. Ispirerà Roma città aperta di Rossellini e il personaggio interpretato da Anna Magnani.
I partigiani decisero di reagire. Leggi qui:
«Il Comando Militare
del Partito Comunista
predisponeva
tempestivamente
un attacco di sorpresa
da parte dei GAPcentrali
diretti da Mario Fiorentini
e Franco Calamandrei.All’azione
presero parte anche
il GAP della I zona,
comandato da Alfredo Orecchio,
e con compiti di copertura
quello della II zona
di Trastevere,
comandato da Mario Carrani»
(Lorenzo D’Agostini e Roberto Forti,
Il sole è sorto a Roma. Settembre 1943, Roma, 1965, p. 211).
Va bene. Mi hai convinta. Il tuo eroe, però, non ha voglia di vantarsi. Perché non lo lasciamo in pace?
Chiamerò un amico. Gli chiederò di riporre il faldone, sigillare la busta, inscatolare la vita rinata dalla polvere: nella polvere.
E lui lo farà?
– IV –
Cosa direbbe se potesse parlarmi, ora?
“Ti sei mai sentito
in colpa?
Hai mai avuto
dieci anninel fascismo,
vent’anni
nel fascismo?
Senza libri in casa.
Senza
democrazia.Sei mai stato
un poeta?
Sei mai nato
fascista?
Ti sei mai rivoltato
contro te stesso?
Ti sei mai
partorito?
Gravido di te
per metterti al mondo
nuovo
e affiorare
dal liquido amniotico
diverso
arrabbiato
spaventato
nudo e in cerca
di altri padri.
Per gettare via
una divisa.
Hai mai desiderato
assassinare?
Sei mai stato
arrestato?
Sei mai stato
clandestino?
Ti sei mai dovuto
scusare
per essere nato
nel regime?
Discolparsi di essere stato
giovane,
redimersi,
convincere.
Che stanchezza!
Non ne posso più.”
La firma di mio padre sul suo certificato di Resistenza non si vede quasi, è rossa e stinta. Da sempre.
Solo perché so che c’è, posso vederla.
https://youtu.be/-1LO_Zdz4fU
Firmò col rosso. Gli hai mai chiesto il motivo?
No.
E’ un gesto incomprensibile. Io avrei usato il nero.
Camuffò il nome nell’inchiostro sbiadito. Si nascose tra la carta, il colore e il vetro. Nessun grassetto.
Tu cosa pensi? Non si sentiva all’altezza della storia? Era troppo delirante?
La causa era il sospetto, immagino, nello sguardo degli altri; che aveva infettato il suo. Ma, per quanto autografasse con l’inchiostro simpatico, non poteva mica dileguarsi. L’Italia l’aveva liberata anche lui. Ne andava fiero. Il diploma era prezioso. In una casa lo teneva appeso accanto al letto. Si addormentava vicino alla medaglia. L’atto della seconda nascita, testimonianza del giorno in cui si mise al mondo, presidiava il suo riposo.
Con una firma invisibile, che sapeva solo lui. Forse desiderava presente e futuro. Gli aveva fatto davvero schifo combattere, inseguire, scappare, nascondersi, temere.
Insomma la guerra.
Sì.
Gli aveva fatto schifo.
Sì.
– V –
Il 25 aprile di mio padre
I giornali, i compagni, l’abito migliore. Ha letto, ha parlato, indossa. Esce. Mio padre. Non ancora mio padre. Un uomo più giovane di me. Non ha trent’anni. Ne ha ventinove.
[Nel ripensarlo o riscriverlo io sono il vecchio e lui è il giovane. Perché oggi sono più vecchio di lui quel giorno. Dovrei essere il saggio, e lui il selvaggio. E nel mio pensiero o scrittura che lo resuscita, divento il padre e lui il figlio. La sua resurrezione nella mia riscrittura, nella mia scelta paterna di concepirlo e rimetterlo al mondo: sulla pagina, nel pensiero, non per sempre; solo per un altro po’.]
Lo guardo: vincitore, libero, fuori dall’intestino della guerra civile. Non è il mio eroe. Non m’interessano gli eroi. Sono innamorato di questa storia, una storia vera. Via Veneto. Siede al caffè. Conversa col giornalista famoso. Il futuro, il lavoro, l’eiezione del fascismo. Provano a rubare profezie l’uno all’altro, dalle pupille. Ora passeggia fino al Tritone. Incontra un amico e festeggia con lui. Ora offre da bere a un’amica che dentro la Galleria Colonna con candore gli chiede: “Cosa fai stasera?”
Ha un impegno. Il cotone della primavera e le gonne al ginocchio. Le gonne di lana fresca, i comitati, le pietre scorticate, i frantumi dell’anno zero. Cammina verso Campo Marzio. Oltre. Attraversa il Tevere. Entra nel quartiere sabaudo. Varca un portone. Sale due piani di scale. Una donna gli apre. Il primo bacio. L’appartamento. Due bicchieri di vino. Un altro bacio. Ride e ascolta ridere. (Ridere è un atto di fiducia: la donna mostra i denti, le labbra, il palato.) Sul divano. Accolti dal velluto. Il silenzio. Le sfila via le calze. Slaccia la camicia. Solleva la gonna. Farà l’amore fino a domani.
Non è andata così!
Ti sbagli. Non vedi che l’ho già scritto? Ormai è successo.
– VI –
Potremmo calarci negli anni. Accorgerci ad alta velocità della vita. Dieci, venti, trenta, sessant’anni dopo. Snobbare Praga, Budapest, Togliatti e Berlinguer, i matrimoni e i divorzi, la consistenza del divenire. Potremmo aspettare la morte. E, dopo, aprire il cassetto e la scatola. Trovare le carte. Tutte queste carte! Queste foto e queste lettere. Un passato insopportabilmente presente. Ma ne vale la pena, se raccogli un foglio scritto a macchina. Questo riesci a leggerlo?
Se potessi vorrei
non diventare matto.
Che disastro. Insomma non si salva nulla? Mi fai piangere.
Ci salviamo noi. Senza il 25 aprile, pensi che sarebbe esistito un blog? Pensi che saremmo stati liberi di conversare liberamente su un libero blog?
Non credo.
Forse dovremmo ringraziare.
Tuo padre?
E tutti quelli come lui. Quelli del 25 aprile.
Va bene. Allora grazie.
Grazie.
Adesso, però, spegni tutto e usciamo. Andiamo a vivere.
«Se potessi vorrei essere giovane senza gli orrori della gioventù».
È bellissimo. Grazie
Sì, io li ringrazio Quelli del 25 Aprile!!!!Ora e sempre Resistenza!
Grazie mille. E’ bellissimo.
[…] Oggi che è il 25 aprile serve proprio qualcuno che racconti la Storia come sa fare lui. Mi sono alzata tardi, ho fatto un giro in bici, ho letto un po’ di notizie e di blog e, immancabile, ho trovato l’omaggio di Davide Orecchio a questa data storica. […]
Grazie a voi per aver letto
Uno scritto bellissimo. Intenso. Mi ha commosso. Una scrittura elegante. Grazie.
Grazie a te, Benedetta, per il tempo che hai dedicato al pezzo.
Grazie Davide. Che poca cosa, che parola piccola “grazie”. Il tuo racconto è bellissimo, molto più vero del vero. Sei davvero diventato grande – in più di un senso – saggio padre di figli selvaggi.
Ehi Fausta, è una gioia trovarti qui. Grazie per aver letto. Sono felice che ti sia piaciuto. Credo che mi servisse tempo per partorire un padre così. Del resto non sono mai stato un tipo precoce.
Grazie di questo testo, mi è molto piaciuto…mi ha anche commossa :)
grazie a te, Mónica. abrazos
Eppure matti per un po’ bisogna esserlo, per non far sempre parte delle combriccole dei sani da legare.
Il difficile, poi, è resistere al diventare matti del tutto.
Grazie per aver ricordato che il 25 aprile non può essere soltanto un ricordo.
E per l’alta intensità.
Insomma un briciolo di sana follia, Antonio. Se fosse un ricetta potremmo scrivere: «quanto basta» per non impazzire. grazie