Lastra
di Andrea Inglese
Parliamo di quello che avviene esattamente nelle cose, nella vita delle cose, parliamo della vita, come scivola, così, come s’indurisce, come scatta tra le cose, come i gatti, come quando saltano attraverso le sbarre di un cancello o da un muretto all’altro, che sembrano prima fermi, di creta o altro materiale inerte, e poi scattano, saltano fuori dalla forma, rompono la forma, la posa, la moltiplicano, si moltiplicano, così bisogna fare, vedere bene, anzi parlare bene di come le cose escono dalla forma, o come le cose accolgono lo scatto delle persone, le persone che come gatti scattano, e sembravano in posa, sembravano persone fatte e finite, persone chiuse in posa, e invece si moltiplicano, se ne vanno, si disperdono, come stare dietro a tanto?, vero è il problema, irrisolvibile a chiederlo, ma fallo, unico modo farlo, dire di adesso, di quando si rompe la posa, ma è costantemente rotta, spezzata, si viaggia in questa grande crepa che si allarga, ma poi si dice basta, prima parte finita, la discesa è finita, e uno si siede, si siede dietro una scrivania, ha una sedia per sedersi, e uno stipendio per stare seduto in posa, o alzato, dentro una serie di pose, anche con lo scatto, ma con lo scatto a molla, come il lavoro operaio, o manuale, o muscolare, si va e si torna, ci si moltiplica ma dentro, dentro quella posa, finalmente qualcosa che tiene, che tiene fermo, fisso, una parte è fissa, ma che lenta conquista, che lenta devastazione, ogni volta il ritorno, la ritrovata posa, l’essere dove si doveva essere, e quindi stare dentro una parola, un compito, come una bandiera addosso, una segnalazione, un colore, che tutti vedono da lontano, e starsene lì dentro, calmi, anche se muscolarmente attivi, anche se in continuo scatto, quella distruzione buona dello stare dentro, della forma che ritorna, che ricade, come una lastra, ma poi si dice ho fatto questo, io sono questo, ho costruito questo, questa posa, di padre in figlio, di madre in figlio, la posa del tranviere, la posa del dottore, la posa del riempire buche, la posa del dire bugie al telefono, la posa di registrare e filmare, tutti sotto lastra, a farsi imprimere, un po’ tombale, anche impressionati, impressi, conquistata impronta, sembriamo noi, ma forse è solo la lastra, un po’ mortale, così pesante, così precisa, spessa.
°
[Foto dell’autore in guisa di figurine]
Seguo la sfuggevolezza delle immagini, l’immanenza quasi impertinente. Non seguo la ricerca di trascendenza, il bisogno, quasi, di catturare. È pertinente?
ciao alessandro, ehm ehm… non ho ben capito la tua osservazione.
“siamo figli di molti determinismi”,cfr Henri laborit(Éloge de la fuite,tra le altre cose)
http://hauntedgraffiti.com/beecharmer/_I'm%20Goin'%20Down%20(Feat.%20Kid%20Harpoon)%20%5bbruce%20Springsteen%20Cover%5d.mp3
Mi sembra come se ci sia una ricerca di trascendenza nell’immanenza delle cose, sbaglio?
ad alessandro,
mettiamola così: volendo concettualizzare, lo si può leggere come un omaggio alla vecchia ossessione pirandelliana dell’antinomia tra forma e vita. In tutto ciò non so bene dove infilare la “trascendenza”…
L’ho percepita, più che vista. Più che una lastra, un sistema, uno schema, il testo mi è sembrato una grande domanda. Trascendente perché mi è parso come una ricerca di qualcosa d’altro, d’oltre, qualcosa che possa dare un senso ulteriore a tutte quelle/queste cose. Una grande domanda, dunque, sul sistema, sullo schema dominante. Uno slancio verso. Proprio come il gatto. Il tentativo di dar forma, di catturare, più che di constatare, descrivere.
Oltre le cose che ci danno un senso, dare un senso alle cose che ci danno un senso.
Non so se mi sono riuscito a spiegare. È la prima impressione che ho avuto.
Ora ho capito meglio quel che volevi dire.
“Una grande domanda, dunque, sul sistema, sullo schema dominante.” Questo mi piace.
sì pirandello; anche Bene più Deleuze…naturalmente con un pizzico di Gnec.
C’è anche un certo Husserl in giro, non solo Aristotele o Tommaso…
Il problema, semmai, è che per commentare un testo in un blog bisogna prima inviare una mail all’autore e chiedergli se è d’accordo con quello che stiamo per scrivere…
Un po’ come con la critica (e soprattutto con i critisci): l’autore spiega al criticonzolo quello che voleva dire, e il criticonzolo ripete pari pari su riviste, blog e quant’altro (e la famiglia si allarga)…
Chiappanuvoli, complimenti per la tua intuizione – è ben fondata.
a La Locura (bel nick), che scrive:
“Il problema, semmai, è che per commentare un testo in un blog bisogna prima inviare una mail all’autore e chiedergli se è d’accordo con quello che stiamo per scrivere…”
E’ una vecchia storia, ma ripetiamola.
Le chiavi del testo non ce le ha né l’autore, che è quartultimo, né il critico, che è terzultimo: c’è sempre uno che deve ancora venire, ancora leggere, ancora ultimare il senso, ecc., ed è il penultimo, perché nessuno, poi, è sicuro di essere davvero l’ultimo.
Il problema qui è che Chiappanuvoli mi ha chiesto. Se mi chiedi, io ti dico. Ma questo non fa, eventualmente, che aprire il discorso, e le letture.
a guido
se ci metti Bene (oltre che Deleuze) a me sta pure bene.
Ecco poi, parliamo “del” testo.
Bel commento, un po’ diverso, se permetti, rispetto alla chiusura evidente di fronte al termine “trascendenza”.
Proprio perché le chiavi del testo non le ha l’autore (etc. & omissis), io, da autore, piuttosto che pensare subito di essere stato mandato in seminario e di essere lì lì per prendere i voti a mia insaputa, avrei cercato di approfondire la “quaestio”. Il buon B.C., che pure conosci bene, parla di “risonanza”: e la “risonanza” è la vera “quaestio” interna al dispositivo ermeneutico che la circolarità autore-lettore (fruitore)-autore mette in opera (e questo a prescindere, in ogni caso, dalla intenzionalità poietica cosciente dell’autore).
E se la “lastra” fosse il nucleo desiderante al di fuori (oltre, trans)l’oggettualità coscienziale che la proietta (come “minaccia”, ma, più sotterraneamente, come “scudo protettivo-selettivo”)?
Lalo Cura (non La Locura)
Lalo Cura (a me piaceva nella versione spagnola)
“E se la “lastra” fosse il nucleo desiderante al di fuori (oltre, trans)l’oggettualità coscienziale che la proietta (come “minaccia”, ma, più sotterraneamente, come “scudo protettivo-selettivo”)?”
Interessante, ma è un po’ la stessa faccenda della “trascendenza-immanenza”. Sulle ricerca dei significati, preferisco restare discreto e lasciare la palla al lettore. Eventualmente ho più cose da dire sul “modo”, sul come ho cercato di dire qualcosa, piuttosto che sul qualcosa.
Io credo che in una tipologia di testi come i tuoi, intendo quelli che stai pubblicando qui negli ultimi tempi, il discorso sull’inferenza “senso (significato) – modalità di espressione” non si ponga, ovvero sia già risolto all’origine: voglio dire che il piano della significazione è tutto interno alla procedura scritturale, cioè che è la “costruzione” stessa, nel suo farsi, a porsi come (auto)evidenza significante del testo.
Magari mi sbaglio, ma è esattamente quello che vi leggo e che penso.
La Locura (visto che ti piace così).
Si può sapere qualcosa di più sull’illustrazione? È un particolare di che cosa? QUalche riferimento in proposito?
è una foto che ho fatto in un museo di in una delle tre isole del lago maggiore, si tratta di vecchie figurine per bambini, forse addirittura primi decenni del secolo; a me fanno impazzire
Mi sento di intervenire perché quello che vedo io è proprio l’attenzione per il “modus dicendi”, che non è “ricerca di stile” fine a se stessa, ma, al contrario, con una certa e grande coerenza all’interno della tua scrittura, ansia definitoria. La chiamerei, e non so, dato che sono solito commentare i tuoi post, se l’ho già chiamata, “scrittura stocastica”. La forma si fa portavoce dell’ansia di dare una definizione, di, dato un centro o un’ipotesi di centro, centrare il bersaglio (che è proprio l’etimo di “stocastica” – lanciare una freccia per raggiungere l’obbiettivo con grande precisione). Abbiamo un centro e tutta la scrittura, senza punti e dunque senza pause forti, cerca di arrivare a questo centro. La forma, per cui, ci svela questa tensione conoscitiva dell’autore. Al contempo, però, il testo si fa medium tra il lettore e l’autore: l’autore cerca, in vano, forse, di definire un qualcosa; il lettore, d’altra parte, attraverso il ritmo ed i significanti prova a capire di “che cosa si tratti”, ma, non trovando una risposta, viene attratto dal meccanismo. Un meccanismo che applicherà in diverse situazioni.
Altra considerazione, ma non so se mi sbaglio: rivedo in questo testo le indagini di Roland Barthes sulla fotografia. Ad es. “Non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘POSA’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine.”. Perché Roland Barthes? Non era Commiato da Andromeda un £discorso amoroso£ costituito per frammenti?
Io direi tutto questo, ad esempio.
luciano
che impressione: tutte ‘ste proposizioni (propose) senza un punto che scivolano un po’ così siccome da un muretto all’altro i gatti.
: )
fotto foto, scatto immagini: sulla lastra l’azione dell’astrazione. ecco come si esce dalla forma, come si rompe la posa (figurine d’infanzia)
poi nella vita, non solo delle cose, concreta-mente noi: seduti a scrivania si assume posa fissa dentro una parola (figurante in commedia all’italiana)
e la forma ritorna, passo passo, lasciando impronte o meglio rif’orme di vita sopra il foglio/figlio, la posa impronta consegna (configurazione genetica)
dunque la transizione a loop che lega rottura e conformismo parrebbe naturale e irrisolvibile.
io ho ancora una speranza: non sono mai d’accordo con me stesso.
: )
insomma, lavoro piaciuto, anche se molto fine e molto concettuale (a se stesso). nello specifico del testo, però, io non mi sento questo. sarà che il mese scorso ho messo una lastra tombale su mio padre, ma forse è umano viversi di più, aldilà della forma (corposa). tipo che la morte ci trovi ancora “forme vitali” (id est, cazzo culo fica tette, più che fallo).
: )))
e grazie per lo stimolo (sempre prezioso), ché stagno un poco inerte dopo il lutto.