Rivista Sud on line
Da qualche settimana l’intera collezione di Sud è scaricabile gratuitamente qui Moltissime sono state le collaborazioni eccellenti per i quindici numeri pubblicati ma anche gli esordi che la nostra rivista ha reso possibili. Il testo che vi propongo è stato scritto da Luis de Miranda per noi ed è stato pubblicato sul numero tre, edito da Raimondo di Maio (Dante & Descartes) .(effeffe)
Divenite plastico. Poi esplodete.
di
Luis de Miranda
traduzione di Laura Toppan
Un libro uscito di soppiatto lo scorso marzo, intitolato Che fare del nostro cervello?, esprime un concetto ‘politico-neuronale’ che potrebbe divenire la parola-chiave del prossimo decennio: plasticità. O quando il nostro cervello ridiventa dinamite.
Altolà: tutti quelli che si disperano, perché non credono più in una possibile rivoluzione all’interno del nostro nuovo mondo concentrazionario, aspettino prima di suicidarsi. Un barlume di speranza sembra ancora permesso, e non arriva né dalla Cina né da Cuba, ma esplode dall’interno del nostro cervello.
Jean-Pierre Changeux, nel suo libro L’uomo dei neuroni, ci aveva messo in guardia vent’anni fa: la «scoperta della sinapsi e delle sue funzioni sarà rivoluzionaria tanto quanto quella del DNA». Alla lettura di questo libercolo fondamentale della filosofa Catherine Malabou (Che fare del nostro cervello?, edito da Bayard) siamo costretti a constatare che il DNA fascista si sta opponendo ad una teoria moderna che fa della corteccia (e non solamente del pensiero) un alleato dell’ideale della liberazione. Di che cosa si tratta? Innanzitutto di una buona notizia, in questi tempi di mimetismo gregario, perché «sono gli uomini che costruiscono il loro cervello e non sanno nemmeno di farlo: quindi il nostro cervello è un’opera». Ed è questa la plasticità, perché il cervello non è mai fissato una volta per tutte: durante tutta la vita i neuroni si attivano o si disattivano a seconda della storia e della volontà dell’individuo; così il cervello non è una macchina, ma è capace di rimodellarsi. E in che cosa è una nuova potenza rivoluzionaria? Per capirlo bisogna passare attraverso Il nuovo spirito del capitalismo di Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che notano come «il funzionamento dei neuroni e il funzionamento sociale si diano mutuamente forma, come se il funzionamento dei neuroni si confondesse con il funzionamento naturale del mondo». Ma questa situazione potrebbe anche essere rovesciata.
Sappiamo, almeno sin dai tempi di Deleuze, che viviamo in una società reticolare. «Abbiamo compreso da un pezzo – sottolinea Catherine Malabou – che oggi sopravvivere significa essere connessi in rete, essere capaci di modulare la propria efficacia. Sappiamo bene che ogni perdita di flessibilità corrisponde ad una pura e semplice messa in gioco». Insomma, bisogna essere flessibili, ma è proprio qui che prende forma una tesi illuminante: la flessibilità nel lavoro, divenuta il leitmotiv del neocapitalismo, non ha nulla a che vedere con la plasticità autocreatrice. O, detto in termini più filosofici, «la flessibilità è la metamorfosi ideologica della plasticità. Essere flessibili significa ricevere la forma o l’impronta, poter piegarsi, essere docili, non esplodere. Manca, alla flessibilità, il potere di creare, di stilare, di inventare o anche di cancellare un’impronta. La flessibilità è la plasticità meno il suo genio». E non si tratta di divagazioni filosofiche, perché il biologo Jean-Pierre Ameisen aveva già insistito (nel 1999 ne La scultura del vivente) sul fatto che il cervello, lontano dall’essere – come si è creduto a lungo – un organo ben costituito interamente sin dalla nascita, è un’istanza che riceve e si dà forma allo stesso tempo. Da cui riconciliare con la natura quelli che sarebbero tentati, ancora una volta, dal disprezzo del corpo. «L’idea – sottolinea Catherine Malabou – di un rinnovamento cellulare, di una rigenerazione, di una risorsa ausiliare della plasticità sinaptica, mette in luce la potenza della guarigione – cura, cicatrizzazione, compensazione, rigenerazione, capacità del cervello di elaborare delle protesi naturali» e di diffondere le sue trovate attraverso la contaminazione (per esempio attraverso un articolo in un’altra rete: il Net). Sembrerebbe quindi, visti i risultati recenti delle neuroscienze, che il famoso mind-body problem – come lo chiamano i cognitivisti – prenda un nuovo orientamento. Già due anni prima Marc Jeannerod concludeva così il suo libro La natura dello spirito: «il paragone tra cervello e computer non è pertinente». Deleuze, uno dei rari filosofi a interessarsi alle ricerche neuroscientifiche degli anni ’80, l’aveva presentito nel suo libro sul cinema L’image-temps, in cui parla del cervello come di un «sistema accentrato», di un «effetto di rottura» con l’immagine classica che ci si fa di lui. «La scoperta di uno spazio celebrale probabilistico o semi-fortuito, an uncertain system – afferma Deleuze – evoca l’idea di un’organizzazione multipla, frammentaria, un insieme di micro-poteri piuttosto che la forma di un comitato centrale». Si può allora paragonare il cervello a un regista cinematografico, poiché la sua plasticità diventa l’immagine reale del mondo. Un’immagine che ispirerà altri registi, non sempre ben intenzionati. «Così – nota Catherine Malabou – è in riferimento a questo tipo di funzionamento che la letteratura di management di oggi raccomanda il lavoro di squadra flessibile, di neuroni, ove il capo è un connettivo. Chi non è flessibile deve scomparire». E prima di scomparire, merita di soffrire.
In Fatica di essere se stessi, libro dedicato all’esaurimento nervoso e alla nuova psichiatria, il sociologo Alain Erhenberg dimostra che esiste una frontiera tra sofferenza psichica e sofferenza sociale. La depressione è ciò che un altro sociologo, Robert Castel, chiama la «dis-affiliazione». In entrambi i casi si tratta spesso di una sofferenza d’esclusione, che si declina in altrettante malattie della flessibilità. «In un mondo ‘connessionista’, ove la grandezza sociale presuppone lo spostamento – aggiungono Boltanski e Chiapello – i grandi approfittano dell’immobilità dei piccoli; l’immobilità è infatti la fonte principale della miseria di quest’ultimi. Ognuno vive così nell’angoscia permanente di essere sconnesso, lasciato, abbandonato da coloro che si spostano». Ma, ed è l’altra buona notizia veicolata dalla plasticità, la depressione, che è divenuta oggi un fenomeno troppo massiccio per non annunciare un cambiamento più generale, potrebbe essere la prima tappa dialettica di una riconfigurazione collettiva delle coscienze. Jean-François Allilaire, professore di psichiatria all’università Sorbonne Paris-VI, ha messo in evidenza i legami tra depressione e spostamenti di neuroni: «la depressione, cioè la sofferenza psichica in generale, è associata ad una diminuzione delle connessioni di neuroni»; una diminuzione che corrisponde, la maggior parte delle volte, ad una inibizione né involontaria né tangibile. Insomma, la depressione potrebbe essere una forma collettiva di resistenza passiva contro la flessibilità. Nonostante ciò, a livello individuale, «dobbiamo imparare nuovamente – afferma Christine Malabou – a metterci in collera, a esplodere contro una certa cultura della docilità, dell’amenità, della cancellazione del conflitto; proprio ora che viviamo in uno stato di guerra permanente».
Il cervello sta forse riscoprendo, all’alba del XXI secolo, che è un processo dialettico ed è quindi giunto il momento di rileggere Hegel e anche Bergson, per il quale ogni movimento vitale è plastico, nel senso che deriva da un’esplosione e allo stesso tempo da una creazione: è solo fabbricando degli esplosivi che la vita dà forma alla propria libertà e che volta le spalle al determinismo. E poiché oggi le parole sono più potenti degli esplosivi creati dalla natura con la complicità del cervello, leggiamo, per concludere, questo passaggio dall’Energia spirituale: «l’artificio costante della coscienza, dalle sue origine più umili e nelle forme viventi più elementari, è di cambiare la legge della conservazione dell’energia ottenendo dalla materia una fabbricazione sempre più intensa di esplosivi sempre più utilizzabili. È sufficiente allora un’azione estremamente debole, come quella di un dito che preme senza sforzo il grilletto di una pistola, per liberare, al momento voluto e nella direzione prescelta, una somma il più grande possibile di energia accumulata. Fabbricare ed utilizzare degli esplosivi di questo genere sembra essere la preoccupazione continua ed essenziale della vita, dalla sua prima apparizione nelle masse protoplasmatiche deformabili a volontà fino alla sua completa espansione in organismi capaci di azioni libere». A tutti gli attentatori al plastico, arrivederci.