Cogito Argo Sum- la morte ai tempi della rete
“La memoria è anche una statua di argilla.
Il vento passa e, a poco a poco, le porta
via particelle, granelli, cristalli.”
José Saramago, i quaderni di Lanzarote
Chiunque abbia avuto dentro il fuoco della scrittura o della lettura sa che non c’è acqua che possa estinguere le fiamme, fare recedere dal proposito di fare delle proprie scritture e letture qualcosa di simile a un’eredità necessaria, per chiunque, da destinare a un numero infinito di persone di cui non si conosce né si saprà mai nulla, nemmeno il nome. Solo chi conosce o ha conosciuto bibliofili infaticabili, cercatori di rare e preziose edizioni, combattendo ogni tipo di guerra, a volte negoziando la resa del venditore aggiustando il prezzo dell’acquisto altre sperimentando ogni forma di veleno in grado di sterminare i maledetti vers de bois, i tarli, che trasformano i versi, le frasi e i verdetti in polvere finissima intorno ai buchi, può saperlo. Conosce la delusione delle risposte negative delle biblioteche storiche o universitarie ad accogliere il lascito, il fondo, per non disperderne il disegno. Così come chi scrive si affretta quando la notorietà abbia superato la soglia della celebrità acclamata, a creare una fondazione in grado di tenere unito oltre la morte dello scrittore la vita dello stesso, perpetuandone il racconto attraverso le cose che gli sopravvivono. L’isola di Lanzarote vale il viaggio per quello che costa il soggiorno e il resto. L’equivalente di pochi giorni in un lido della costa ligure o siciliana. Un mare così lo trovi solo in Sardegna e la terra sa di vulcano, che un vento che fa da brezza al caldo africano tiene sospeso per chilometri di deserto. Qui Saramago è morto e qui ha voluto creare insieme alla sede di Lisbona, la biblioteca, la casa, la fondazione.
La cura della moglie Pilar nel rendere leggibili i momenti di felicità, ora l’ascesa al monte bianco, monte ventoso delle Canarie ora la consegna del Nobel, tra i reali di Svezia, è amore e si trasmette in ognuno dei passaggi che io e Giulia facciamo da una camera all’altra, dal giardino alla Calle de la Libertad dove la dimora è. C’è qualcosa che riguarda la vanità dell’umano, l’infinitesima sua insorgenza temporale rispetto alle ere planetarie, ai movimenti tellurici, al pianeta. Una memoria che si erode davvero ad ogni colpo di vento e rende raccapricciante, patetico il volere fermare tutto, immobilizzare la vita, e la morte, in un monumento luccicante. E non ci saremmo accorti di quello che stava accadendo se non ci fosse stato il cane, ad accoglierci, il vecchio cane di Saramago. Saremmo rimasti altrimenti come accecati di fronte alla interminabile collezione di vasi, di Cristi, di penne stilografiche, e ci avrebbe divorato il paesaggio che dalla finestra a croce cade a picco sullo scrittoio del navigatore portoghese. Avremmo chiuso in un pugno una delle pietre riposte sopra un ripiano per sentire come lui la vicinanza agli amici lontani, distanti, in altre terre, quelle dei sassi raccolti. Saremmo rimasti come incantati dalla seggiola da pittore en plein air, immobile nel giardino solcato dai melograni e dalle piante grasse, da cui l’oceano traccia linee di blu e di verde disseminandole tra cumuli di pietra vulcanica e case bianche. Josè si chiama come il padrone, ma vederlo zoppicante, di una vecchiaia insolita per un cane di piccola taglia, ci fa pensare ad Argo. Così riprendo il capitolo dell’Odissea superbamente tradotto da Daniele Ventre, che recita:
Queste parole così scambiavano l’uno con l’altro,
ma ecco un cane disteso levare la testa e le orecchie,
Argo, di Odìsseo dal cuore costante, che il sire in persona
crebbe –ma non ne godette e prima per Ilio la sacra
se ne partì. Nel passato, in caccia di capre selvagge,
di caprioli e di lepri l’avevano i giovani spinto;
ma abbandonato giaceva, allora (era assente il padrone),
dentro quel molto letame di mule e di bovi che a mucchi
s’accumulava alle porte, perché per il grande podere
lo raccogliessero i servi di Odìsseo per farne concime;
là il cane Argo giaceva disteso, coperto di zecche.
Qualche giorno fa è morto Valter Binaghi. Io gli ho voluto bene. Ci siamo frequentati per circa un anno quando partecipammo a un progetto editoriale, ambizioso, nemmeno più di tanto, e fallimentare oltre ogni più nera previsione. Di lui mi aveva sempre colpito l’estrema determinazione teoretica, il sapere certo, la tenacia e il rigore delle asserzioni, ancor più ammirevoli, per quanto mi riguarda se calate in una vita da poeta maledetto, musicista blues, di chi porta molto in avanti la soglia dell’estremo. Così il suo cattolicesimo, la sua conversione radicale quanto il precedente ateismo, cosa di cui non ne sono certo ma che ho sempre sentito così. da qualche giorno in rete in tanti hanno descritto il proprio dolore ma soprattutto il peso di un’assenza che qualcosa di così insondabile come la morte aveva deciso di inscrivere nel suo registro. Di tutte le parole spese con estrema attenzione e cura, come quelle che su Micro Mega ha scritto Marco Rovelli, o di slancio e autentica insofferenza di Franz Krauspenhaar, due testimonianze, da giorni, accompagnano i pensieri che rivolgo a Valter , al fatto che dopo i quarantanni spesso orfani di genitori, ci troviamo faccia faccia con la matrice più autentica del nostro essere umani, ed avviene attraverso la disparizione dei fratelli, degli amici a noi contemporanei. Come se il grande compilatore delle enigmatiche nostre vite avesse deciso di lasciare le sequenze verticali delle parole per procedere con le orizzontali. Due, dicevo, le testimonianze che mi hanno colpito di più, quella di Giulio Mozzi che di Valter è l’ Amico- uso il verbo al presente deliberatamente, e di Loredana Lipperini che meglio di chiunque altro ha tirato giù il velo dell’inimicizia in rete, sancendone l’inautenticità, innanzitutto e a seguire l’inutilità rispetto al grande progetto della rete, delle vite “virtuali” in comune. Spesso, il più delle volte, il principio di realtà è nemico dei sogni e dei sognatori, ma a volte ci soccorre, ci sussurra prima e poi lo grida, quando siamo prigionieri di idiosincrasie, di incazzature ad personam o verso gruppi di persone, ora un blog, ora una rivista, un editore, un paese intero, che è ora di svegliarsi dai cattivi sogni perché la vita, soprattutto quando c’è la morte, è altrove.
Ecco perché leggere in rete, assistere al passaggio di testimone per l’ultimo omaggio, la firma sul libro virtuale della camera ardente mi è sembrato qualcosa di molto lontano da quello che nelle stesse ore accadeva in una chiesa stracolma nel cuore di una Padania più autentica e dunque più reale del resto.
:)
Nel frattempo sono stato sospeso da Facebook (ma solo per 12 ore) per aver detto la verità sulle lacrime di coccodrillo della Lippa:
http://lapeperini.wordpress.com/2013/07/15/sospeso-da-facebook-per-aver-detto-la-verita/
“perché la vita, soprattutto quando c’è la morte, è altrove”
La nostra sorella morte corporale ci viene in soccorso spesso, ma non necessariamente aiuta, nel caso di Valter aiuta la sua memoria pubblica con riconoscimenti e testimonianze di chi ha avuto il piacere di conoscerlo di persona e di chi non lo ha mai sopportato per il suo entusiasmo di cattolico, ma questa stessa morte non aiuta nell’assenza che nel mio caso è gravata da troppe reticenze che ho avuto nei suoi confronti, che mi hanno impedito alla fine di vederlo veramente negli occhi e di abbracciarlo.
E’ infatti un fatto raro che la morte di un amico virtuale, (Se si fa eccezione di qualche telefonata, così era tra me e lui), abbia inciso cosi decisamente e dolorosamente il mio affetto.
Con lui volavano le parole, spesso frecciate, spesso critiche al suo impianto filosofico che non si stancava mai di volermi insegnare, fino a farmi parte della sua eredità, ero così insofferente, ma così incantato dal suo modo di “gestirmi” come fossi un suo allievo difficile, uno di quelli che più amava, che quando cancellò l’archivio del suo blog lo redarguii con male parole, mi disse che ero come Long John Silver che quando si commuove dice le parolacce.
Credo che la ragione del mio affetto per lui stia nel fatto che indipendentemente da quello che pensava, scriveva e diceva, era un uomo vero, un uomo che c’era, Agostino, tra tante fesserie, (Adesso posso dirlo che non mi sente), diceva anche delle cose bellissime, e questa sua frase è per me quella che mi racconta chi era Valter: “Cos’è la verita? Un uomo presente.”
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