Drive
di Alessandra Greco
Sotto, alla base, c’è la madre, un orologio atomico al cesio. Aggiustamenti d’ora necessari solo molto raramente e sempre si tratta di frazioni infinitesime di secondo. Lo strato più evanescente spesso manca di buio, la lacrima all’occhio, la zona corrispondente alle ombre meno intense, l’impercettibile distanza, lo strato meno spesso di un corpo, quello che si vede: una bruma di campagne ibride avvelenate per chilometri. Il tessuto connettivo come un sottobosco, in immersione, sommerso, è sopra – una torre di milioni di tonnellate d’acqua, si erge al limite della troposfera, il luogo della vita si espande sulla sommità dell’aria a forma di incudine. Il tempo tiene la macchina su una concrezione di terra, un floating system imploso di trafitti e strade. La nuvola porta con sé, cela, nasconde, un coagulo sfrangiato che irradia a intervalli, luminoso e vibrante, sfila sui cartelloni pubblicitari, s’innesta nelle insegne, sui tornanti, nomea a ricavo sul più spicciolo dei piccoli bar. La base è scura, a volte quasi nera, con sfumature che possono andare dal verde al giallo. I cuori stampigliati nei terminali delle banche l’alleluia contenuta in alveolari galleggianti, su accumuli di elettricità statica che sgrava nella terra, raccolti in vasche di soluzione nutritiva. La perfezione, la stasi. A bere caffè stretti fianco a fianco o sempre affiancati, in abitacoli dirigersi o sostare.
Nelle ecografie si può ascoltare il battito cardiaco. I figli compongono il visto della madre nella nuvola. Si leviga la pietra, si macina inchiostro fresco tra i rigagnoli e il fango degli scoli nelle tracce sottovento, dove il cane non sente la razzia, la radianza. Per questo ci sono i sentieri, spesso ci si ferma sulla soglia, si ascolta. Frotte di pensieri attraversano l’aria, i discorsi aggressivi, gli atti violenti, una rete di campi, un collegamento di ponti che smistano le attività comunicativa in colture fuori suolo. Pensieri incontrollati colano in sciami caotici attorno al nucleo, impollati nella fortissima discendenza, nel montaggio, formano distorsioni che non appartengono, ma che sono fatte combaciare, mentre nelle zone circostanti prosegue l’ascendenza e si verifica un forte vento al suolo che spesso solleva visibilmente foglie e polvere nella zona circostante il fenomeno. In terza serata, durante la pubblicità, si determina un aumento del livello delle acque, in tutta la struttura. Dire che l’acqua si raccoglie in lagune artificiali. Si ammira la cascata in rivoli del fiume. Dal nucleo l’intero gruppo ed i singoli non si allontanano mai troppo, sono schivi, evitano, si sentono a disagio quando vedono. Dai distacchi arriva quasi la gentilezza. Concrezioni sui muri a tratti in evidenza, quando le correnti dissolvono le nuvole, nelle grate, gli acciai, i livelli in cui si perde il suono, forse la vibrazione di un discorso, la frequenza per sinergia s’incunea sul precipizio, come l’istante prima dello scatto, la lancetta; atto sotterraneo dentro un vuoto rientro. Nelle caverne dei monti Fuke / prenderò le pietre dell’inchiostro / e ne farò ciotole dove l’acqua non geli. / Colla leggera, / 10.000 colpi di pestello… / o 100.000 colpi! / per i bastoncini di Anhui / duri come il giaietto / e venati come il corno del rinoceronte / dipingerò il flusso circolare del cuore. Nell’accordo di do della campana dell’ora, percorrendo la varianza o errore standard, piuttosto elevata, lascia qualcuno sbandato e in ritardo, assorbito nella singolarità. I movimenti dei singoli non sono coordinati fra di loro e neanche allineati con la direzione del moto dell’intero gruppo. Ne deriva che la mole di lavoro è impressionante. Ore più calde dei mesi estivi, è l’inverno. Di grande quantità di energia termica necessita. Il freddo. Nessuna caduta.
Sopra rotano i dimenticati, né soprattutto se ancora in vita. Estratti nell’aria soffice, fasciata, acidoimpressa, stretti nei bozzoli di ferro nel calvario. Ché la serietà che è la vita, in condizioni spesso di non potersi difendere. Neve carbonica, il sole che si leva, irrora, la velocità-oggetto, la visione veste le bambine con foglie e fiori, piangono piogge di sangue-cenere sulle estensive del grano, poi più niente. Suono barbaro, profuso di suono piano che è la vita nella vita. Con predilezione per il profano, si getta in aria piume per le nuvole, se ne cosparge il terreno; l’acqua sopraffusa ne fa il gelicidio. Appartenere alla nuvola. Premere col visto. Il chiaro, qualcosa che si posa come polvere diffusa e porta la tristezza nei tessuti. Versare nell’acqua pesci che si nutrono di uova. Bruciare i morti. Piccole trine. Il guitto e la purezza. Forse impazzire. Colonne di grattacieli, case senza spazio che non sia l’eretto, stirate in sovrapposizioni millimetriche, dove gli occhi scorrono un’infinita serie di aperture. Accelerare fino a sforare il quadrato del cielo. L’autostrada diventa verticale, ruota senza deformare attorno a un asse fisso, e la mente sottrae l’ultimo pensiero, un sottoraffreddamento delle cose, una pausa più o meno prolungata del ragionamento, intendere dilata, il motore in liquida quieta. Si osserva l’aria. Il riverbero, le fluttuazioni oltre la luce. In alto – anno 1974, il funambolo Philippe Petit cammina sul filo metallico teso tra le due torri del World Trade Center. La sua connessione con la vertigine profonda, è un ruotare. Suggerisce analogie.
*
[Un estratto da Alessandra Greco, Press Soundtrack_Colonne sonore dalla cronaca, QC quaderni di cantarena, 2012. Le immagini sono dell’autrice.]
scrittura mesmerica,”indubbiamente”(Telemachia)
http://www.wikinoticia.com/images/viviendosanos/viviendosanos.com.wp-content.uploads.2009.03.image-thumb32.png
Durante la scrittura di Drive, che si andava componendo insieme ai nove microracconti che formano il macroracconto unitario dei Press Soundtrack, mi arrivò un invito da una galleria d’arte di Milano, la MC2 Gallery, per l’inaugurazione della personale Heavenly City di Yan Yonglian. Era il 2010. Fu molto casuale, e sorprendente. Scrivevo di una città-nuvola, e questa mi si presentava nelle opere dell’artista cinese.
Ciascun racconto porta il titolo di un brano rock (questi i flussi, gli influssi, sonori). Drive è pensato e scritto sull’omonimo brano dei R.E.M.
Il riferimento in particolare è all’edizione dall’album Automatic for the people, del 1992, dove i violini creano un andamento simile a un sollevamento ciclico.
Grazie per avere così commentato questo racconto.
Grazie Nazione Indiana!