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Egitto. Do you remember revolution?

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di Giuseppe Acconcia
in risposta all’articolo di Alloni
pubblicato su Nazione Indiana

Era il 30 giugno scorso, quando milioni di persone sono scese per le strade delle principali città egiziane per chiedere le dimissioni del presidente Mohammed Morsi. La televisione pubblica parla di 30 milioni di persone, mentre i Fratelli musulmani di un’invenzione da Photoshop. Erano in strada alcune centinaia di migliaia di persone, forse un milione, non certo i 30 invocati dall’esercito. A motivare la protesta una dura critica alla politica economica di un anno di gestione del potere da parte dei Fratelli, esacerbata da una campagna di raccolta firme (Tamarrod) ampiamente sostenuta da Servizi segreti, televisione di stato e uomini del vecchio regime di Mubarak. I militari egiziani hanno imposto 48 ore di tempo alle forze politiche per trovare una soluzione alla crisi. Il 3 luglio 2013 il presidente Morsi è stato arrestato dalla Guardia presidenziale, è detenuto in un luogo segreto (con un’accusa inconsistente di evasione grazie a contatti con il movimento palestinese Hamas arrivata oltre due settimana dopo l’arresto) e sono stati spiccati mandati di cattura contro i principali leader del movimento islamista. Da allora la Fratellanza ha occupato permanentemente alcune piazze della città non riconoscendo il nuovo presidente Adli Mansour e l’esecutivo pro tempore guidato da Hesham Beblawi.

Un colpo di stato militare, con la complicità di giudici e polizia
I giovani rivoluzionari accusano esperti, analisti e politici stranieri di faziosità quando, in riferimento agli eventi correnti, parlano di enqlab, colpo di stato. Ma che si sia trattato di un golpe militare lo ricordano i carri armati che ancora si scorgono intorno ai ministeri, alle banche e ai posti di blocco. Si può forse aggiungere che la deposizione di Morsi non ha trovato unanime sostegno da parte della leadership militare. Tanto che l’attuale ministro della Difesa, Abdel Fattah Al Sisi ha rappresentato l’intervento militare come dettato dalle manifestazioni di piazza. Secondo lui, la democrazia egiziana sarebbe ispirata più dalle contestazioni di piazza che da libere elezioni.

Sisi, che vanta una formazione nasserista era stato scelto proprio da Morsi a guida delle Forze armate per sostituire il colonnello Hussein Tantawi. Il colpo di mano dell’esercito è servito a ristabilire la supremazia militare sull’élite politica, a evitare divisioni all’interno dell’esercito e a favorire l’ascesa di un prestanome Adli Mansour, come presidente, per riprodurre un’ambigua separazione tra potere politico e militare. Non solo, ha forse evitato un ulteriore spargimento di sangue se le due piazze, una degli islamisti, l’altra dei “ribelli” si fossero direttamente scontrate.
Ma a rendere possibile il golpe, in un momento in cui l’esercito sembrava avere ridimensionate chance politiche dopo un anno e mezzo al potere del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf) e i continui slogan che echeggiavano nelle piazze contro il governo della giunta militare, è stato l’intervento di un’altra «casta»: i giudici. I principali oppositori alle epurazioni volute dalla Fratellanza hanno avallato la decisione dell’esercito.

I magistrati egiziani sono una casta con ampi privilegi, che ha fortemente ostacolato l’ascesa dei Fratelli musulmani al potere. E neppure ha di fatto riconosciuto la validità della nuova Costituzione, approvata con referendum popolare lo scorso dicembre. A prendere le mani della presidenza della Repubblica è stato proprio il presidente della Corte costituzionale. La stessa assemblea che aveva disposto lo scioglimento del Parlamento, legittimamente a maggioranza islamista.
Certo, si può obiettare che l’opposizione dei Fratelli musulmani verso i giudici non fosse disinteressata ma una sorta di regolamento di conti. Per questo, non è un caso se Mansour ha nominato immediatamente un nuovo procuratore generale, Hisham Barakat, ex capo dell’ufficio tecnico della presidenza della Corte d’Appello del Cairo. E poi i giudici non hanno pensato due volte a spiccare una quantità enorme di mandati di arresto contro esponenti dei Fratelli musulmani. Un numero del genere non si vedeva dai tempi delle retate contro la Fratellanza dell’era Mubarak.

I leader islamisti non puntano il dito direttamente contro i giudici ma contro il ministero dell’Interno, parlando di «stato di polizia» e di «una magistratura complice». Grande assente dalle strade egiziane nei mesi seguenti alle rivolte del 25 gennaio del 2011, la polizia è tornata in gran numero a presidiare dovunque le vie e il traffico delle città egiziane. Responsabile della raccolta delle tasse e della definizione dei prezzi nei mercati, di arresti e multe, la polizia egiziana ha avuto per anni comportamenti sommari. Per questo è stato il primo obiettivo dei contestatori che hanno dato fuoco a decine di centrali di polizia in tutto il paese, oltre due anni fa. Ma ora la vendetta è compiuta, i Fratelli musulmani sono stati di nuovo marginalizzati. E non stupisce se le strade egiziane risplendano ora di centinaia di uniformi bianche, nuovissime, e di nuove armi in dotazione. Lo stato è tornato a controllare il Paese: la contro-rivoluzione, che aveva vinto con la presa del potere da parte della giunta militare, ha imposto di nuovo il suo controllo su tutti i meccanismi di gestione del potere.

Cinque colpi di stato rappresentati come rivoluzioni
Le rivolte in Egitto del 1882 del 1952, passando per il 1919 e il 2011, si sono trasformate in altrettanti colpi di stato militari, ma nei libri di storia egiziani questi episodi vengono rappresentati come delle rivoluzioni. Con molta probabilità lo stesso avverrà con il 30 giugno 2013. Questo rientra anche nella strategia mediatica della gestione del colpo di stato che ha rappresentato il golpe non come militare o giudiziario, ma sociale.
Molti dei giovani attivisti di Tamarrod (ribellione) credono a questa spiegazione. Il 3 luglio 2013 viene raccontato da questi giovani come il risultato dell’occupazione sistematica di tutte le principali strade delle città egiziane da una folla di milioni di persone, che ha «costretto» l’esercito a intervenire. Con loro si sono schierati: i liberali di Mohammed El-Baradei, che ha accettato la carica di vice-presidente; i feloul, la base sociale del vecchio regime di Mubarak; e l’amministrazione pubblica: il così detto «stato profondo» che ha reagito ad un anno di governo ed errori degli islamisti. Non solo, hanno appoggiato il golpe, criticando le continue discriminazioni, anche i cristiani copti e la loro leadership politica e religiosa, dal magnate di Orascom Naguib Sawiris al papa Tawadros.

I Fratelli musulmani puntano poi il dito contro gli Stati Uniti e hanno più volte invitato a manifestare alle porte dell’ambasciata americana al Cairo. Nei giorni scorsi, dalla Casa bianca era arrivato al Cairo il vice segretario di Stato, Bill Burns. Mentre un fuoco di fila incrociato aveva colpito l’ambasciatore statunitense al Cairo, Anne Patterson (di cui Repubblicani e anti-Morsi chiedono la rimozione) per i suoi incontri con la leadership dei Fratelli musulmani precedenti al colpo di stato.
Questo sembra il segno di una divaricazione tra presidenza degli Stati uniti (Obama aveva chiesto la revisione degli aiuti militari all’Egitto e ha ottenuto il blocco momentaneo della prevista fornitura di F-16) e Pentagono (che ha confermato l’invio di aiuti militari pari a 1,3 miliardi di dollari). E così, i diplomatici americani sono sempre più abbandonati a loro stessi nel tentativo di confrontarsi con il nuovo corso politico nei paesi delle rivolte in Nord Africa e Medio Oriente, come insegna il caso dell’ambasciatore Chris Stevens ucciso lo scorso settembre in Libia.
Il colpo di stato del 3 luglio 2013 riporta i giovani egiziani ad essere strumento dell’élite militare che ha adottato una nuova leadership liberale, connivente con magistratura, polizia e uomini del vecchio regime, con consolidate relazioni internazionali, in sostituzione dei Fratelli musulmani. Ma non è detto che la storia egiziana non continui a parlare di rivoluzione.

1 COMMENT

  1. Un ben fatto ai redattori di Nazione indiana Morresi e Forlani per avere riportato due interpretazioni contrapposte della situazione egiziana. Ad ogni modo, tra i due il pezzo di Acconcia è senz’altro il più credibile, a prescindere dalla realtà dei fatti. (Il commento all’articolo di Alloni, in qualche modo complementare a questo, è del 3 agosto 2013 ore 17:49).

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017