L’elaborazione del lutto (11 prose brevi)
di Jacopo Ramonda
L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (uno)
Quando finalmente riconosciamo di doverci delle spiegazioni, è – con ogni probabilità – già troppo tardi. Ci sediamo a parlare, ai due lati del tavolo, come schieramenti avversari. Le attenuanti che ognuno di noi riconosce a se stesso si trasformano negli artigli con cui ci feriamo a vicenda, in modo involontario. Ciò che dal mio punto di vista dovrebbe scagionarmi per te è un’aggravante, e gli alibi con cui tenti di difenderti dalle mie accuse mi rendono ancora più sospettoso. Ognuna delle rispettive giustificazioni è la conferma dei nostri timori: la prova schiacciante di un’incompatibilità di fondo che sta risalendo a galla. Uno smacco in qualche modo già preventivato, ma che ci coglie comunque di sorpresa.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (due)
Le scosse di assestamento ci permettono di ritrovare il baricentro. Scarichiamo il peso da una gamba all’altra, appoggiandoci ad ostacoli pretestuosi come fossero stampelle; dando la colpa a varie contingenze, a stanze non sufficientemente luminose, a disturbi transitori scambiati per sintomi di gravi patologie. Ricerchiamo le cause di una spossatezza ormai cronica nel contesto, evitando con cura la radice del problema.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (tre)
Ricordo il giorno della mia confessione, violenta come un aborto spontaneo, e tuttavia imprescindibile per la mia completa riabilitazione. Sono sempre più convinto che la caducità della memoria sia una forma di difesa; con il passare dei mesi, infatti, ci penso sempre più raramente, anche se non con minore intensità. Temo che una parte di me si sentirà in colpa per sempre; in fondo il tempo non trasforma un torto in qualcos’altro, ed io indubbiamente ho sbagliato. So che non si ripeterà, ma vorrei che non fosse mai successo. Vorrei sentirmi pulito. O forse anche quest’aspirazione all’innocenza è solo un modo per dimostrare l’autenticità del mio pentimento. Continuo a mostrarmi in disaccordo con chi prende le mie difese. La mia mancanza d’indulgenza verso me stesso mi stupisce, ma non mi fa sentire meglio. Vorrei la consolazione di una pena da scontare. Sono attratto dalla possibilità di un’espiazione, anche se non mi è ancora chiaro secondo quali modalità.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (quattro)
Abbiamo sviluppato la capacità di individuare il punto debole e colpirlo, con le accuse più corrosive. Per quanto accecati dalla rabbia, la nostra mira è sempre perfetta. Non è chiaro chi dei due l’abbia insegnato all’altro; probabilmente si tratta di un’abilità che abbiamo sviluppato da autodidatti, per necessità. Come archeologi del rancore, scaviamo a mani nude negli anni, riportando alla luce vecchi torti, scorie radioattive seppellite sotto una colata di cemento. Siamo carie, ruggine. Il livore è cresciuto in noi come una stalattite, goccia dopo goccia, fino a diventare tangibile, solido: un monumento del nostro malessere. La mia confessione viene riesaminata troppo spesso. È una fonte di rancore eternamente rinnovabile; ha aperto delle falle in noi. Fratture che con il tempo si risaldano, ma in modo irregolare. Restano delle asperità, delle creste; calli ossei che ostacolano le articolazioni, limitando la nostra libertà di movimento.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (cinque)
Dovremmo prendere atto della situazione e riconoscere che il nodo del problema sta proprio nell’incapacità di dire basta. In questo ultimo anno insieme, la nostra disperata progettualità è degenerata nell’accanimento terapeutico: un’illusione, difficile dire se vissuta in buona fede o con un misto di ipocrisia e pigrizia. Vorrei che avessimo una percezione del limite oltre il quale non ha senso spingersi. Vorrei che ci fosse un istinto a guidarci, perché la mia volontà è annacquata. Lasceremo che sia l’indecisione a decidere al nostro posto.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (sei)
Sempre più spesso usciamo di casa sbattendo la porta; in cerca di ossigeno, corriamo a parlare della situazione con i rispettivi confidenti, amici di vecchia data che non possono fare a meno di prendere le nostre difese. Nell’illusione di sfogarci, finiamo per alimentare la frustrazione, gettando benzina su quell’incendio doloso che è la nostra rabbia. Ormai guardiamo con diffidenza alla serenità, come se la sfiducia fosse una forma di prevenzione contro delusioni peggiori; restiamo in guardia, perfettamente consci che la propensione al disfattismo non ci porterà alcun beneficio. È solo l’ultimo di una serie di espedienti: tecniche natatorie inadatte a contrastare il risucchio di questa nave che affonda, trascinandoci con sé.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (nell’illusione di sentirsi unici)
F. e M. realizzano contemporaneamente di aver superato un punto di non ritorno nella loro relazione, ormai prossima alla sua morte naturale. F. si sente totalmente sopraffatto dalla stanchezza; soltanto ora capisce di aver imposto al suo organismo uno sforzo costante, di cui non sembrava consapevole, pur subendone le conseguenze. Una contrazione interna, silenziosa ma continua, come un crampo; uno dei tanti crampi del cuore. Per mesi ha sopportato in silenzio la tensione: uno stato d’assedio permanente che si è presto trasformato in un’abitudine, in una versione contagiata e asintomatica della normalità. Spesso ci si scopre esausti soltanto nel momento in cui lo sforzo termina, quando si torna alla quiete e si pone la parola fine ad un’impresa che ha prosciugato ogni risorsa. F. lo ha capito all’improvviso, riconoscendo nella sua spossatezza, di cui ha appena acquisito percezione, la conferma di aver definitivamente mollato la presa.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (sette)
Si tratta di scegliere tra un taglio netto e la possibilità di non smentire la nostra tendenza alla macerazione. La quantità di dolore che ci spetta non prevede sconti, ma potremmo approfittare di questi ultimi giorni di convivenza per arrivare a disprezzarci a vicenda. Soffermare lo sguardo su questo paesaggio devastato e fissarlo nella memoria, come prova definitiva della nostra incompatibilità, potrebbe avere la funzione di un vaccino, in grado di tenerci al riparo dall’illusione di un eventuale riavvicinamento futuro. Il campo delle possibilità si è ristretto ad una scelta finale tra il rischio del rimpianto e il degrado del disgusto reciproco.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (otto)
Ho perquisito ogni stanza, raccogliendo le mie cose in quella che mi sembra essere una quantità spropositata di scatoloni. Li sto portando alla macchina, uno ad uno. Ogni volta che esco e rientro, sono costretto a passare di fianco al divano su cui sei seduta, davanti alla tv. Parliamo poco, ma a bassa voce e con un riguardo che ci mancava da mesi, stranamente simile a quello dei nostri primi tempi. Siamo tentati di toccare argomenti che ci farebbero passare dall’amarezza ad uno stato d’animo meno avvilente, come la rabbia, ma sarebbe solo un tentativo di posticipare l’inevitabile. In televisione gli atleti fissano nuovi record olimpici, conformi ad una concezione di costante progresso che ci è estranea.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (nove)
Attraversando il corridoio per uscire finalmente di casa, il mio sguardo resta impigliato nelle fotografie appese alle pareti, costringendomi a fare un passo indietro. Sono immagini di noi risalenti a non più di due anni fa, eppure in stridente contrasto con la situazione attuale. Mi fanno pensare più a un universo parallelo che al passato recente. In fondo avevamo già i giorni contati, anche se naturalmente non lo sapevamo. A quei tempi, in realtà, accusavamo già i primi sintomi delle incompatibilità che ci avrebbero diviso, ma in questi scatti in posa non se ne vede traccia. Le nostre vecchie foto mi sembrano i ricordi di qualcun altro.
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L’ELABORAZIONE DEL LUTTO (dieci)
La nostra separazione ha avuto ripercussioni su ogni singola cellula del mio organismo. Ho affrontato un lungo periodo di riabilitazione: non poter più parlare con te è stato come imparare ad esprimermi in un’altra lingua. Il fatto di provare con altre persone sensazioni analoghe a quelle vissute insieme a te inizialmente mi ha disgustato. Con il tempo ho dovuto accettare di ricorrere a dei sinonimi. Non sono state tanto le esperienze a cambiare, quanto il contesto e il modo di esprimerle, nonostante mi aspettassi il contrario. La chimica che sta alla base dei sentimenti non è particolarmente fisionomista. I meccanismi che la regolano scattano per analogia e approssimazione. Scoprire che esistono infinite declinazioni dell’amore può sembrare, in un certo senso, molto triste; oppure cinico ma confortante, a seconda dei punti di vista. Anche questa, sai, è soprattutto una questione di sistemi di riferimento.
Molto belle, Jacopo.
Mi piace soprattutto come fingi la narrazione, senza che la “trama” prenda il sopravvento. Sul finire dei testi, infatti, quando la narrazione, se fosse lineare, dovrebbe giungere ad una conclusione, tu inserisci un punto di fuga. Queste ultime righe, del resto, hanno quasi la struttura di una massima ma che, per fortuna, non costituisce la “morale della favola”, ma, all’apparenza slegata dal “narrato”, gli conferisce una miriade di significati possibili.
Luciano
Grazie, Luciano.
Mi fa particolarmente piacere che questo aspetto venga colto, dato che, in fase di scrittura, era uno dei miei punti fermi, uno dei miei obiettivi principali: comporre un ciclo di prose brevi leggibili come episodi di un micro-romanzo frammentario, come se il lettore avesse accesso soltanto ad alcuni spezzoni di un testo più ampio.
Del resto, anche quando leggo narrativa, la trama è solitamente l’elemento che mi interessa e mi coinvolge meno.
Luciano mi ha tolto le parole di bocca. La prima volta che ho letto Jacopo pensavo che l’interruzione in certi testi avvenisse da sé, un tagliare corto, una sospensione necessaria per il senso di vuoto. Era però una osservazione superficiale, perché nel frattempo, non si può fare a meno di notare, a fine lettura, l’esistenza di uno strumento più fino che Jacopo utilizza alla perfezione, un inganno efficiente ed invisibile. Quella ‘via di fuga’ appunto citata da Luciano e che pure in alcuni tratti ricorda alcune prose di Inglese. Condurre il lettore in una narrazione o in una parte di essa che ricominci da un punto/tempo X, fino ad una fine che sembra imminente, sta per arrivare e invece non arriva, perché intanto deviata su altri binari assolutamente coerenti con la narrazione, ma mai conclusivi davvero, solo partecipativi, eppure bellissimamente funzionali allo smarrimento ed al senso di distorsione.
Le ultime quattro sono quelle che mi hanno colpito di più, forse per alcuni colori del lessico, e credo sia un effetto voluto. Le prime invece credo arriveranno dopo una maggiore posa.
m.
Scusami, Marco: per qualche motivo, mentre rispondevo a Luciano, non visualizzavo il tuo commento.
Grazie per la lettura e per le belle parole. “Una fine che sembra imminente, che sta per arrivare e invece non arriva” mi piace molto.
Rimarco che a colpire è lo stallo, lo stallo di processo dell’inevitabile. O è ancora evitabile? Non si sa, non si può sapere, non si saprà mai. Quelle foto appese ai muri resteranno per sempre appese sulle pareti dei ricordi, le strade da prendere sono sempre infinite a meno di non adottare una selezione disumana e limitante. Aprirsi al vortice, affacciarsi su di esso, stare un po’ lì appesi, faccia a faccia con l’inevitabile appunto, o evitabile che dir si voglia, è uno dei massimi compiti, doveri, di chi si approccia alla scrittura, se non il principale, il supremo.
Complimenti.
Il vero logoramento, almeno per i protagonisti della vicenda qui (non) narrata, proviene dalla scelta, o dal tentativo, di colonizzare quella terra di mezzo tra inevitabile ed evitabile (a caro prezzo). Praticamente, invece di affacciarsi al vortice, sono andati a viverci dentro.
Grazie mille, Alessandro.
Torneranno con i capelli bianchi. Il Maelstrom non perdona.
Kleine Betrachtungen :)
kurzprosa :)