Su Fabio Teti. Poesia come discorso inceppato
di Andrea Inglese
È difficile, se non impossibile, dire di cosa parlino i testi di Fabio Teti. Essi fanno dell’oscurità, la proprio figura naturale: sono enunciati che costantemente eludono sia il concetto che la narrazione. Forniscono elementi di un discorso che costantemente smarrisce, s’inceppa, salta di livello. Nonostante ciò, non siamo di fronte ad una scrittura che si lascia determinare da un’eredità ermetica od orfica, fosse pure in una versione aggiornata, di nuovo millennio. I testi di Teti non pretendono di alludere attraverso parole e figurazioni enigmatiche a realtà trascendenti, a super-significati che la frase ordinaria non può cogliere. Nonostante il loro presentarsi oscuri, questi testi vanno letti nella loro letteralità: dicono esattamente ciò che dicono, pur dicendolo in modo balbettante, o eccessivamente concentrato. Parlano del mondo, della sua materialità e corporeità spesso oscena, in quanto prossima alla morte o morente. E parlano sopratutto della lingua, di frammenti linguistici che emergono sconnessi e opachi, e che si tratta ogni volta di nuovo di cucire assieme, e di interrogare. Della materialità del mondo, infatti, fa parte anche la lingua, gli enunciati, i fatti linguistici che sono colti prevalentemente nella loro forma più decaduta, reificata, ossia svuotata della sua intenzione soggettiva e consapevole. Il lavoro più recente di Teti, di cui presentiamo qui un campione, è caratterizzato dal tema beckettiano del mal intendere. E il titolo della serie di poesie è appunto Nel malintendere.
Sulla scia di Beckett e delle avanguardie, ma anche di Zanzotto, e più recentemente di Giuliano Mesa, Teti muove dall’assunto che il nesso tra significato e referente è sempre più compromesso e problematico. Quanto più potenti si fanno i canali della comunicazione, densi e onnipresenti i comunicati che ne determinano il flusso, tanto meno credibile risulta l’espressione individuale, la possibilità della lingua ordinaria di parlare del mondo. Un fortunato luogo comune vuole che la poesia sia un tipo di espressione artistica particolarmente autoreferenziale, e per ciò stesso poco friendly nei confronti del pubblico. La realtà, però, ci mostra che tutti i diversi ambiti dell’attività umana, e quello dell’informazione in primis, hanno una spiccata tendenza all’autoreferenzialità. Ciò che pare perso è il mondo, nella sua ricca e complessa rete di determinazioni. Trionfa, invece, l’autocelebrazione dei diversi media. La loro capacità di tenerci entro la bolla costante dell’informazione-intrattenimento.
Quando Teti privilegia l’opacità linguistica, lo fa per escludere una falsa trasparenza dell’espressione individuale e della comunicazione sociale, ma non per questo rinuncia ad ogni rimando referenziale. Emergono, infatti, nei frantumi della sintassi, scorci di situazioni e oggetti, di corpi e figure, esposti in una violenta nudità. Sono visuali di un mondo metropolitano, di corpi anatomizzati, di torture o di azioni di guerra. Come se fosse preclusa assieme ad ogni forma di trasfigurazione lirica anche ogni forma di dizione ordinaria, lineare. Ma proprio nell’incepparsi del messaggio, che emerge incompleto, amputato, minato da qualche anomalia sintattica, proprio in quel momento fanno irruzione anche i temi periferici: della corporeità malata, della guerra dei viventi, del divenire scoria dell’umano.
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Per (ri)leggere i testi di Teti tratti da Nel malintendre: https://www.nazioneindiana.com/2012/09/03/b-t-w-d-h-15-poesie-da-nel-malintendere-2009-2012/
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[Questo testo è apparso su Journal of Italian Translation, Volume VII, Number 2, Fall 2012]
in una realtà eternamente impegnata in riti di passaggio non ci resta che adorare l’ermeneutica superiore,capace di disvelarci un impossibile oggetto del dis-corso(l’insostenibile leggerezza dell’anabasi)
http://www.youtube.com/watch?v=O6Fg892nWPs
E se il nesso non fosse sempre così compromesso e problematico? O meglio, se la problematicità compromissoria fosse di per sé il senso della vitalità del segno?
di sicuro il nesso parole – cose è particolarmente compromesso nella poesia di Teti, è intorno a questa compromissione che mi sembra organizzi il suo discorso poetico, o in ogni caso in lui questa frattura si percepisce in modo radicale; in altre scritture, altrettanto degne, la stessa frattura può essere affrontata in modo meno frontale; sta di fatto che in molte delle scritture che io trovo interessanti e importanti si parte dalla novecentesca (modernista?)perdita d’innocenza sul nesso parole-cose.
Grazie Andrea per aver voluto condividere anche su Nazione Indiana questa tua bella riflessione. Nella quale potrei ora, mi accorgo, aprire una piccola tasca, là dove scrivi: “Come se fosse preclusa assieme ad ogni forma di trasfigurazione lirica anche ogni forma di dizione ordinaria, lineare.”
Credo di aver affrontato sinora il problema (il problema principale di questi testi; il mio principale problema) muovendomi nello spazio (poco praticabile e sicuramente maldefinito) spalancato da queste due affermazioni:
“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” (L. Wittgenstein, 1918?); “Ma, certo, di quello di cui non è possibile parlare è sempre meno possibile tacere” (F. Fortini, 1990).
Posta la ratio di questo montaggio, il rasoio di questa doppia negazione, si tratta in questi testi di sperimentare, da una parte, se e quanto un indicibile possa arretrare (o avanzare) ad ogni frase, nonostante (*e* in forza di) un certo numero di scrupoli etici, coestesi però alla messa in discussione della loro presunta giustezza; e, dall’altra, di capire *cosa* lo faccia eventualmente arretrare, e *come*, e il *cosa* e il *come*, al contrario, del suo accrescersi, aumentare.
Scrivo “si tratta” e non “si è trattato” perché dubito, nonostante tutto, che sia un lavoro in qualche modo terminato, o addirittura terminabile.
Un caro saluto,
f.
La poesia è il morto in mezzo alla casa. E il morto nessuno lo vuole. Eppure è là, matematicamente in mezzo alla stanza più grande o comunque alla stanza più accogliente o anche nell’unica stanza possibile. Ma anche l’amore allo stato nascente e allo stesso tempo l’amore che sta morendo e muore d’inedia e nonostante ciò non muore perché non vuole porre la parola fine. Le cose e i corpi sono come calendari a cui togliere i fogli dei mesi che passano. La poesia è sia vita e sia morte, perciò ride e piange e quindi vive nelle cose e al di fuori delle cose. la poesia è fine e confine e illimitatamente vicinanza e lontananza. La poesia sono le parole che si scrivono per dare ordine al caos dei sentimenti. la poesia è un ingegnere senza laurea ufficiale. La poesia non è altro che un bambino che impara a fare i primi passi e che deve comunque buttarsi nel mondo esterno a partire dal mondo interno. La poesia è parola chiusa che la bocca non pronuncia mai. Poesia è scrittura. Appartiene alle voci dei morti. Poi, canto, spettacolo, albe e tramonti in rovine.
accipicchia! eccolo quà!!!!
non l’avrei mai detto :-)))
ringrazio Inglese per aver riportato attenzione ai 15 testi “b t w b h” tratti da “Nel malintendere” di Teti.
sono testi che mi hanno lasciato molto pensare… e lo fanno tutt’ora.
le osservazioni di Inglese mi convincono. ma ho due cose ancora che mi preme…
quei 15 testi nascono da un incontro con la serie di fomontage dell’artista americana Martha Rosler: Bringing the War Back Home
si sente che sui testi di Teti (da cui “btwbh” prendono il titolo) abbia lavorato in modo efficace quella sur-reale dirompente rappresentazione(seppur non definitivamente originale) di interno ed esterno, pubblico e privato, organico e inorganico… mondo e individuo.
si sente, almeno per me, anche la riflessione di Porta sui collage poetici “L’enigma naturale” – giocoforza un punto di sperimentazione (alto) dove la deflagrazione di accostamenti massmediali (bassi) provocano un urto continuo e un effetto spiazzamento di caso e “sorpresa” nel quotidiano… stravolgendo il senso stesso della comunicazione “abituale”.
ad ogni modo il risultato di Teti è del tutto originale…
resta a mio avviso poco esplorato il campo cruciale del parlare non del mondo bensì al mondo. lo spezzone tellurico, la faglia inferta al manto di non dicibile, di non comprensibile rischia di restare appesa al muro come istantanea scheggiata di un dialogo muto, di una voce strozzata per chi le presta ascolto. Utile tuttavia per abbozzare un paesaggio umano che vive e si nutre di conflagrazioni, storiche e semantiche, di avvitamenti sulle sillabe, di stupri della civiltà.
mdp
Sono contento che la poesia di Teti susciti riflessioni e interesse, al di là del mio tentativo di fornire qualche chiave di lettura.