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Teatro Valle: una fondata occupazione

Di Valerio Cuccaroni

Sono tra i 5.300 soci della “prima istituzione del comune”: la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, nata dopo 27 mesi di occupazione dell’omonimo teatro, collocato nel centro storico di Roma, a due passi da piazza Navona, e presentata in conferenza stampa giovedì 18 settembre.Era il 14 giugno del 2011 quando un gruppo di intermittenti dello spettacolo, attori e attrici, registi, tecnici e altri lavoratori della conoscenza, penetrò, con un bliz, nello storico Teatro Valle, che, dopo i tagli dell’Ente Teatrale Italiano (ETI), rischiava di finire nelle mani di qualche speculatore immobiliare e di perdere la sua natura originaria, quella di teatro appunto. Si era all’indomani della vittoria dei referendum per l’acqua, si cominciava ormai a parlare in ogni angolo d’Italia di “beni comuni”, termine che ha ritrovato con la nascita della Fondazione la sua vera accezione, mentre era a un passo da perderla definitivamente, usato ormai in tutti i contesti, molto spesso a sproposito – basti dire che è diventato persino lo slogan di un partito che ha rinnegato il suo passato comunista, come il Partito Democratico (ricordate la campagna “Italia bene comune”?), per abbracciare l’ideologia privatista e liberista.

Una volta occupato, al Teatro Valle si è sperimentata con i corpi, con il rischio dell’arresto, della privazione della libertà, la corretta definizione di beni comuni: beni che non appartengono né allo Stato, né ai privati, ma alle comunità che li adoperano per vivere. Vale la pena ricordare, peraltro, che il Teatro Valle non è stato il primo luogo culturale occupato con il preciso scopo di restituirlo a tutta la collettività, mantenendone la natura di spazio culturale e differenziandolo, perciò, in questo modo, dalla tradizionale esperienza dei centri sociali. Prima c’era stata l’esperienza dell’ex Cinema Palazzo (www.nuovocinemapalazzo.it): lo ricorderete – il 15 aprile 2011, nel quartiere popolare e universitario di San Lorenzo, sempre a Roma, un gruppo di cittadini occupa la sala cinematografica di prossimità, che la speculazione edilizia voleva trasformare in un casinò. Il 16 febbraio dell’anno seguente una sentenza del Tar confermerà la legittimità e la giustezza dell’azione dei cittadini. Sebbene pochi lo sappiano, chi ha occupato il Teatro Valle si è rifatto esplicitamente a quella esperienza e non fa passare occasione per metterla sullo stesso piano, promuoverla, gemellarsi per iniziative comuni. Tuttavia, se l’ex Cinema Palazzo rappresenta un simbolo di come un quartiere possa riappropriarsi di uno spazio ritenuto vitale, l’occupazione del Teatro Valle ha assunto una portata più generale e internazionale, anche grazie a un intenso lavoro di ricerca e sviluppo, per così dire, a braccetto con esperti di vari settori, tra cui giuristi militanti come Stefano Rodotà e Ugo Mattei, da cui è nata l’idea di creare una Fondazione che legittimasse l’esperienza compiuta in quello spazio. Sulla portata giuridica della nascita di questa istituzione, lascio che siano altri a esprimersi ma non possiamo nasconderci che è qui, in esperienze come questa, che sta prendendo forma la politica radicale del ventunesimo secolo. La Fondazione Teatro Valle ha avverato il sogno di Occupy Wall Street. L’eco di questa nascita è già internazionale.

Concludo con una nota biografica per cercare di mostrare da quali processi quotidiani nasca la mitopoiesi del Valle. La prima volta che sono stato al Teatro Valle Occupato, nel 2012, mi sono trovato nel bel mezzo di un’assemblea di gestione degli attori, registi e tecnici occupanti, e sono stato inviato ad assistere: ho trovato un gruppo intergenerazionale, coordinato per l’occasione, con piglio fermo e deciso, da Ilenia, attrice e ballerina che si può ammirare su Youtube in molti filmati dedicati al Valle; un gruppo che era già un punto di riferimento in Italia e all’estero (oltre a quella

dell’«Economist», molte sono state le visite di troupe provenienti da tutto il mondo per documentarne l’attività). In quell’assemblea si discuteva, oltre che di azioni di tango guerrilla e di gestione del servizio tecnico (i tecnici si lamentavano dell’eccessiva mole di lavoro e della scarsa organizzazione), del lancio della campagna per la creazione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. La campagna è stata poi condotta al grido di “cultura bene comune” e “la bellezza non può attendere”. E ora è entrata nella storia.

8 COMMENTS

  1. … no è che sto pensando a tutte quelle compagnie che un teatro non lo hanno e fanno teatro ugualmente; girano tra cantine e scantinati, hanno un loro pubblico, nessuna sovvenzione..eppure.

  2. @Ares: non capisco a cosa alludi. Mi sembra che il tuo discorso sia tautologico e non abbia nessun collegamento con il post.

    • Diciamo che le esperienze di occupazione non mi piacciono, preferirei che si lottasse non per “uno” spazio comune ma per “degli” spazi “pubblici”. “Lo” spazio comune , di solito viene utilizzato da una stretta cerchia di amici, che danno spazio solo ai propri amici. L’esempio di Macao a Milano, che posso osservare direttamente, non mi piace: si è chiuso a riccio e per fare al suo interno qualsiasi iniziativa è necessario chiedere un permesso ai padri fondatori.. che dopo essersi appropriati di uno spazio, non loro, pretendono anche di gestirne gli ingressi.
      Diciamo che preferisco degli spazi aperti, spalancati, pronti ad accogliere tutto e tutti, senza manifesti programmatici. Per me gli spazi sono una cosa, le correnti, i gruppi, le fondazioni, un’altra… che in questi spazi devono avere accesso, senza sbarre all’ingresso.

      • Uno spazio come lo vuoi tu esiste: la piazza. In piazza possono passare tutti, non devi chiedere il permesso per ergerti sopra un gradino e declamare una poesia. Ma anche lì, visto che c’è qualcuno che la pulisce e che rimette a posto i sanpietrini divelti, qualcuno che si occupa della sua gestione e manutenzione, se vuoi andare a fare una bancarella di roba tua, devi chiedere il permesso. È nella natura dello spazio, che è limitato e va regolato, altrimenti diventa terreno di caccia.
        Nel tuo risentimento per gli spazi pubblici, occupati e autogestiti, scorgo piuttosto motivazioni personali e geografiche (a quanto mi dicono a Milano quella della consorteria è una condizione ontologica). Vacci, al Valle, fatti un giro, poi ne riparliamo. Può darsi che anche lì, respirerai la stessa aria milanese. Può darsi di no, però.

        • No, no quello che voglio io è uno spazio come il Valle, coperto e riscaldabile nelle giornate di inverno…

          Anzi ti dirò, avrei uno spettacolo sul manicomio da fare, e mi servirebbe un luogo, coperto e riscaldato, come il Valle(appunto). Nelle scorse settimane l’ho dovuto mettere in scena in uno scantinato di una fabbrica dismessa, con fessure e nessuna sicurezza, e oggi sono allettato con 38 di febbre.

          Sai a chi devo chiedere il permesso, li al Valle ? esiste un ufficio pubblico al quale far riferimento semplicemente per mettersi in lista d’attesa ? se non c’è lascia perdere, aspetto l’estate prossima.

          • Non ne farei una questione geografica, la consorteria è un male endemico italiano.
            E se al Valle non c’è una lista d’attesa, è un male anche del Valle.

  3. L’esperienza del Teatro Valle sarebbe davvero da studiare con attenzione. A differenza di altre esperienze con gli stessi propositi ma molto meno riuscite per evidenti ragioni opposte a quelle che hanno contribuito al successo dell’esperienza Valle (penso per esempio a TQ), il Teatro Valle è stato sin dalla sua occupazione non (solo) un atto rivendicativo o di protesta o di manifestazione di dissenso, ma è diventato la piattaforma di sperimentazione di un nuovo modo di fare società, di fare cultura, di fare teatro etc. Dopo anni di sperimentazione senza emissioni di manifesti né decreti legge approssimativi e dopo aver visto che funziona, il Teatro Valle è diventato una fondazione, un segnale per dire a tutti quelli che vogliono sentire che un altro modo di fare le cose esiste e funziona. Ecco, bisognerebbe che tutte le esperienze che nascono dal dissenso funzionassero allo stesso modo, creassero nuovi spazi etici e politici senza cercare di accaparrarsi quel che resta dei vecchi.
    Davvero in bocca al lupo a questa bella cosa
    Luigi B.

  4. @Luigi B: concordo. Occupare – legalmente o meno – uno spazio è in effetti una condizione di vita.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.