Per una poesia irriconoscibile
[Questo testo è apparso sul numero 32 di “alfabeta2” di settembre-ottobre, in un dossier dedicato alla poesia contemporanea, con interventi di A. Cortellessa, M. Giovenale, M. Manganelli, C. Petrollo Pagliarani.]
di Andrea Inglese
C’è qualcosa di così palesemente inattuale nella figura del poeta da renderla nonostante tutto ancora allettante e carismatica. Nessuno sa più bene cosa farsene, ma sembra impossibile rinunciarvi una volta per tutte. Ciò dipende, credo, da una buona ragione. Si percepisce oscuramente che il poeta è un po’ l’antitesi degli eroi del nostro tempo: i manager, gli imprenditori, le star dello sport e dei media di massa, gli scrittori di best-seller planetari. D’altra parte, la poesia nella sua forma moderna, ossia lirica, nasce con questa precisa connotazione ideologica: nella metropoli ottocentesca, l’attitudine del poeta, almeno da Baudelaire in poi, si costruisce per opposizione a quella dell’uomo d’affari; da un lato, l’enunciato lirico che corrisponde alla singolarità di un oggetto o di un’esperienza, dall’altro, il denaro come equivalente universale e la ratio economica che ne governa l’uso[1].
A questa buona ragione, però, se ne aggiungono alcune cattive, che contribuiscono a mantenere vivo, seppure in modo intermittente e disinvolto, il culto del poeta. Le pagine culturali dei quotidiani ce ne forniscono alcuni esempi quando saltuariamente decidono di evocare le bizzarre vicende biografiche di un poeta defunto, oppure di onorarne la senile saggezza. L’antitesi di cui sopra, con tutto ciò che implica di irrisolto e problematico, diviene nella versione giornalistica una pacifica divisione del lavoro: al poeta, il privilegio di predicare e di promettere un supplemento d’anima, a tutti gli altri di dedicarsi impietosamente, per quanto è possibile, alle carriere redditizie e ai lauti consumi. Da qui una convinta retorica della resistenza, che piace molto ai poeti del nuovo secolo, giovani e meno giovani. Ecco allora la poesia farsi custode di autenticità, di valori antichi (bellezza formale), di cura artigianale per il linguaggio, di rurale immaginazione, ma anche di civili indignazioni e velleità epiche. Di fronte alle minacce dell’incultura e dello spettacolo ad oltranza, la poesia sarebbe l’espressione, e dunque la garanzia, di una qualche incontaminata interiorità: sentimenti schietti, immagini profonde, significati ultimi.
Questo vario fronte poetico, che resta in qualche modo dominante in Italia, e soprattutto ben riconoscibile all’interno del mondo letterario, ignora però – o si comporta come se le ignorasse – alcune circostanze storiche: nella società tardo-capitalistica in cui viviamo, l’autenticità è una merce, e l’intimità un mercato estremamente dinamico e in espansione. L’industria dell’informazione ha compiuto meglio di qualsiasi altra il ciclo che va dalla produzione generalista a quella individualizzata. E soprattutto ha fornito ad ogni individuo, come nel sogno delle avanguardie novecentesche, le protesi tecnologiche per una (sedicente) libera creazione di sé. Ogni consumatore degno di questo nome è oggi sorgente e terminazione di un flusso in entrata e in uscita di immagini ed enunciati, che gli forniscono l’illusione di essere padrone se non della propria vita, almeno della fetta più intima di essa – quella comprimibile in uno smartphone o nella propria pagina Facebook. Nessuno vuole qui dire che il doppio flusso non comporti un qualche grado di creatività, di libera e marxiana produzione di se stessi, a patto però di riconoscere a monte una coesistenza inestricabile di stereotipi e invenzione, d’idiozia e intelligenza, di autonomia e alienazione, di regressione ed emancipazione.
Solo accettando di esplorare questo intreccio in modo assolutamente spregiudicato, mi sembra sia possibile alimentare ancora oggi la componente critica insita nella poesia. Ciò significa che la scrittura poetica si pone non solo in conflitto con l’ideologia dominante e i suoi modelli di percezione della realtà, ma anche con qualsiasi discorso edificante, fosse pure quello associato a prospettive antagoniste e rivoluzionarie. La scrittura poetica, infatti, si fa carico soprattutto di ciò che mina quella indispensabile articolazione tra discorso e azione, tra dicibile e visibile, su cui si erge ogni ordine sociale, ma anche ogni organizzata forma di contestazione[2]. Da qui il carattere tendenzialmente non narrativo della scrittura poetica, che si specializza nella configurazione di paesaggi più o meno disastrati e discontinui. Gli elementi primi di questi paesaggi sono inevitabilmente “parole vuote” e “oggetti muti”, e più generalmente residui inerti di flussi che tendono a fondersi con l’inesauribile e insignificante materialità del mondo. Per questo motivo chi pretende di scrivere in nome o a difesa della nostra umanità si muove nel cerchio rassicurante di ciò che dà senso e corrisponde alle figure conosciute dell’umano, senso e figure ogni giorno smentite non solo dal volto disumano della storia, ma anche dalla distruzione del non-umano a cui la nostra specie è dedita con crescente successo. Il “partito preso delle cose” significa, allora, privilegiare nella costruzione del paesaggio tutto ciò che non è umano, viaggiando attraverso salti di scala che oscillano tra il micro e il macro, e discontinuità temporali che giustappongono cronologie individuali e collettive, di specie e planetarie. La concentrazione sul dato materiale e oggettivo non implica la riproposizione di qualche caricaturale azzeramento del soggetto. Il soggetto, infatti, è ciò che ogni volta, seppure in modo incompiuto e provvisorio, tenta di comporre il paesaggio di cui fa parte. È una sorta di agente rivelatore, che con cura lascia emergere quanto le narrazioni individuali e collettive della società attuale lasciano nell’ombra, sorta di universo residuale, estraneo ai piani ordinari di soddisfacimento o sfruttamento dell’esistente. Ma l’orientamento all’oggetto neppure dev’essere salutato come l’occasione per liquidare la specifica materialità del linguaggio in favore di un’ideale trasparenza comunicativa. Si tenga a mente la nettezza concettuale del Tractatus di Wittgenstein: “Il mondo si divide in fatti”, “Noi ci facciamo immagini dei fatti”, “L’immagine è un fatto”. Francis Ponge ce lo ha ricordato a sufficienza: il poeta vive tra il mondo delle cose e quello delle parole, mondi diversi, ma entrambi materiali e dotati di un ineliminabile grado di opacità.
Queste indicazioni non hanno come scopo di indicare tendenze o poetiche, che dovrebbero garantire in qualche modo della qualità letteraria di chi scrive poesia. La poesia che più ci interessa, oggi, non è (spesso) nemmeno riconosciuta come tale. Invece di resistere si fa invadere o invade, invece di esprimere l’interiorità si fa strumento di ricezione dell’esteriorità del mondo, invece di procedere secondo ordini formali ereditati costruisce di volta in volta forme al limite del disordine, invece di celebrare i grandi significati si espone al non-senso e all’insignificanza. A dirla tutta, molti scrittori in Italia rinuncerebbero volentieri ai dubbi privilegi della figura del poeta, per praticare semplicemente, indifferenti alle corsie editoriali e alle tassonomie critiche, una letteratura generale.
[1] “Ma economia monetaria e dominio dell’intelletto si corrispondono profondamente. (…) L’uomo puramente intellettuale è indifferente a tutto ciò che è propriamente individuale, perché da questo conseguono relazioni e reazioni che non si posso esaurire con l’intelletto logico – esattamente come nel principio del denaro l’individualità dei fenomeni non entra.” Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito [1903], Armando, Roma, 1995, p. 38.
[2] È forse Jacques Rancière, nel suo Politique de la littérature (2007), ad aver meglio di altri indagato le ragioni che distinguono la scrittura letteraria dall’oratoria rivoluzionaria.
sarà, sarà (questa letteratura generale), e però qua si continua a confondere il genere lirico con la poesia tout court.
e poi si può ancora fare della grande poesia cortigiana, chi ha detto che sia impossbile? la poesia non è per forza opposizione, che scemenze sono queste?
trattasi, la poesia, di discorso ritmato, nulla più e nulla meno, e non se n’è mai prodotta tanta quanto in questi tempi, e molta di questa poesia ha una diffusione che non è mai stata così vasta. potrà essere brutta poesia, non lo nego, sebbene mi capita di leggere distinti autori del verso libero lirico ermetico che farebbero la gioia di Laura Pausini.
imparate a chiamare le cose col proprio nome:
1) se vi occupate di lirica, non vi state occupando di poesia, ma di un suo sottinsieme;
2) se vi occupate di poesia “alta”, o di “buona” poesia, non vi state occupando di poesia, ma di un suo sottinsieme;
3) qualsiasi discorso che intenda parlare del “ruolo della poesia” nella società contemporanea non può essere fondato sull’analisi di un sottinsieme del sottinsieme, quello della “buona” lirica.
Infine: non è vero che molti scrittori rinuncerebbero volentieri ai dubbi privilegi della figura di poeta, anzi, sono enormemente più quelli che ambiscono a questi privilegi senza raggiungerli (e se ne lamentano).
Il privilegio principale del poeta è quello di poter istituire la verità del proprio discorso anche contro il buonsenso, non mi pare affatto un privilegio dubbio.
[…] Per una poesia irriconoscibile | Nazione Indiana. […]
la poesia come ripresentazione della realtà
http://www.youtube.com/watch?v=ivvv3-vJ-O4
La poesia resta un’ecologia del linguaggio come luogo della dicibilità e dell’accettabilità dell’esistenza arazionale nonostante tutto e nonostante noi.
La mercificiazione dell’autentico e dell’intimo (individuo) è ovviamente in atto, così come la mercificazione (e della contestuale, paradossa, svalutazione) dell’acqua, dell’aria, della terra. Le conseguenze della mercificazione-svalutazione dell’acqua, dell’aria, della terra, sono evidenti.
*mercificazione dell’autentico, of course
Credo che la poesia oggi più che mai, almeno oggi più che ieri, debba essere ricerca non tanto di strutture letterarie, quanto di strutture mentali, di nuovi significati che possano dar senso al repentino cambiamento che viviamo (che ci sta vivendo). Il poeta è questo, deve essere questo, un creatore di nuovi e universali significati. Tutto il resto è letteratura, è prodotto, è inutile come materiale poetico.
[…] Andrea Inglese, Per una poesia irriconoscibile in “alfabeta2″ n. 32 ora in edicola, e in Nazione indiana: https://www.nazioneindiana.com/2013/09/23/per-una-poesia-irriconoscibile/ […]
Poesia? Bob Dylan, Elvis Costello, Leonard Cohen. Ma nella grecia antica, quella mitizzata dei libri del liceo, le arti non erano tutte comparate e poi puf! sono state separate? La modernità non ha fatto si che puf! si riunissero di nuovo? Ma le arti propriamente dette non sono morte?
It’s oh so quiet
http://youtu.be/htobTBlCvUU
E lo stile? Dov’è finito lo stile? Lo stile è finito quando alla voce si è sostituita la vociferazione, lo sappiamo. Sono cento anni che, sulla scena della poesia, il soggetto arretra, con passo sicuro; il funerale della sua baldanza, dopo le sanzioni di Palazzeschi, lo tiene l’ultimo dei celebranti dello Stile, Landolfi: che lo gonfia e lo fa scoppiare a botte di spacconate e di piagnistei.
Ultimo celebrante dello stile e voce postrema dell’io romantico, Landolfi scrive apposta una poesia esterna ed estranea rispetto a TUTTA la sua coeva. Scrive infatti uno stile morto, è uno scrivente morto. Ben lo sa Sanguineti. Landolfi scrive addirittura il Landolfo di Benevento! Però lo stile, per defungere, ha anche bisogno d’altro, e cioè della fine della storia come processo lineare; questo perché è stato, per secoli e millenni, la sintesi ideale del Sentire Soggettivo dell’Artista e della Tradizione che avanza, intesa come storia delle lingue, delle letterature e delle arti, mutare e affinarsi del gusto, etcoet.
La poesia si nutre di nuovi ed eterni significati. Nuovi ed eterni, due paradigmi.
Caro Andrea l’analisi lucida che fai di un certo tipo di poesia (che mi va di ribadire non è l’unico né dovrebbe esserlo) e cioè di un certo tipo di discorso, è interessante e la condivido, nel senso che ho tratto più o meno le tue stesse conclusioni.
La domanda però che mi pongo e che mi va di porti è: a che pro? Se la poesia si configura come uno spazio all’interno del quale si produce un possibile nuovo ordine del discorso sul e nel mondo, cioè un nuovo ordine del senso che produce o vorrebbe produrre conoscenza, a che pro ri-produrre il disordine del mondo, la sua insignificanza ed il suo non senso? Voglio dire (in maniera decisamente provocatoria ed assolutamente non polemica): se come dice Wittgenstein il mondo si compone di fatti e del loro disordine, pperché si sceglie di scrivere piuttosto che tacere su ciò che non si può dire? Spero di essere riuscito a farmi capire.
Luigi B.
“una prigione mostrata non è più una prigione” (Michaux) (per esempio)
caro Luigi,
il tuo intervento mi sembra l’unico, ad ora, interlocutorio e che per altro individua un punto cardine del mio pezzo. Si può davvero prendere come punto di partenza l’antitesi ordine-disordine. E questa potrebbe essere davvero l’occasione sia per me di approfondire la mia visuale, sia di confrontarmi con quanto dici. Spazziamo via subito un equivoco possibile: per me il problema non è difendere una scrittura poetica che si voglia mimetica nei confronti della realtà. Nessun neo-neo realismo, tanto meno in salsa avanguardistica. (Ciò non toglie che tutti i riferimenti alla realtà, ossia ai saperi che ci permettono di decifrarla sono, per chi scrive, sacrosanti. Ma non ci si limita a mettere in versi un bel saggio di analisi politica o sociologica.)In estrema sintesi il problema è questo: ri-costruire poeticamente un ordine del mondo è in qualche modo la molla – forse questa sì universale – della scrittura. Il punto è dove si situa, su quale frontiera, questa opera di ro-costruzione? Si situa in mezzo alle macerie reali, o di fronte a una fotografia ingiallita dei vecchi tempi, di fronte alla bella cattedrale gotica prima che ricevesse la sua razione di bombe? Un ordine per non essere aprioristico, vuoto, puraente formale, dogmatico, nostalgico, di maniera, deve confrontarsi con una materia che non è organizzata, che è una materia degradata, che in termini molto concreti E’ LA NOSTRA IDIOZIA, mentale, lingustica, culturale.
In Italia, c’è stata nella narrativa una presa di coscienza di questa faccenda all’epoca della moda della letteratura cannibale, con tutto il suo corredo di immaginario neo-pop. Globalmente, quel periodo non ha forse prodotto grandi opere, ma è stato fondamentale, almeno per la narrativa. Lo è stato perché ha preso il toro dell’immaginario mediatico e berlusconiano per le corna. In poesia il discorso è molto più articolato e mediato, ma un passaggio fondamentale è affrontare lo sguardo di medusa non dell’INDICIBILE, ma della grande idiozia insensatezza di tutto IL DETTO, la massa degli enunciati prodotti socialmente e a mezzo delle nuove tecnologia. Non si tratta di posri in un’atteggiamento di mera registrazione. Almeno, non per me. Si tratta di costruire un mondo possibile a partire dagli elementi di QUESTO mondo, o di questi mondi esplosi. Chi salta a piè pari nel senso e nella forma alta, rischia di indossare un bel vestito di scena, che blocca i movimenti più imprevisti e interessanti.
Anche negli altri commenti vi ho trovato spunti interesanti, ma mi sembrano più assertivi. Che va bene. Ognuno, in modo più o meno chiaro e succinta, ha voluto dire qualcosa di questa fantomatica domanda: che cosa è la poesia?
Questa la mia.
Salvare il salvabile, ripartire dalle “macerie reali” e anche dai ruderi della “cattedrale gotica bombardata”, integrare il tutto con con i nuovi enunciati, siano essi tecnologici o sociologici, detti o non detti. Fondamentale però, in questa ricostruzione di ruolo e di senso, non dimenticare la partecipazione del lettore. Senza lettori la poesia non esiste, non ha senso a priori.
In effetti il poeta non può mai decadere – il poeta secondo la mia opinione è un filosofo, che non si prende la briga, per snobismo e anche per dolore esistenziale, di scrivere un trattato e “spiegare” LE PIAGHE DELLA SUA E DELL’ETERMA ESISTENZA.
Caro Andrea,
Ti ringrazio per le delucidazioni. Voglio però specificare meglio ciò che voglio dire e riformulo la domanda tenendo a mente wuel che hai detto con una premessa.
La premessa è che il mio discorso è di ordine strettamente personale, parlo cioè di quella che sento essere una mia esigenza, di ciò che io penso e non di ciò che credo nel mondo della poesia si dovrebbe pensare. Partendo da questa mia esigenza, la mia conclusione è che se io leggo o scrivo è per fare ordine. Non ho altri scopi. È alla luce di tale esigenza che mi pongo la seguente domanda: essendo di per sé fastidiosamente evidente la mia assurda presenza nel mondo così come l’assurda presenza del mondo in sé, cciòche pretendo da una lettura o da una scrittura è un ordine o senso possibile piuttosto che la riproduzione Di questa fastidiosa assurdità. l’ordine o senso cui mi riferisco non è né neo realismo né si tratta di un discorso sull indicibile o di bella letteratura dalla forma elevata – mi vanno bene anche le etichette del sapone. Parlo piuttosto di un ordine del discorso teleologico della contingenza piuttosto che metafisico o della immanenza. In altre parole, nessuna finalità ultima né senso pieno della vita, ma solo un gancio a cui rimanere appeso un’altra giornata fino all’ora del sonno. È in base a ciò che ho posto il mio interrogativo, e cioè: siccome sono perfettamente consapevole della mia idiozia e della mia assurdità, una poesia che si limiti a ricordarmelo non mi è di nessuna utilità nella misura in cui non mi offre altri spunti di riflessione per la costruzione di un discorso alternativo con il quale intrattenermi. Tutto qui.
@renata morresi: se una prigione mostrata non è più una prigione allora cos’è? Una prigione al quadrato suppongo. Ecco ricollegandomi al precedente discorso, oltre a mostrarmi con lucidità la prigione, da una lettura o scrittura io pretendo che mi indichi un modo non di uscire (ché non c’è) ma un modo di viverci dentro meglio o in maniera diversa da quanto io so già fare.
ad alessandro chiappanuvoli,
nelle cose che dici condivisibili vi vedo pero dei punti assai problematici|1 l idea di una poesia universale {vedi tuo primo commento}e |2 l idea di lettore…
cerchero di risponderti con calma piu tardi su questi due punti… (e da una tastiera con accenti!}
a luigi
idem, mi piacerebbe risponderti nel merito di quanto hai scritto
[…] Andrea Inglese, Per una poesia irriconoscibile in “alfabeta2″ n. 32 e in Nazione Indiana […]
Mi inserisco nell’interessante scambio tra Luigi B. e Andrea Inglese. Sottoscrivo in pieno l’ultimo intervento di Luigi, aggiungendo che non mi pare in contraddizione con quanto detto da Andrea: semplicemente, il “ri-costruire poeticamente un ordine del mondo” (obiettivo condiviso) non deve procedere da un a priori che dia questo ordine per scontato (perché ereditato o immanente), ma piuttosto partire da e affrontare le macerie – la “nostra idiozia”, insomma. Dove il discorso di Inglese mi lascia perplesso è invece sulla questione dell’umano. Il mondo interiore è sempre più privato di autenticità, vero. Eppure: questa interiorità esiste. E non solo come mercificato “supplemento d’anima”; che sia scaduta a questo, anzi, richiede a maggior ragione un recupero – una ri-costruzione – di ciò che il contesto socio-culturale (di cui l’industria dell’informazione è forse oggi il braccio armato più efficiente) ha distrutto o comunque invalidato. Quindi l’umano: non come anacronistico o mistificante dato di partenza, ma come qualcosa che sta al termine del processo, come ordine che la poesia ha lo scopo di ristabilire. Forse l’interiorità non va espressa, ma raggiunta, in un atteggiamento che non sia di resistenza passiva alla realtà ma che converta la necessaria “ricezione dell’esteriorità del mondo” in una (non aprioristica) ri-edificazione.
[…] [in «alfabeta2», n. 32, settembre-ottobre 2013, p. 23 e https://www.nazioneindiana.com/2013/09/23/per-una-poesia-irriconoscibile/%5D […]
[…] Qui dovrebbe cominciare un parte propositiva e partigiana, nella quale io fossi in grado di proporre alcuni criteri, e soprattutto di giustificarli. Il problema non è tanto dire: leggi questo libro prima di quello. Il problema sta nello spiegare perché uno dovrebbe seguire tale consiglio. Da tempo, e in diverse occasioni, sto cercando di formulare e giustificare dei criteri per stabilire gerarchie nel campo. Non posso qui che rimandare a questi interventi specifici, l’ultimo dei quali è questo. […]