Appunti sulle categorie zombie e sulla nozione di gerarchia nel campo letterario

di Andrea Inglese

Utilizzerò questo post come un pro-memoria, una pagina di diario dove appuntare (in pubblico) alcuni nodi che mi interessano, e formulare ovviamente buoni propositi intellettuali: “è ora di chiarire questo, di approfondire quest’altro, ecc.”. L’innesco di queste riflessioni è stato l’intervento di Giulio Marzaioli e, anche, un commento di Mariangela Guatteri, sulla “poesia di ricerca”.

Sono andato a rileggermi, innanzitutto, l’indice del n° 3 (aprile 2007) di Per una critica futura. Quaderni di critica letteraria. E ho constatato che una parte del numero – consultabile qui – era dedicato al tema della “poesia di ricerca”, in forma di dialogo plurale a cui parteciparono Biagio Cepollaro, Marco Giovenale, Giorgio Mascitelli, Davide Racca, Marina Pizzi, Carlo Dentali, Giuliano Mesa, Gherardo Bortolotti e lo stesso Giulio Marzaioli. Non sono andato a rivedermi tutto questo materiale, ma c’è un passaggio del mio editoriale che vorrei riproporre. Eccolo:

“In uno dei suoi interventi nel Dialogo a più voci, Cepollaro scrive: “Il Novecento credo sia più lontano di quanto noi tutti siamo disposti ad immaginare. La difficoltà ora sta nell’orientarsi e nel riconoscere queste alterità.” Mi sembra un buon punto di partenza per introdurre questo corposo e denso terzo numero di Per una critica futura. È vero, il Novecento è alle nostre spalle, ha iniziato ad esserlo probabilmente dal 1989, ma in ogni caso nel giro di circa un ventennio una quantità di strumenti concettuali hanno subito un precipitoso invecchiamento. Questo è ovviamente valido anche per quegli strumenti che utilizziamo nella riflessione sulla letteratura e, più in particolare, sulla poesia. Ma a differenza di quanto dice Cepollaro, non credo che sia possibile “confrontarsi” alla pura alterità. Noi ci troviamo piuttosto in una terra di mezzo, in una zona non ben definita, all’interno della quale fantasmi di oggetti conosciuti si confondono con sagome di oggetti del tutto nuovi. E malgrado i fantasmi siano tali, ossia nature fluttuanti e quasi inconsistenti, sono anche gli unici elementi orientativi di cui disponiamo. Questi fantasmi assomigliano a ciò che alcuni sociologi definiscono “categorie zombie”, ossia concetti che continuano ad essere utilizzati, pur avendo perso il loro potenziale euristico. Eppure le categorie zombie sono in qualche modo indispensabili per traghettarci nel nuovo mondo, tra fenomeni inediti e solo parzialmente riconoscibili. L’importante, in tali circostanze, è rendersi conto che si sta operando a partire da fantasmi, e non da solide e indiscutibili armature concettuali. Noi, in questo numero della rivista, abbiamo lavorato accanitamente a partire da alcuni concetti fantasma: “avanguardia”, “sperimentazione”, “ricerca”, per citare la triade principale. (…) Noi non abbiamo riflettuto su questi termini, per restaurarne un’immagine fedele e adeguata, per restituire ad essi una presenza che sfuggiva. E in questo Cepollaro ha perfettamente ragione. In una conversazione, mi disse: “Facciamo questo lavoro, parliamo ancora di questo, per non doverlo poi fare più”. Non so se la metafora della “giusta” sepoltura, sia quella adeguata e solo seppellendo questi nomi, constatandone la loro esaurita utilità, anche i loro fantasmi cesseranno di abitarci. Il problema è più complesso: nel fantasma qualcosa di ancora vivo, e che vuole essere raccolto dai vivi, si presenta con le sembianze di una persona ormai morta. Credo che il nostro lavoro in questi interventi sia stato dedicato soprattutto a carpire che cosa ancora ci parla, nel paesaggio del XXI secolo, di certe esperienze cruciali del XX.”

Ho voluto ricordare il numero di Per una critica futura proprio per mostrare come delle “categorie zombie” non ci si liberi facilmente. Penso che lo scopo principale del post di Giulio Marzaioli sia proprio quello di seppellire il fantasma della “poesia di ricerca”, per fare spazio a nuove categorie e a un diverso paesaggio. Intento sacrosanto. Sennonché debbo constatare una cosa: la prima sepoltura, ben sei anni fa, non ci è tanto riuscita, nonostante avessimo spalato in tanti! Mi verrebbe un po’ amaramente da pensare che ciò è la conseguenza di un fenomeno di cui mi accorsi proprio allora, curando quei “quaderni di critica” in rete: nulla sembra sedimentarsi nel dibattito letterario, e in quello che riguarda la poesia in particolare. Siamo costretti ad un eterno ricominciamento. Forse, però, le cose non stanno proprio così. Innanzitutto, forse, ci sono buone ragioni perché i seppellimenti prendano un certo tempo. E, inoltre, gli attuali “enunciati critici” di Marzaioli, pur assomigliando negli intenti, a quelli già espressi sei anni fa, entrano in un nuovo contesto, in un paesaggio che è realmente mutato, e vengono percepiti diversamente. Vengono percepiti, oggi, più chiaramente. Così mi sembrerebbe di capire anche considerando l’interesse, nei commenti, che il suo post ha provocato.

Benissimo. Noi per primi, noi-quelli-che-verrebbe-da-catalogare-nella-poesia-di-ricerca, diciamo che si tratta di una categoria inservibile. L’intervento di Mariangela Guatteri tocca un’ulteriore categoria, più livida e mortavivente che mai, quella di “avanguardia”. E scrive Guatteri:

“Molto d’accordo con quanto scrive Giulio. Questa impossibilità di definizione e l’inutilità dello sforzo di inserire la c.d. scrittura di ricerca in una qualche categoria, indicano, per ora, le sottrazioni più utili per orientarsi in un ambiente privo di puntatori (riferimenti unici). Mi viene in mente l’immagine di un open space nel quale costruire di volta in volta luoghi di senso, dispositivi mobili e leggeri. Mi viene in mente qualcosa di portatile e vuoto.

Penso che in tali condizioni risulti del tutto inutile la ricerca di costanti sulle quali organizzare una qualche forma a funzione tassonomica, cioè un modello al quale riferirsi per riconoscere e classificare un “testo di ricerca”.

Viene abbastanza immediato accostare al termine “ricerca” un significato di “progresso”, “evoluzione”, “movimento in avanti”, presupponendo un punto di partenza e un punto di arrivo (o a cui tendere), una direzione, come se l’esperienza e la conoscenza – che l’azione della scrittura mette in moto – si risolvessero percorrendo un vettore. Non ci sarebbe in questo caso alcuna esplorazione.
Non riesco ad immaginare alcun punto avanzato, davanti a qualcosa che sta in retroguardia; penso invece a una condizione di spostamento, a un attitudine all’ubiquità, e a tali condizioni non concorrono né lo stile né la poetica. Concorrono piuttosto tecnologia e metodi/procedimenti della parola, che sono la scrittura e i suoi vari attrezzi (questi ultimi spesso fraintesi o confusi con il risultato [ahimè] atteso).”

Qui si tocca un altro punto fondamentale. Spazziamo via la metafora temporale della freccia, del progresso, del chi viene prima e chi rimane indietro, avanguardia e retroguardia, ecc. Qui bisogna andarci con le ruspe e non solo con le pale, in quanto si va a seppellire non una semplice e locale categoria di critica letteraria, ma uno schema culturale, ideologico, ben più vasto. Ma è evidente, sono anch’io d’accordo, che quello schema, per come oggi circola, è per noi inutilizzabile.

Cosa otteniamo dopo queste operazioni? Io direi: la pluralità democratica delle poetiche e degli stili. La simultaneità parimenti legittima di tutte le scritture all’interno del campo. L’esigenza di ritarare tutti gli strumenti di lettura e analisi. E così via. Resta però un problema. Molte delle categorie novecentesche – che ora sono un po’ moribonde – svolgevano un ruolo indispensabile: creavano gerarchie nel campo (letterario). Attenzione: dico gerarchie, non “classifiche”. Il XXI secolo conosce benissimo le classifiche: di popolarità, di vendita, di numero di contatti, ecc. Anche le classifiche, a loro modo, producono gerarchie, ma sono gerarchie poco utili per la “cosa letteraria”. Sono strumenti che possono servire un certo tipo di logiche, promozionali, pubblicitarie, di rendimento economico, ecc. Poco pertinenti, comunque, per la “cosa letteraria”.

Siamo confrontati anche qui ad un sentimento diffuso. Una reazione a questo, in anni recenti, è stata il ritorno della categoria di “qualità”. (Dico “ritorno”, ma forse si tratta solo di un’emersione in primo piano di una categoria già radicata e presente.) Caso esemplare di questo fenomeno: le classifiche di qualità del premio Dedalus, organizzate per altro con notevole intelligenza. Di “qualità” letteraria si è parlato molto anche in TQ. Per parte mia, non ho mai fatto mistero che questa faccenda della “qualità” letteraria mi lascia molto insoddisfatto. L’uso del termine “qualità” si associa per me sempre al monito di Quine no entity without identity, che potremmo contestualizzare così: “nessuna qualità letteraria senza aver prima esplicitato quali sono i criteri d’identificazione di tale qualità”. Ma cosa sono dei criteri in grado di stabilire la “qualità” di un testo letterario? Sono semplicemente degli strumenti atti a produrre gerarchie nel campo. Un classifica di qualità, applicata ad esempio alla poesia, ha questo significato: elencare i titoli da leggere prima degli altri. Non possiamo leggere tutto, la nostra vita è breve. Ma perché dovrei avere bisogno di qualcuno che mi dica quale libro leggere prima e quale leggere dopo (se mi resta tempo)?

Sono un lettore che quando vuole leggere poesia, va in una libreria per (eventualmente) acquistare un nuovo libro uscito. Ora, sappiamo bene che, per come funzionano le librerie oggi, e la distribuzione, e le case editrici, insomma, tutto il mercato editoriale, è molto probabile che, in una tale situazione, mi capitino in mano solo pochi libri rispetto a quelli che si pubblicano, e probabilmente tra quei pochi non ci sono neppure quelli che varrebbe la pena di leggere prima. Le classifiche di qualità, quale che sia la loro forma, permettono di stabilire una gerarchia meno casuale.

Rimane un problema: una gerarchia deve esplicitare i suoi criteri, e dire chi e perché viene prima rispetto a chi e perché viene dopo. E qui, l’ideologicamente neutra categoria di “qualità”, non ci aiuta più. Dobbiamo mettere mano ai criteri.

Possiamo liberarci di categorie come “avanguardia”, “ricerca”, “sperimentazione”, ma dovremo sforzarci di definire dei criteri altri, e questi se mai ci saranno produrranno inevitabilmente gerarchie (e dispiaceri).

Qui dovrebbe cominciare un parte propositiva e partigiana, nella quale io fossi in grado di proporre alcuni criteri, e soprattutto di giustificarli. Il problema non è tanto dire: leggi questo libro prima di quello. Il problema sta nello spiegare perché uno dovrebbe seguire tale consiglio. Da tempo, e in diverse occasioni, sto cercando di formulare e giustificare dei criteri per stabilire gerarchie nel campo. Non posso qui che rimandare a questi interventi specifici, l’ultimo dei quali è questo.

Voglio però aggiungere un punto importante, proprio facendo riferimento a questo articolo. Ci ho riflettuto spinto da alcune critiche che, in uno scambio di mail, mi ha fatto l’amico Guido Mazzoni. Non credo di essere giunto a una visione limpida della questione, ma un po’ di chiarezza ho cominciato a farla.

Credo che sia importante distinguere il ruolo di lettore da quello di critico militante. Come lettore io constato la democrazia e la pluralità delle poetiche. Non solo. Ma pur essendo ormai abbastanza estraneo al paradigma lirico novecentesco, mi trovo ad apprezzare autori che si richiamano a quel paradigma, che ne sono una testimonianza feconda e non semplicemente epigonale. Quando però mi trovo nella condizione di critico, e non critico di mestiere, ma critico militante, nel senso che scrivo al di fuori di ogni quadro professionale e retribuito, allora sono costretto a stabilire una gerarchia nella gerarchia. E di cosa tendo ad occuparmi? Di quelle scrittura che mi sono “familiari”, “fraterne”, “prossime”, sotto vari aspetti, e che soffrono non tanto di scarsa visibilità – tutta la poesia è scarsamente visibile (in termini mediatici) – ma di scarsa legittimità direi addirittura ontologica. Sono scritture di cui spesso si dice: “ma non è poesia”, “ma non è letteratura”. Oppure: “è poesia morta, è letteratura morta”. Questo perché nel campo della poesia, comunque sia, esiste già una gerarchia, che non è prodotta né dalle vendite né dai critici, ma che è una gerarchia storico-culturale. Qui la questione della temporalità storica è importante ma non nel senso della freccia. Può esistere oggi ottima poesia che si sviluppa in seno al paradigma storico del genere, e che quindi è maggiormente riconoscibile: dai lettori e, di conseguenza, da critici, editori, ecc. Ma esiste anche ottima poesia che forse è uno sviluppo tangenziale, brado, periferico di quel paradigma, e che per ciò stesso è poco riconoscibile. Addirittura importa poco di chiamarla poesia, anche se è indubbio che esiste una filiazione storica. Ma è importante che qualcuno faccia un lavoro per darle statuto di esistenza, nonostante la sua posizione di frontiera, consapevolmente di frontiera. Di frontiera tra cosa e cosa? Direi: tra letterario e non letterario. Problema specifico che sollecita criteri specifici di lettura, di analisi del testo e di correlazione con la realtà, con un dato mondo storico. Criteri che non sono probabilmente gli stessi, o lo sono solo in parte, di quelli che vengono usati per leggere una buona poesia, una poesia importante, di un autore più prossimo al paradigma storico del genere lirico.

6 COMMENTS

  1. A me pare che negli ultimissimi anni si sia tentato soprattutto di porre argine alla democratizzazione della voce. La qualita’ e’ diventata l’ultimo bastione: si e’ dunque ingegnerizzata la produzione poetica, tutti sanno tenere la penna in mano ma non tutti possono parlare di scienza delle costruzioni letterarie. Siamo in fondo fermi al 2003, allo “scrivere sul fronte occidentale”: ancora non ci si e’ liberati formalmente dell’illusione comunarda sebbene nella prassi tutti la diano per morta. Soprattutto, ancora non si riesce a sostituirla pubblicamente col talento naturale ed innato del singolo (che va coltivato quando c’e’ e se non c’e’ pace… non tutti sono virtuosi di violino, recordman dei 100 metri piani o teorici delle particelle nucleari). Per uscirne, la poesia va ricondotta nel recinto delle arti e quindi dell’estetica, non della filosofia o della politica. Il talento del singolo ed il genio sono qui ritenuti reazionari e disaggreganti, si e’ dunque prodotta una massa di riporto, per accumulazione, rinnegando la tradizione nazionale ed esanguandosi fino a morire.

    • scusa giusco ma: 1)l’estetica è filosofia, una disciplina filosofica, non opposta alla filosofia; 2)la poesia nella politica? se ne parla nel pezzo qui sopra? e più in generale dove ci sarebbe questa ossessione della poesia “politica”…
      quanto al talento (o al genio): sottoscriviamolo (anche) tutti: “per scrivere buona letteratura, letteratura di qualità, ci vuole il talento e ci vuole il genio”. Perfetto. Sistemato questo primo bullone, mi sembra che ci sia ancora un poco di lavoro (critico) da fare. No entity without identity. Che ce ne facciamo della categoria del talento, se non abbiamo criteri espliciti per dire chi ha e chi non ha talento? (Posto che tutta la storia della critica e della teoria letteraria debba risolversi a giustificare giudizi sul presente o assente talento…)

      • Be’, i criteri li hai e li usi anche tu: le forme chiuse, le gabbie tradizionali, che non sono impedimenti ma misuratori tradizionali della capacita’ di fare versi, cioe’ del talento. L’estetica (ed il ruolo della critica, anche su base filosofica) entra ad un grado successivo, quando cioe’ fra quelli di talento devi pronunciare e giustificare un giudizio di valore. La politica (o meglio: il tuo ruolo nella polis) entra con l’orizzonte ben definito che hai dato in partenza al tuo pezzo. Pubblica un articolo sui medesimi problemi scritto ad esempio da M. Zizzi / Elogio dell’Eccedenza e iniziamo a paragonare prima i talenti, poi a confrontare le visuali e infine a pronunciare giudizi. Il tuo e’ un pre-testo rivolto alla tua famiglia, e’ un passo retorico inserito in un discorso che non riguarda specificatamente il testo poetico, potresti applicarlo pari pari ad altri ambiti e da altri ambiti deriva. Michelangelo, please, visto che gironzoli commenta ed introduci la campana forzosamente rimossa!

        • caro giusco non capisco bene, davvero, che cosa intendi dire. Quanto a Michelangelo ho già dovuto farmi perdonare un paio di settimane fa il mio “impenitente illuminismo”, come dice lui, a suon di calici di vino.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.