L’Italia e la sua ignoranza senza grida ( note in margine al rapporto PIAAC 2013)
Di Giorgio Mascitelli
Nei primi giorni di ottobre sono stati resi noti i risultati dell’indagine PIAAC promossa dall’OCSE in 24 paesi sul grado di competenze linguistiche (literacy) e matematiche (numeracy) degli adulti compresi tra i 16 e i 65 anni. Si tratta di un’indagine che mi sembra significativa e seria a differenza di altre pure salite agli onori della cronaca, ma chiaramente costruite ad hoc per dimostrare certe tesi, per la trasparenza metodologica, per lo sforzo di avere un campione statistico abbastanza ampio e per la scelta abbastanza oggettiva delle informazioni da ricercare.
Proprio in ragione di questa serietà, vorrei lasciare da parte tutto il tormentone mediatico sull’Italia ultima in classifica, sul fatto che facciamo schifo, che nessuno investirebbe da noi, che gli svedesi sono molto meglio di noi: diciamo che può essere tutto vero, ma non capisco a che cosa serva ripeterlo per di più con toni isterici come quelli usati generalmente dalla stampa. Tra l’altro il dato nuovo di questa ricerca non è la posizione dell’Italia, che era tale anche nelle indagini precedenti, ma che il divario con la media internazionale è diminuito. Non è però un effetto di una politica attuale, ma di un elemento demografico: statisticamente escono dal campione le classi scolarizzate negli anni precedenti alla scolarità di massa, che in Italia a livello di scuole superiori data dagli anni settanta. In realtà anche su questo piano c’è un elemento negativo e cioè, che le classi di età più giovani non migliorano rispetto a quelle immediatamente precedenti. In altri termini le generazioni nate negli anni sessanta, settanta e ottanta registrano un costante miglioramento rispetto a quelle immediatamente precedenti e tale tendenza si arresta con le generazioni degli anni novanta.
Molti dei dati naturalmente rientrano nelle attese: per esempio i laureati hanno generalmente i risultati migliori ( ma in Italia essi sono il 12% del campione, mentre la media internazionale è del 29%) e non vi sono sostanziali differenze tra i sessi. Vi sono alcuni dati invece più interessanti e cioè che l’Italia ha il record di lavoratori sottoqualificati, ossia di lavoratori che occupano una posizione più alta del loro titolo di studi, e che l’Italia è il paese con il più alto numero di lavoratori che nel loro lavoro non hanno particolare bisogno di quelle competenze di literacy e numeracy, indagate dall’indagine.
Questi dati sembrano indicare un paese in ritardo storico, che per un certo periodo è riuscito a colmare la distanza con i paesi più avanzati e ora sembra fermarsi. Questo succede perché la struttura economica e sociale non offre quelle occasioni di crescita successiva alla scuola che sono necessarie a mantenere e sviluppare le conoscenze acquisite negli studi. In definitiva questi dati sono il sintomo e nel contempo una delle cause della progressiva collocazione al ribasso del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro.
Se, come ricordano gli autori del rapporto italiano ( del quale è curatrice per l’Isfol Gabriella Di Francesco e scaricabile al sito www.isfol.it/primo-piano/i-dati-dellindagine-isfol-piaac), i fattori di riuscita individuale sono in ordine di rilievo il livello di studi individuali, quelli della famiglia di origine e infine i fattori relativi al lavoro e alle attività svolte, oltre all’età, possiamo dedurre l’immagine di un paese che sconta un ritardo nello sviluppo di una piena scolarità e ha un apparato economico piuttosto tradizionale, in cui il lavoro serve meno di frequente da stimolo per mantenere attive e sviluppare le competenze acquisite. In questo senso è indicativo il fatto che solo il 58% degli intervistati abbia accettato di svolgere le prove con il computer a fronte di una media internazionale del 77%. Un dato apparentemente strano spiega a mio avviso ancora meglio questa dinamica: i risultati divisi per macroregioni ( Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Isole) presentano la solita divaricazione di ogni statistica tra regioni povere e ricche, o forse sarebbe meglio dire più e meno povere, con il Centronord in posizioni migliori, salvo il Nordovest.
Il Nordovest è caratterizzato da una curiosa schizofrenia: i laureati del Nordovest sono i migliori d’Italia nella literacy prossimi alla rispettiva media internazionale, mentre coloro che occupano il segmento basso, scuola dell’obbligo e meno, sono sulle stesse posizioni del Sud, molto lontani dalla media internazionale. Questa divergenza è un chiaro riflesso della duplicità del mondo produttivo, dove esistono realtà urbane in cui si concentra quel poco di economia della conoscenza che c’è, e una provincia magari anche ricca, perlomeno negli anni passati, ma concentrata esclusivamente su attività poco avanzate. E’ quel mondo, alquanto dominante in Italia a dispetto delle sue autorappresentazioni, che ha fatto dire a un suo esponente politico, qualche anno fa, che con la cultura non si mangia.
In generale mi sembra che questa indagine confermi che il capitale culturale ereditato, per dirla alla Bourdieu, ha un ruolo importante nelle formazione di una persona e che accanto a esso giochi un ruolo quello che si potrebbe chiamare il capitale culturale sociale, ossia l’insieme di occasioni di formazione che una società offre: ovviamente quanto più è significativo questo secondo tipo di capitale tanto meno conta il primo. Le politiche che dovrebbero favorire questo sviluppo naturalmente passano per un rafforzamento dell’istruzione pubblica e per l’incentivazione di un’economia della conoscenza, che non significa soltanto settori all’avanguardia tecnologica, ma anche interventi consapevoli in settori come turismo, alimentare ecc. Se dico che nutro fiducia nelle capacità delle nostre classi dirigenti economiche e politiche di avviare tali percorsi, è solo perché penso che un momento di ilarità tra cose tanto cupe dia un po’ di riposo al lettore.
Quand’anche esistesse una classe dirigente più capace, non sarebbe molto semplice avviare politiche del genere perché il taglio della spesa pubblica e il clima di conflittualità sociale che ne nasce rende quasi impossibile un intervento sistematico e stabile nel tempo. Che poi questo taglio sia imposto da quelle organizzazioni internazionali del capitalismo, delle quali fa parte a pieno titolo l’OCSE, che da un lato indicano i mali e dall’altro contribuiscono a togliere i mezzi per curarli, è l’effetto ironico di un posizionamento politico-mediatico del quale, temo, non avremo molto tempo né voglia di ridere nel futuro.
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“l’Italia ha il record di lavoratori sottoqualificati, ossia di lavoratori che occupano una posizione più alta del loro titolo di studi”
Probabilmente c’è qualche refuso?
No, non c’è nessun refuso: nel rapporto vengono chiamati sottoqualificati quei lavoratori che occupano un posto che richiede una qualificazione di studi superiori a quella che hanno. Detto in soldoni in Italia è più frequente che si occupi un perito chimico laddove ci vorrebbe un chimico e un lavoratore esperto laddove ci vorrebbe un perito chimico
TEMO CHE IN ITALIA LA CLASSE DIRIGENTE NON SI RITENGA TALE IN FORMA, DICIAMO COSI’, PEDAGOGICA ….
Grazie per l’analisi.