Poiché ero l’albero più occidentale del giardino. Di fragilità e potenza, opera di Federico Gori
foto 1 di Martino Margheri
foto 2/3 di Bärbel Reinhard
L’albero che si stacca dalla terra è un albero morto. Nessuna fioritura dai suoi rami, nessuna acqua trattenuta nelle sue radici. Maestoso nel suo irrigidirsi e sfaldarsi fino al nulla. Davvero nulla? L’albero che non sente più la sete accenna il volo su una materia minerale che si imprime dei suoi rami, foglie, elementi vegetali che mutano al variare della luce e delle stagioni. Impronte, residui di sostanza viva, lente memorie. La memoria, come il tempo, non è mai intera. Si frange in noi, capaci di abitarne solo piccoli pezzi, reinventati nella prospettiva che cambia con l’esperienza o seguendo improvvise epifanie in cui il passato ci chiede di riconoscerlo presente. Si confondono l’effimero e il duraturo: la morte del gigante arboreo è la sua fragilità che nutre il paesaggio naturale a cui si riconsegna. La sua sospensione è la distanza necessaria affinché parli – non più abbeverato, sgorghi nella consapevolezza di chi osserva. Siano comprese le sue tracce.
Non un albero, ma un fiore appassito è il protagonista di una poesia che scrissi con tutto il fervore dei miei otto anni. Un fiore ha un passaggio breve nell’esistenza, lo dimentichiamo in fretta quando muore, lo gettiamo. Allora questo mi sembrò un difetto imperdonabile della vista, per cui si cercano le cose belle, ma di rado le apprezziamo fino in fondo – quando ci lasciano e, come tutto, liberamente muoiono. Era proprio, nella mia visione di bambina, la fine con la sua povertà, il suo ingrigirsi e avvizzirsi a dover sollecitare l’amore più intenso. Sentivo che solo così la bellezza è completa. Che la perdita è una parte struggente dello scoprirsi grati.
Mi apparve dunque come una specie di miracoloso fenomeno empatico leggere pochi anni dopo, tra le fiabe di Hans Christian Andersen, la storia di un fiore e di un bambino. A raccontarla è un angelo che, mentre conduce un bambino in paradiso, sosta tra le macerie di una casa lungamente abbandonata per salvare un fiore di campo, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato. Nella casa era vissuto un altro bambino così malato da non poter mai uscire, la cui primavera si era tutta concentrata in quel fiore piantato in un vaso, poiché aveva le radici. Ogni anno rinasceva, facendo brillare la stanza e l’immaginazione del suo ospite. Il bambino era morto volgendosi al fiore.
L’angelo della fiaba sa tutte queste cose perché lui stesso è stato quel bambino: da un altrove ignoto ricorda e torna. Io, con la mia fede infantile e assoluta, ero certa che ci fosse una ricompensa per l’aver cura di ciò che è fragile e la ricompensa infatti venne, mantenendo una sorta di promessa, e fu il dolore. Bel guadagno, direte. Ma non giudicate troppo in fretta le parole, ripetetele come si affonda un seme nel terreno. Il dolore di morire per la prima volta: crescere. Seppellire i fiori dell’infanzia nella mia persona. Per coglierli ora devo imparare a scandire una memoria dopo l’altra. Nelle vene dei polsi percorrere gli steli ondulati, perché sboccino in un tempo diverso con la loro meraviglia minuscola, così facile da lacerare, da votare all’oblio dell’età adulta. La ricerca continua di quei fiori diventa la ricerca della felicità, l’ostinazione del bene niente affatto ingenuo: si affida ai desideri come al loro rovescio, si spinge verticale sulla vita – ne è responsabile – proietta un’ombra che la ripara. Si tende tra il sottosuolo e il cielo – si allunga, mette su strati di corteccia, si schianta impercettibilmente ad ogni cerchio, allarga le sue fronde. La pianta è quieta e paziente. Forse è, come nei versi di Margherita Guidacci, un albero esposto agli ultimi raggi solari che immergono il mondo nel crepuscolo.
Poiché ero l’albero più occidentale del giardino
Per ultimo mi scuotevo di dosso la fredda rugiada.
Nebbia e noia via dai miei rami lentamente strisciavano
E nessuno al mio risveglio applaudiva,
Ché i miei compagni erano da tempo gloriosi nella luce.
Ma la sera su me emigravano gli uccelli
Che l’ombra sgomentava da ogni altro verde asilo;
Lungo e dolce da me s’alzava il canto;
Avidi gli occhi degli uomini mi fissavano, mentre
Ero avvolto dal sole nell’amoroso addio
E brillavo come una torcia sul mondo spento.
Ecco, la potenza dell’albero è la sua attesa. Il suo sfolgorare più vivido perché a lungo ha conosciuto l’oscurità e di nuovo sta per entrare nel buio notturno. In questo albero che si accende in procinto di sparire noi possiamo meglio distinguere l’umano, la soglia mortale che ne determina il valore. L’amore con cui la pianta si congeda dal giorno dei vivi viene da tutte le esistenze che in lei si sono assopite; dalle ombre che non hanno mai smesso di dialogare in noi, di solcarci, inciderci, non più con le loro vite concluse, ma con la nostra. Così tanto l’albero ha scosso la sua chioma nell’aria che infine, morto, si è alzato in un sogno tangibile a dispetto della gravità. Così tanto possiamo porre lo sguardo nel ricordo e nell’immaginazione da far sì che il tempo dismetta il suo inganno più antico, che ci vuole gradualmente separati in uno scorrere lineare, e riveli invece come il coraggio si sovrapponga alla sofferenza, come siano forti le frasi interiori di chi amiamo, non importa da dove provengono, da quale regione, corpo consumato in una fotografia.
Facciamo di nuovo attenzione all’opera, alle scritture impresse sul rame, in basso, dove stiamo. L’albero è scomparso, spezzato. Le linee che lo spezzano non sono i confini della morte, ma le ferite della nostra speranza, la gora dell’acqua che mai abbiamo cessato di versare, perché tornassero lo stelo e la corolla. Ogni lastra ha una sua altezza, reca un frammento simile agli altri eppure unico: ha una data, un nome, un gesto. La curva di una foglia è lo scodinzolio di un cane o la schiena del gatto, calati nel cimitero domestico di un orto. Questo intreccio di rami e germogli sono le dita di un compagno che prematuramente abbiamo dovuto ascoltare oltre il silenzio – abbiamo appreso a tenere con noi, mentre lo perdevamo. Un’amica. Un genitore. Un fratello. Dobbiamo fare fatica, ora, per guardarli. Non sono più come li volevamo. L’acqua che ci unisce ha l’amarezza del pianto, ma ogni lacrima ci alleggerisce, ci rende più umili, malleabili. Ogni lacrima scava la nostra natura fino al paese dove nessuno è dimenticato. Riemerge. Esile, ma tenace, voce di un coro. Per ognuno di noi ha un invito, una commovente fiducia, un timbro ineguagliato. Dice: non temere, gioisci. Anche se non ritorno, io resto. Accoglimi.
Il testo è tratto dal catalogo dell’opera Di fragilità e potenza di Federico Gori (Gli Ori, 2013).
L’installazione, esposta sotto una quercia sospesa a Palazzo Strozzi nella primavera 2013 e ora in collocazione definitiva presso la sede di Vannucci Piante (Pistoia).
è bellissimo.
Bellissimo.
L’albero ha senso umano.
Disperatamente umano.
Non puo sfuggire alla sorte. La sua.
L’albero che prende tutto il senso.
Quello della scrittura è il pino.
Il pino oceanico.
Si vede nella foreste des Landes.
Solo mentre sta con i fratelli pini.
Un tratto di inchiestro asiatico
verso l’oceano e il vento.
Solitario nello suo slancio per
scrivere la bellezza e il dolore.
Grazie per questo testo.
Ascolto in lui tutta la vita
nel canto o l’illusione del canto.
Inchiostro inchinare inchiesta
Scuso ho fatto confusione…