Una Dubai sull’Hudson: viaggio nella New York ereditata da Bloomberg

di Paolo Mossetti

Il candidato Democratico Bill De Blasio è il vincitore delle elezioni per la poltrona di sindaco di New York. Il suo trionfo è stato definito da quasi tutti i giornali come una landslide, una valanga. Se come diceva Camus “dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”, questo vale in particolar modo per New York, in cui ognuno vede e legge ciò che vuole e ciò che più gli conviene. In effetti il Repubblicano Lhota è rimasto staccato di oltre cinquanta punti percentuali. Ma in termini assoluti, considerando la totalità della popolazione newyorkese, De Blasio è stato eletto da una esigua, microscopica minoranza.

Su circa otto milioni di residenti (senza contare gli studenti/lavoratori con il visto e gli immigrati irregolari) i registered voters sono poco più di 4 milioni e 300mila. Di questi, appena il 24 per cento si è recato alle urne – è il dato più basso di sempre. Il 73 per cento raggiunto da De Blasio, facendo due conti, corrisponde ad appena un newyorkese su dodici. Questo la dice lunga sulla retorica della “partecipazione democratica”, che nella grande Mela ha più l’aspetto di un suffragio ai tempi di Depretis.

La colpa ovviamente non è di De Blasio ma di una struttura sociale ed economica profondamente alterata negli ultimi venti-trent’anni. Con una classe lavoratrice spesso emarginata e senza tutele, con grandi comunità d’immigrati che non hanno diritto al voto, né il tempo né mezzi per imparare l’inglese e dedicarsi alla politica, con intere fette di città passate in una manciata d’anni dal degrado più assoluto ai mercatini bio senza la creazione di una vera classe media, New York è una città sempre più multietnica ma sempre più ingiusta. Può un sindaco votato da appena l’8% di una comunità rappresentare gli interessi dei più deboli, e non solo delle minoranze privilegiate?

Sarebbe ingenuo aspettarsi miracoli, non tanto per le chiare connessioni di De Blasio con l’Establishment – lui che pure ha una biografia sicuramente tra le più audaci tra i politici americani di storia recente, con viaggi di solidarietà tra i sandinisti in Nicaragua, una moglie attivista e poetessa, dei figli impegnati contro le disuguaglianze, etc. – quanto per la situazione che si troverà ad ereditare. La New York di Bloomberg ha tutte le sembianze di una vetrina super accessoriata a iper-sorvegliata, che piace così com’è ai clienti e sembra vendere bene. Un cambiamento radicale potrebbe minarne la credibilità. I giornalisti in questi dodici anni hanno quasi sempre applaudito l’imbonitore. Chi ha i soldi sembra gradire, i turisti pure.

La realtà è che nei suoi dodici anni di regno, Michael “Mike” Bloomberg ha visto la sua fortuna personale aumentare di sette volte, da 4,5 a 32 miliardi di dollari. Nel frattempo quelli che vivono in condizioni di povertà (fonte: New York Times) sono passati dall’11% del 2000 al 22% nel 2012. E’ povero un ragazzo su tre al di sotto dei 17 anni. Oltre la metà degli abitati spende il 30% o più del proprio reddito in affitto. I senzatetto sono oltre 50mila – il numero più grande dai tempi della Grande Depressione – ma Bloomberg sosteneva che i dormitori sono “molto più comodi” che in passato. Se Manhattan fosse una nazione indipendente, calcola Steve Wishnia, la sua disparità di reddito sarebbe a pari livello col Sud Africa e la Namibia.

Eppure Bloomberg ha sempre avuto una reputazione da “moderato”, anche presso la stampa progressista, e in alcuni circoli persino di “liberale”, per la sua attenzione alla lotta contro l’inquinamento e le malattie cardiovascolari, per il suo supporto per i matrimoni omosessuali, per la sua campagna contro le armi da fuoco.

Il sindaco multimiliardario possedeva senza dubbio una sua visione del mondo, con la quale ha cambiato forse per sempre il volto della città. Una città trasformata in marchio di lusso, in porto d’attracco per gli ultra-ricchi del mondo. Una vetrina per lo shopping e un paradiso per gli investitori stranieri: militarizzato, controllato e sopravvalutato in ogni centimetro quadro di spazio immobiliare. Una Dubai sull’Hudson, ma cautamente libertaria ed ecologicamente corretta. Un progetto condiviso, sull’altra sponda dell’Atlantico, dal sindaco Boris Johnson per Londra, anch’essa trasformata in un gigantesco parco giochi per chi ha soldi e uno zoo di animali in gabbia per tutti gli altri.

Coerente con questa visione, Bloomberg ha fatto costruire di decine di grattacieli in zone appena dieci anni fa considerate covo di delinquenti, come Williamsburg. Times Square, che nel 2001 era ancora territorio malfamato zeppo di sex shop e cinema porno, oggi è un orripilante circo di luci LED e paccottiglia turistica. Gentrification, una parola che nei circoli radicali è sinonimo di sgomberi forzati, inflazione alle stelle, “bianchi che aprono negozi di cupcakes nei quartieri dei neri” secondo la definizione di un comico locale, è per lo staff del sindaco e i proprietari di case che hanno resistito una benedizione calata dall’alto. La polizia è stata sparpagliata in ogni angolo di città, persino con squadre all’interno delle università, per intercettare e prevenire occupazioni e disordini per le strade dello shopping. Sarebbe sbagliato – per noi radicali – sottovalutare l’impatto della diminuzione del crimine nelle comunità più povere, molto spesso le prime vittime di rapine, stupri e violenza. Ma questa strategia ha comportato che quasi 700mila newyorkesi venissero fermati e perquisiti nell’ultimo anno (uno su dodici, percentuale con pochi pari al mondo), e che di questi l’85% fosse nero o latino. L’idea – come ha confessato durante una commissione d’inchiesta Eric Adams, un ex poliziotto, è quella di “instillare in loro la paura ogni volta che escono di casa, sapendo di poter essere presi di mira dalla polizia”.

La paura – condivisa dai ricchi WASP come da molta working class bianca cattolica e di mezza età – è quella di tornare ai terribili anni Ottanta del crack, del Bronx in fiamme e delle aggressioni in Central Park. Ma all’analisi di un sintomo non corrisponde quasi mai un medicinale corretto. Siccome il 20% dei crimini pare venga commesso da residenti di house projects, le case popolari dove vivono i meno abbienti, qualche mese fa Bloomberg propose di schedare e prendere le impronte digitali a tutti i loro inquilini.

Nel frattempo il sindaco ha dichiarato guerra a tutto ciò che faceva orrore allo sguardo dei benestanti: le bibite extra-large, pure sapendo che i più disgraziati mangerebbero altro se un chilo di frutta non costasse come due hamburger, e non passerebbero ore nei McDonald se ogni angolo di spazio pubblico non fosse trasformato in territorio commerciale; alle pistole – purché siano lasciate nelle mani frementi dei poliziotti e non dei poveracci. Nel frattempo ha conquistato le simpatie dei sinistrorsi con il suo supporto per gli artisti di strada, le piste ciclabili e il matrimonio gay.

La strategia vincente – adottata da tutte le destre più sagaci nel mondo – è sempre la stessa: ampliamento dei diritti civili e ambientali, da un lato, per ottenere il supporto della classe più ricca e colta, e dall’altro pugno di ferro contro i “deviati” e i “nemici esterni” che minano l’attuale assetto economico della società.  Alcuni lo chiamano soft power. Finora sembra funzionare.

Nella Dubai sull’Hudson resistono ancora spazi di opposizione. Spazi di autonomia e non conformismo nascosti tra le catene commerciali e le farmacie sempre più uguali in ogni angolo di città. C’è voluto l’uso della parola “terrorismo” per impedire una protesta dei veterani di guerra contro l’intervento in Iraq, nel 2003. E quando migliaia di persone scesero in piazza contro la convention repubblicana del 2004, la polizia dovette impacchettarle in cordoni di plastica e poi spingerle in garage trasformati in prigioni, per sedarle. Nel 2011, quando fu smantellato il campeggio abusivo di Occupy, la polizia ruppe la testa a parecchi testimoni, inclusa una consigliera comunale e diversi giornalisti, per impedire il ritorno dei manifestanti.

Ma sono casi isolati e minoritari. Il Brecht Forum vegeta grazie ad un affitto controllato, ma difficilmente è invaso da curiosi. Librerie radicali come Bluestockings sono ancora vivaci, ma non sembrano avere il pubblico d’una volta. La New York degli anni Settanta è meno influente oggi di quanto lo sia la generazione dei Settanta in città come Roma o Milano. Il Living Theatre ha chiuso e Judith Malina vive in un ospizio. Il dissenso non sembra più esprimersi nei teatri, nei libri e nelle università ma, per riuscire anche a sopravvivere al mercato, attraverso argute serie televisive, comedy show e i sacrali e innocuamente sagaci blog. Per chi ha un lavoro stabile, o abbastanza soldi per poter mantenere uno stile di vita bohémienne, New York rappresenta ancora un mirabile intreccio di lordume, genialità, creatività e inenarrabili sofferenze. Ogni angolo di strada sembra poter ancora raccontare un pezzetto di storia criminale o sentimentale. Ma la maggior parte dei suoi abitanti, specie i nuovi arrivati, è imprigionato in una gabbia di lavoro alienante ed esclusione.

Nessun luogo rappresenta meglio questa realtà della sorprendente High Line, nel West Village: una vecchia linea ferroviaria trasformata in parco pensile e strada pedonale, dove coppiette e visitatori da tutto il mondo si recano a prendere il sole, correre con l’Ipod e leggere l’ultimo Frenzen. Dal quel panorama si possono fotografare bellissimi edifici costruiti da speculatori con il supporto fiscale del comune, ed bisogna davvero aguzzare la vista per vedere delle persone di colore da quelle parti che non siano venditori ambulanti o addetti alla sicurezza.

Eppure, in una città dove i media mainstream sembrano aver normalizzato e fatto assimilare la visione del mondo di Bloomberg, e dunque dei ricchi – forse i veri rivoluzionari di questa fase storica: una minoranza capace di influenzare la maggioranza e farsi da essa piacere -, dove le vere emergenze sembrano essere i treni rallentati da qualche suicidio, la disponibilità di hot-spot nelle caffetterie e dove la classe lavoratrice – e il concetto stesso di “classe” – sono trasmutati in fantasmi, i bisogni essenziali da conquistare sono ancora intatti, lì davanti a noi: lavorare tutti per lavorare meno; dare assistenza sanitaria gratuita e diritto di vota a chi lavora, indipendente dalla sua storia personale e dalla sua provenienza, smantellare le gabbie di controllo per gli oppressi, imporne di nuove sui ricchi; ampliare la partecipazione democratica; calmierare gli affitti per i poveri; moltiplicare e migliorare i servizi che già ci sono con gli stessi soldi impegnati per mega-progetti inutili. I bisogni sono ancora lì. Gli schiavi che hanno costruito Dubai sono muti, ma non invisibili. Basta volerli vedere.

 

 

 

4 COMMENTS

  1. Senti, Mossetti, New York resta l’archetipo dei grattacieli. Al massimo Dubai potrebbe essere considerata la New York del Middle East.
    Anche i neri e gli ispanici vanno in bicicletta e sono gay. E quando si parla di estensione dei diritti civili non ci sono connotazioni politche o ideologiche.

    Ma soprattutto…. Scendi dal tacco dodici e mettiti in fila.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.