Savina Dolores Massa, da “Undici” a “Cenere calda a mezzanotte”. Intervista di Max Ponte
Il tuo romanzo d’esordio, Undici, è arrivato fra i finalisti del premio Calvino del 2007. Come sei arrivata alla scrittura e quando decidi di intraprendere questo mestiere (“a tempo pieno” dice una tua biografia)?
Quando scrissi Undici fu per un’urgenza del cuore, per una “protezione” verso un fenomeno di aridità umana inconcepibile: le migrazioni. Avevo già scritto un romanzo, tuttora inedito, ma soprattutto esisteva la prima stesura del mio ultimo Cenere calda a mezzanotte. Per poter raccontare come piace a me abbandonai un lavoro fisso e ben retribuito, scegliendo una libertà colma di sacrifici. Non me ne sono mai pentita. Fu la scomparsa di mio padre, il desiderio di raccogliere Memoria a farmi fare la scelta.
Quali autori e quali letture hanno nutrito il terreno che ha fatto germogliare le tue narrazioni?
Sono sempre stata avida di storie. Fin dai sei anni non sono mai andata a dormire senza un libro per compagno. Mai avuto l’orsacchiotto. Ho letto compulsivamente di tutto. Dal tutto poi si arriva a selezionare. Sartre e De Beauvoir assieme a Marquez e a Marx a sedici anni. Ma ancor prima Kerouac, Ginsberg, Hemingway, Durrell, insomma, un po’ tutti gli autori americani. Borges, Amado e sempre Marquez fin quando ha conservato lucidità. Anna Maria Ortese, Goliarda Sapienza, Morante, Pamuk, Woolf, Amelia Rosselli, Majakovskij, Giulio Angioni, Sexton, Gualtieri, Achmatova. Anche molti gialli e tanta fantascienza. Anche fumetti porno. Mi fermo così, leggo e amo le mille differenze tra un autore e l’altro. Da qui il definirmi di qualcuno, “Lettrice disordinata”. Forse l’aggettivo giunge dalla mia confessione, “Io non studio, semplicemente leggo”. E apparentemente dimentico, invece so come tutto si sia fatto universo nella mia memoria. Rosselli che litiga con Ortese, Woolf innamorata di Majakovskij, Sexton consolata da Sapienza, e via sognando.
La Sardegna, la tua terra, compare e scompare nei tuoi romanzi, da scenario fantastico in Mia figlia follia diventa dura realtà, terra dei vinti, in Ogni madre, per poi ritornare a un altrove nel tuo ultimo romanzo Cenere calda a mezzanotte.
Solo in Undici non compare la Sardegna se non in un minuscolo passo. Si scrive di ciò che si conosce meglio, ma questa non deve essere una regola. Altrimenti la fantasia potrebbe sciuparsi. I miei luoghi raccontati o i personaggi possono appartenere tranquillamente al mondo. Non pongo frontiere all’immaginazione. Il romanzo ancora inedito spazia dal Messico a Gibilterra, ad esempio. E quando scrivo poesia o teatro, non credo di poter essere individuata come sarda. Credo di essere il risultato di ogni mio pensiero chiassoso, capace agevolmente di saltare il mare di un’isola.
Il topos della madre, e il ruolo della donna, sono temi che caratterizzano fortemente i tuoi romanzi. In Cenere calda a mezzanotte scrivi: “Perché questa sorte di essere donna? E cosa volevi essere? Nuvola.” Bonaria, madre di sette figli, muore per un taglio e proprio qui inizia il romanzo.
Li caratterizzano molto, sì, mi è stato detto. Devo chiarire che non decido mai nulla a tavolino: le storie giungono, con uomini e donne. Con la vita. Non essendo nata “nuvola” ma donna, porto me stessa in tutte le mie sfaccettature, e non sono poche, ahimè. La madre indubbiamente compare spesso. Frugando nel mio inconscio credo di aver individuato la causa nell’assenza di maternità caduta in sorte alla sottoscritta. Ma gli inconsci sono artisti nell’arte dell’inganno.
I dialoghi dei tuoi personaggi hanno un’impronta teatrale. Penso a quello fra Maddalenina e Maria Carta in Mia figlia follia. Maddalenina, come si scoprirà, sta parlando con un fantasma. E di dialoghi con gli spettri ne abbiamo una lunga tradizione (amo ricordare spesso il dialogo fra Vittorio Alfieri e l’amico Gori Gandellini). Che rapporto c’è fra la tua scrittura e il teatro?
Considero l’esistenza la migliore fonte teatrale da cui attingere. Anche volendo impedire ai miei personaggi di agire come preferiscono, loro nascono attori. Io conto poco, sono ingovernabili, dormono quando vogliono, dialogano tra loro ignorandomi. Spesso sono consapevole di non essere regista di un bel niente. Raccontare è sempre teatro, e alla fine c’è un sipario che si chiude. A volte applausi, a volte no: questo mi piace molto. È giusto che i personaggi si assumano la propria responsabilità nel momento in cui mi negano il ruolo del burattinaio. Poi vengono a piangermi sulla spalla quando si accorgono del mio bisogno di dimenticarli. Pur amandoli tanto sono obbligata ad allontanarli. Maddalenina di Mia figlia follia mi ha costretta a balbettare per mesi: non se ne voleva andare. Anche Sayoro di Undici mi ha guastato molte notti, sempre accanto al mio letto dicendo: “Ho ancora troppo da dire”. Vanno cacciati in malo modo, altrimenti non potrei pensarne di nuovi.
Il forte lirismo della tua scrittura e le mie sottolineature a matita sono andati di pari passo. Ho notato che persino gli escrementi, elemento che pochi scrittori affrontano, assumono qualche grado di nobiltà. Tale lirismo è alimentato da una tua produzione poetica oppure è l’écume, la spuma (per dirla alla Vian) della tua narrazione?
Vengo definita spesso scrittrice di prosa poetica. E credo d’essere d’accordo. Amo la poesia considerandola la migliore espressione di scrittura, di rappresentazione dell’umanità sincera. Ne scrivo tantissima, mai pubblicata. È difficile trovare editori che rischiano. Lei arriva come nebbia sopra ogni mia parola: è inevitabile. Pur cruda sa possedere una sua dolcezza. Non saprei mai scrivere senza la sua compagnia. Certe volte ci provo, snaturandomi, ma torno all’istante dalla mia anima.
I tuoi libri alternano e integrano impegno civile e trasfigurazione della realtà. Undici parte da un fatto di cronaca, la morte di 11 clandestini africani su una barca e Ogni madre è una raccolta di racconti di “denuncia sociale” ispirati ai fatti di cronaca avvenuti in Sardegna fra il 1870 e gli anni ’60 del Novecento. Questi due libri, e soprattutto il secondo, sono segnati dalla cifra dell’impegno civile mentre Mia figlia follia e Cenere calda a mezzanotte sembrano appartenere più che altro a quello che molti definirebbero “realismo magico”.
Chiunque abbia tentato di etichettare la mia scrittura si è ricreduto, soprattutto ascoltandomi parlare corpore presente. Non sono inquadrabile io, non lo è niente della mia produzione. Ho delle contraddizioni incomprensibili perfino a me stessa. Quanto i primi due lavori, anche Mia figlia follia e Cenere calda a mezzanotte dimostrano impegno civile o come si preferisce chiamarlo. Nel primo c’è il rifiuto per la “diversamente” viva, considerata matta; per il vecchio omosessuale deriso da un’intera comunità; per il maschio privo di genitali; per un bambino che ha compreso precocemente il disincanto della vita. Nell’ultimo romanzo pubblicato, così come in tutti gli altri, c’è un comune denominatore: il canto degli umili, degli invisibili alla Storia, della fatica nella sopravvivenza. Se raccontare di ciò è da considerarsi impegno civile, ebbene, è così. Non desidero medaglie quando scelgo di raccontare la realtà, spesso crudele per molte fasce di esistenze. Il “magico” è solo la memoria dei racconti di mia nonna, che neppure sotto tortura mi avrebbe mentito. Il “magico” è verità assoluta, in Sardegna. Ah, dimenticavo di dire, “secondo me”.
Quando si parla di “realismo magico” si applica una categoria che appartiene agli scrittori sudamericani. E a dire il vero nella tua scrittura si trovano atmosfere che ricordano l’America Latina. (In Mia figlia follia anche la copertina sembra strizzare l’occhio alla Allende). Ti ritrovi nell’etichetta “realismo magico”?
Se nella mia scrittura alcuni notano atmosfere sudamericane, è perché non hanno mai conosciuto Maria Carta, o Petronilla, o Rebecca, o Tommaso. E Peppina, l’hanno mai incontrata? Ebbene, io ho avuto questa fortuna, e giuro sul mio cane che non eravamo a Macondo, ma in Sardegna. Molti popoli hanno le medesime radici, a volte spiegabili, altre no. Ciò che io racconto è il mio patrimonio genetico, nudo, crudo e sincero. In sa ruga ‘e Peppi Enna citata in Cenere calda a mezzanotte, hanno abitato davvero le anime narrate. Ancora ci vivono. Grazietta è qui in questa casa da spettro, adesso sta suonando il pianoforte. Altro che Sud America! Poi, che io scelga di raccontare ciò, anziché altro certo esistente nell’isola, è una mia predisposizione naturale. Sono identica alle mie creature “magiche”, non posso farci niente. Mi sforzo spesso di essere composta e ragionevole, ma inciampo sui miei stessi piedi.
Ritorniamo alla Sardegna, culla di ottimi scrittori e di una narrativa, di cui spesso anche Radio 3 parla, chiamata narrativa sarda. Potremmo citare alcune scrittrici di successo come la Murgia e la Agus. Dopo l’etichetta “realismo magico”, magari applicata allo scaffale di una libreria, potresti ritrovarti con un’altra etichetta, narrativa sarda. Ti spaventa?
Il mio desiderio sarebbe di non sentire più pronunciare “scrittore sardo”. Non lo si dice per un calabrese, per un toscano e via dicendo. È vero che l’isola sforna continuamente scrittori di spessore ma ciò non dovrebbe essere considerato motivo di etichetta, anche perché potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Cioè relegarci alla Sardegna senza considerarci concreti scrittori italiani o del mondo.
Tu vivi a Oristano, dove hai un ruolo nelle iniziative culturali della tua città. Hai mai pensato di lasciare la tua terra? Di vivere nel continente o all’estero?
Se fossi ricca adorerei viaggiare. Ad oggi, in tutta la mia vita, la sola città visitata all’estero è stata Barcellona. Mi arrabbio molto per questo, ma non sempre gli scrittori campano nel lusso. Qualche volta sono perfino privi del necessario, soprattutto se ostinati quanto me, così innamorata del mio mestiere. Viaggerei, per tornare, dopo, sempre a casa. Non è solo una questione di radici: amo gli alberi che volano. Ho semplicemente la fortuna di vivere in un paradiso, ho delle amicizie alle quali voglio spesso vedere il volto. Lavoro come una matta in mille iniziative culturali, affinché questa piccola città riesca ad essere bella. Qui ho i silenzi giusti per far nascere le mie storie. Credo d’aver avuto fortuna quando caddi dal becco della cicogna.
Il tuo ultimo libro Cenere calda a mezzanotte segna un passaggio decisivo nella tua scrittura, a partire dal titolo e la lunghezza del testo (400 pagine circa, quasi il doppio rispetto ai precedenti). Una domanda sul titolo: è stato immediato o ha richiesto molto tempo?
Il mio ultimo libro è stato il primo scritto, ma ho avuto bisogno di tesserlo a lungo, proprio perché rivelava spudoratamente il colore del mio sangue. Ero schiva a dare a tutti una storia così lunga e complessa. L’ho rivista in continuazione, limando, aggiungendo. Soprattutto aggiungendo, e le pagine non mi sarebbero bastate mai se non avessi deciso che tutto va concluso. Come capita a ogni vita. Il titolo giunge da un passo del romanzo, quando muore un maiale. In origine aveva un titolo che rischiava di condurre al Sud America, e quindi eliminato senza rimpianto alcuno.
Cenere calda a mezzanotte è uscito alla fine del 2013 per i tipi del Maestrale, casa editrice con la quale hai pubblicato tutti i tuoi libri. Com’è nata quest’opera e come si relaziona alle precedenti?
Come è nata. Babbo morì tra le mie braccia un 13 gennaio. Crollai come un vento concluso. Con ossessione e masochismo, nei giorni successivi al lutto, ascoltavo continuamente “Casta Diva” della Callas. Provavo una ingiusta collera nei confronti di mio padre, per l’abbandono. Per la sua ingombrante assenza. Sulle note di “Casta Diva” mi venne naturale scrivere una storia che mi impedisse di dimenticare chi mi aveva tanto amata. Col trascorrere dei mesi cambiai colonna sonora, e nel romanzo giunse la commedia e uccelli ricamati. Anche occhi azzurri. Nessuno osi adesso farsi venire in mente Occhi di cane azzurro di Marquez. Sbaglierebbe, Petronilla aveva davvero gli occhi così. Il romanzo si relaziona ai precedenti solo nella mia assurda maniera di affrontare la scrittura, libera da regole o noiose sintassi. Mai io ho preparato in anticipo uno schema di trama. La gente giunge in visita, così come un amico può suonarmi il campanello all’improvviso.
Infine nei tuoi libri compare anche qualche animale, cani e gatti. Il cane indica spesso il volto della sofferenza, in Undici ad esempio. Nel tuo ultimo romanzo ritroviamo anche un gatto bianco che ha la “capacità di insinuarsi nella mente” di chi lo osserva. Hai animali domestici?
È vero, non ci avevo pensato. Anche in Cenere calda a mezzanotte c’è un “cane negro” che azzanna i ricordi. Oppure i cani innamorati di Rebecca. Spesso sono i lettori a spiegarmi ciò che scrivo. Mi pongono delle domande assai imbarazzanti. Comprendono tutto meglio di me, scema di una narrastorie. Attualmente convivo con tre cani bianchi, sette gatti, una tartaruga d’acqua di 16 anni (ancora un poco e dovrò sistemarla nella vasca da bagno). Ho molti ragni: sono restia alle pulizie in grosso e anche in magro. Preferisco scrivere, sono felice solo svolgendo questo atto. Non cerco l’immortalità per me, ma per le mie creature sì, perché hanno patito molto e meritano un ricordo. Tornando agli animali, ho anche molte conchiglie, e anche se non domandano cibo io ne sento la voce e la vita. Poi ho un cranio di pecora e un cucciolo defunto di manta marina. Nel grande cortile di questa casa ho sepolto tanti piccoli compagni dei miei giorni. Perfino un pesce rosso battezzato Tovagliolo. Certi giorni di delirio vorrei disseppellirli e posarli accanto alla mia collezione di cavalli di legno. Meno male che l’intervista è conclusa: stavo già partendo tra le nuvole.
La scrittrice appare sincera e devota. E’ vero sono i personaggi che vengono a visitarti per narrarti, cioè per essere narrati. La Sardegna appare un’isola continente per secoli compressa nei silenzi. Ora quest’incantesimo pare spezzato. Di qui una sorta di inesauribili fonti….