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La profonda provincia a Capalbio

intervista di Marino Magliani a Andrea Zandomeneghi

MM Una cosa che di solito dicono agli esordienti – non un rimprovero – è che in quel libro sta provando a metterci tutto quanto. È la sensazione che si ha leggendo Il giorno della nutria, di Andrea Zandomeneghi. Un torrente di montagna che sbatte e si calma, arriva al piano e trova anse, contiene altre cose oltre all’acqua, e uno lo guarda passare dalla riva, ma d’un tratto succede qualcosa: ci si accorge che non c’è eccesso, anzi, il torrente, così pieno di cose, è ben dosate. Un cielo pieno di stelle. Non è esagerato, è la sua misura. Più di quel numero di stelle non si potrebbe trovare. Come ci sei arrivato?

AZ È un romanzo che ho scritto in cinque anni, non di getto, ma per successive stratificazioni. Vale anzitutto la pena dire che conteneva più cose, ad esempio una vasta digressione sulla geneaogia di Esteban (sul suo supposto antenato Max Stirner, su Elisabeth Förster-Nietzsche e su Nueva Germania) o una leggenda amiatina sulla regina delle fate che cuoceva il pane a Fonteblanda in coda alla visione del combattimento tra Tiamat e Metatron cagionata da una immane botta in testa. In fase di editing si è proveduto – grazie a Vanni Santoni – a togliere o ridurre materiali in eccesso, favorendo l’equilibrio tra narrazione e digressione e la leggibilità.
La copiosità di «cose» contenute nel romanzo dipende come accennato dalla sua lunga gestazione, ma anche da altri due fattori. In primo luogo dal mio medotodo di lavoro che consiste nel prendere appunti (citazioni, concatenazioni di concetti, impressioni) su una babelica congerie di taccuini, agende e quaderni e nel consultarli – per quanto in modo del tutto asistematico e in parte quindi necessariamente casuale – al momento della scrittura. Questo ammasso di materiali era andato formandosi ben prima dell’inizio della stesura del romanzo e risale in parte addirittura alla mia adolescenza. In secondo luogo dal fatto che il romanzo nasce dall’implosione di un progetto diverso e molto più vasto: una saga di fantascienza che da parecchio tempo andavo scrivendo e che ho abbandonato. Quando ho dichiarato il fallimento di questo corposo testo precedente – centinaia e centinaia di pagine – ho proceduto a saccheggiarlo; direttamente da lì vengono ad esempio i monologhi della madre del protagonista nella parte finale.
Sono arrivato a costrire Il giorno della nutria per enantiodromia: se il libro precedente mai andato in porto era caratterizzato da una molteplicità di punti di vista, questo ne ha uno solo; se l’altro era una saga, questo è un solo libro, breve per giunta; se l’altro copriva millenni di storia, questo si svolge in una sola giornata; se l’altro era lontanissimo nello spazio e nel tempo, questo è vicinissimo.

MM Sui personaggi. La scelta, fin dall’inizio, ossia a partire dagli effetti di una sbronza che ha visto il prete, Davide, il protagonista e il figlio della badante che prende in cura la madre di Davide, inferma, è spiazzante. Ne vengono fuori dinamiche stupendamente nuove. Come nascono questi personaggi.

AZ Davide è la spina dorsale del romanzo, la narrazione è in prima persona, il dipanarsi della sua personalità – abnorme, ossessiva, allucinata – è ciò che tiene insieme tutto il resto. Il romanzo è nato con lui: ho iniziato a scriverlo immaginando un suo risveglio dopo una sbronza e seguendolo in tutte le sue attività; nella prima versione addirittura ogni capitolo corrispondeva a una sigaretta da lui fumata nel corso della giornata. Davide nasce da quattro esperienze fondamentali: cefalea (dolore cronico, sua gestione e sue ripercussioni sulla vita), postumi di una grande sbronza (amnesia, malessere, angoscia), ossessione (l’assedio – obsessio -onis «assedio», da obsidere «assediare» – incoercibile delle formazioni mentali e il suo influsso contaminate sulla coscienza), rapporto compulsivo con la cultura (che invade e fagocita e struttura ogni aspetto del reale soggettivamente filtrato: proliferazione di citazionismo incontinente, di elencazioni morbose, di digressioni pseudoerudite, di estetismo linguistico).
Emanuele nasce da un racconto, anzi dall’incipit di un romanzetto che non ho poi mai scritto, imperniato sulla questione degli antichi astronauti, sulle teorie di Zecharia Sitchin sui sumeri e su quelle Mauro Biglino sull’esegesi biblica. Mi interessai a questi argomenti perché un ragazzetto che frequentavo ne era imbevuto. Avevo inziato a scrivere il romanzetto pensandolo come un esperimento di scrittura collettiva, lo condivisi su varie piattaforme web ma non ne scaturì nulla, così il progetto naufragò. Da quanto detto finora emerge con forza – mi sembra – una mia caratteristica: la riqualificazione dei materiali.
Esteban è il personaggio nato per ultimo (in una prima fase al suo posto c’era un enologo spagnolo di nome Sebastian) e viene direttamente da una mia esperienza personale: lo spiritismo yoruba di un mio giovane amico cubano. L’intero personaggio – lo confesso – è la trasposizione romanzesca di questo ragazzo, a partire dalle sue caratteristiche fisiche, passando per la sua sessualità e arrivando al verbale della seduta spiritica (che mi sono limitato a copiare).
Il prete, la badante e la madre invece non nascono da esperienze personali pregresse né sono stati catapultati nel romanzo da un testo precedente. Il prete nasce come una sorta di sdoppiamento di Davide, un sosia di Davide più anziano e con un differente bagaglio esperienziale. La badante, una specie di antagonista di Davide, nasce dalla lettura di un articolo on line sui vantaggi secondari dei disturbi mentali. La madre è un personaggio per me terrificante, un incubo incarnato, e francamente non ricordo come è nata, devo averlo rimosso.

MM Sul microcosmo. Il microcosmo di Capalbio non dev’essere stato facile dopo le decisioni di raccontare le cose in questo modo, attraverso queste storie, intendo, e questi personaggi. Insomma, dopo tanta novità verbosa, è un po’ come se venisse fuori che l’autore non voleva stupire e ha scelto un paesaggio come Capalbio?

AZ L’ambientazione è la più semplice possibile: esattamente dove sono nato e dove vivo, proprio nella stessa strada, negli stessi edifici. La sua scelta è stata però molto travagliata, l’ho cambiata varie volte. Nel corso del tempo ho collocato la narrazione in un paese generico chiamato Castello (in una frazione di Castello, chiamata Borgo), in un municipio inventato, Giardino, situato tra Capalbio e Orbetello, ad Arcidosso. L’ambientazione non è mai interscambiabile, ogni luogo – reale o immaginario – portava con sé delle conseguenze narrative: Arcidosso era collegato a un’ucronia giurisdavidica (i seguaci di David Lazzaretti invece di disperdersi e infiacchirsi erano aumentati nel corso del novecento e avevano fondato conventi e monasteri sul Monte Amiata), Giardino era funzionale a una lieve distopia in cui al governo del paese stava un governo tecnico Ichino bis, Castello mi dava la possibilità di inventare ingranaggi politico-amministrativi, meccanismi di consorteria di provincia, e di approfondire la questione massonica.
Tutte queste soluzioni avevano del potenziale, ma si traducevano anche in ulteriori strutture artefatte non necessarie al romanzo, mi risultavano un po’ pretestuose e artificiose, così le ho archiviate scarnificando il testo e utilizzando l’ambientazione più lineare possibile: ciò che vedevo dalla mia terrazza mentre scrivevo.
Non ho scelto la Capalbio turistica, i suoi lidi affollati, il suo divenire «Piccola Atene» in estate. Tutti questi aspetti non sono minimamente presenti, non c’è alcuna strizzata d’occhio. A me serviva la provincia, la profonda provincia, e Borgo Carige – frazione rurale – si prestava alla perfezione.

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