Arcipelaghi
Di Giorgio Mascitelli
Apprendo da fonte degna di fede ( uno di quei rotocalchi supplementi dei quotidiani che ci insegnano a distinguere il grano dal loglio, per così dire) che un vero ricco al passo con i tempi alla domanda su quanto sia grande la sua isola deve rispondere che lui possiede un arcipelago. Non sono certo un moralista, come pare sia necessario dire oggi, e poi c’è già il Santo Padre per insegnare a tutti il valore morale della povertà e della sobrietà e il rispetto della gerarchia, che consente a chi gode dei predetti beni spirituali di non privarsene mai; né intendo buttarla in politica ricordando come la Grecia stia pianificando di vendere alcune isole per ripagare le banche creditrici, di cui potrebbero essere azionisti magari alcuni degli stessi acquirenti. Non sono scandalizzato perché in fondo mi so simile ai collezionisti di isole: durante l’infanzia collezionavo figurine dei calciatori non per completare l’album, ma per il piacere di averne le tasche piene e, da un certo punto di vista, il collezionista di figurine e quello di isole e le rispettive collezioni non sono poi tanto differenti.
Se invece si prende in esame la questione da un punto di vista tecnico di retorica della comunicazione, allora le cose cambiano: attualmente il discorso mediatico sulla ricchezza è tutto improntato all’elogio della sobrietà, della misura e addirittura dello stesso pauperismo, nel quale annunci compiaciuti del taglio di superstipendi si alternano a indignate comunicazioni della pervicacia di coloro che si ostinano a non rinunciare a cifre ormai insolenti per il pubblico. Non mancano naturalmente gli elogi agli esempi positivi di liberalità e munificenza di chi può, come si diceva una volta. In un contesto mediatico così improntato a una severa tutela dei valori autentici della vita è chiaro che riportare eleganti bon mot come quello dei ricchi e dei loro arcipelaghi è una stonatura grave paragonabile a quella di chi, vestitosi meticolosamente in nero e compunto il volto a un’espressione tristemente partecipe in occasione di un funerale, si sorprenda nel corso della cerimonia a ridere sguaiatamente o a fare un pernacchione.
In senso tecnico si tratta di un’antifrasi, che è figura d’ironia e di solito viene impiegata con intenti demistificatori, e qui l’ironia e la demistificazione ci sono, ma sono involontarie. D’altronde è comprensibile che sia così: per un apparato mediatico costituzionalmente programmato all’ottimismo dei consumi riconvertirsi nel giro di pochi mesi a un pauperismo pessimista, seppur moderato, può essere molto difficile.
Il fatto più grave, se si è un operatore professionale della comunicazione, o più divertente, se non si è operatori, non è però la carica involontariamente demistificatoria di un dettaglio del genere dell’ipocrisia dei ricchi e dei potenti, che se la spassano godendosi i loro soldi e facendo solo finta di ridursi gli stipendi. Il fatto più grave o più divertente è che a qualcuno potrebbe venire in mente che questa battuta starebbe a pennello in una storia dei tempi antichi: sì una di quelle storie che si raccontano ancora oggi ai bambini con re e principesse, duchesse e ciambellani oppure, per il piacere dei classicisti più grandicelli, in una delle Vite dei Cesari di Svetonio.
Quando io avevo l’età dei bambini di oggi, anche allora vigeva l’austerità, eppure credo che nei media non sarebbe stato nemmeno pensabile un accenno a un’isola o a un arcipelago di proprietà di chicchessia. Probabilmente già allora qualche fortunato possedeva la sua brava isola, anche se erano meno di oggi, ma non sarebbe stato tollerabile che il discorso mediatico alludesse anche solo per scherzo a differenze e disuguaglianze così vistose e arcaiche da smentire la spinta democratica all’emancipazione nella società. Se il mondo era moderno, non ci potevano essere che comportamenti e divertenti moderni, anche tra i ricchissimi. Ovviamente già allora dietro questo spettacolo del progresso c’era chi lavorava fattivamente per rafforzare la disuguaglianza, che tuttavia non era ancora diventata uno spettacolo di successo.
Lo sarebbe diventato negli anni successivi: ora che il buon senso e la prudenza a causa della crisi suggeriscono di sostituirlo con quello della sobrietà, anche i professionisti della comunicazione fanno fatica a cambiare perché lo spettacolo della disuguaglianza non era una mistificazione, un falso che copriva la verità, anzi era la più schietta rappresentazione dello spirito dei tempi.
E naturalmente cambiano gli spettacoli, ma non i tempi e il loro spirito: magari uno di questi giorni costruisco insieme a mio figlio un’isola tutta nostra di sughero da far galleggiare nel laghetto dei giardini pubblici.
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tutti sottoscriverebbero,sull’acqua,le parole di John Donne,”nessun uomo è un’isola” e col sangue quelle di qualche predicatore texano :Qualsiasi cosa,”fuori dal mio giardino”
Mi sono rivisto “Lo scopone scientifico” di Comencini del 1972. Lì c’è una plurimiliardaria che equivale agli odierni detentori di arcipelaghi. Da vera plurimiliardaria “all’italiana” non addolcisce la sua immagine con laute donazioni filantropiche, ma è una vecchia sadica, capricciosa e dittatoriale. Ora, il regista, certo della complicità del pubblico, la condannerà ad essere avvelenata dalla figlia zoppa della famiglia di borgata, e avvelenata con veleno per topi. Almeno simbolicamente vi era unanimità nel ritenere moralmente abnorme chi godesse di un’ineguaglianza sociale tanto sfacciata ed estrema, e moralmente leggittimo punire tale mostruosità con l’assassinio. Negli stessi anni si diffondefa una filmografia, poi divenuta culto, negli USA e anche in Italia, improntata sul “giustiziere della notte”, cittadino o magari commissario, che s’improvvisava boia. Le vittime però erano sempre odiosi e maleodoranti criminali. Gente appunto uscita sporca e ferina dalla borgata. Mentre in Comencini ad essere giustiziata è un’elegantissima signora (la fascinosa e glaciale Bette Davis)