Note Movie : Venere in pelliccia
Nota
di Sophie Brunodet
Ambiguo, no ambivalente
È come ritrovarsi nello spazio che si frappone, invisibile e quasi inconcepibile, eppure presente, tra l’immagine riflessa in uno specchio e colui che si specchia. Sono la stessa cosa e allo stesso tempo sono differenti; entrambi esistono. È un gioco di rimandi dall’uno all’altro tra riconoscimento ed estraneazione, identità e differenza, essere e possibilità altra d’essere. È un combattimento e una riconciliazione continua quella che si svolge sul palcoscenico di un teatro parigino tra Thomas Novachek (Mathieu Amalric), regista e sceneggiatore di un opera teatrale tratta dall’omonimo libro datato 1870 dell’austriaco Leopold von Sacher-Masoch (1836 – 1895) e Vanda (Emmanuelle Seigner), attrice scompigliata arrivata in ritardo al provino per la ricerca del personaggio femminile della pièce. È un incontro e uno scontro di vite, di ruoli di genere e di potere: mentre per Thomas la sottomissione descritta da Masoch è amore, per Vanda non è nient’altro che un porno. È una lotta tra opposti, anzi, di più. C’è uno scarto dalla semplice, antipatica e poco fantasiosa logica binaria e dell’antitesi: c’è piuttosto un’apertura fatta di andirivieni continui e senza fine di ogni figura, forma rappresentativa, livello comunicativo da e verso altri possibili.
Una delle espressioni più ricorrenti in Venere in pelliccia, adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale di David Ives, presentato quest’anno a Cannes dell’ottantenne Roman Polanski, è “ambiguo, no ambivalente”, come continuamente Thomas precisa a Vanda, che immancabilmente si confonde. E proprio tale puntualizzazione ricorrente pare essere un indizio messo lì dal regista affinché lo spettatore si lasci trascinare non tanto in un limbo di incertezza e confusione, bensì in quello ben più affascinante del plurimo e del traboccante. Polanski, in effetti, non si limita a inscenare un gioco dell’equivocità delle identità dei protagonisti e neanche fa una controversia morale sulla sessualità masochista, ma si impegna nella ben più intrigante e complessa messa in scena della molteplicità insita in ogni anima umana, invischiata in viavai continui da ogni area dell’ispirazione, della fisicità, del sentimento, della virtù, dell’estetica dalle quali uomini e donne costantemente passano vivendo.
Tutta la storia si svolge durante un temporale serale, nel ristretto spazio magico di un non meglio precisato teatro parigino. Non c’è un epilogo vero e proprio della vicenda, lasciata sospesa in una dimensione mitica e surreale alla chiusura del sipario, allo stesso modo in cui l’inizio si innescava nella nebbia di un viale alberato. Polanski ha creato nel suo film un’atmosfera di sospensione nel reale che ricorda quella creata da J.L. Borges nel suo racconto L’altro (Il libro di sabbia, 1975), in cui si trovano l’uno di fronte all’altro il Jorge Luis ventenne e ginevrino e il Jorge Luis settantenne a Cambridge, senza che sia possibile precisare se si tratti di sogno, fantasia o realtà, senza poter decidere inequivocabilmente chi stia sognando o immaginando chi, e che si chiude con una pacifica accettazione dell’assurdo, proprio come mi pare faccia Polanski. Entrambi giocano sul filo del doppio e dell’ambivalente con i loro protagonisti, Borges creando un racconto sullo spazio che separa l’uomo di ieri dall’uomo che è oggi, in un atmosfera incerta tra il racconto di un fatto e il sogno, Polanski muovendosi nel margine tra rappresentato, rappresentante, rappresentazione e realtà, entrambi regalandoci un’esperienza vivida, inusuale, forte.
Due volti, innumerevoli personaggi
Due soli attori straordinari interpretano con grande abilità e credibilità un bouquet di personaggi incredibilmente variegato, riuscendo a confondere, a spiazzare e a sorprendere nel loro sfilare raffinato, istantaneo e senza posa, dall’uno all’altro. Mathieu Amalric è Thomas, un timido dalla vita sentimentale piacevole e ordinaria, che dà vita nella scrittura e attraverso la regia teatrale a quelle pulsioni e a quelle visioni cui non riesce a dare corpo nella sua vita. Thomas, però, si rivela anche abile attore, a dispetto della sua inesperienza, nell’interpretare il ruolo maschile della rappresentazione da lui scritta e diretta, quando viene trascinato sul palcoscenico dall’attrice ritardataria determinata a dar luogo al suo provino. E, allo stesso tempo, Thomas, è trasfigurato in Severin, il giovane aristocratico scrittore protagonista dell’opera teatrale, uomo che vive, all’ombra delle sue carte, fantasie erotiche masochistiche, che scorrono sul filo della dominazione – ma sarebbe meglio dire della contrattazione del dominio, aspetto tipicamente masochistico, assente nel sadismo – , abilmente travestito da schiavo mentre persuade ed educa la padrona che ha scelto per sé, Vanda Dunajew. Emmanuelle Seigner è, invece, Vanda, un donna energica, vitale, sprezzante e sboccata, che oltre a essere confusionaria ed eccentrica, è un’attrice professionista dalla memoria impeccabile e una donna solida, dominante nella vita amorosa come in quella lavorativa, intransigente rispetto a ogni sessismo maschilista. Vanda, però, è anche il nome della protagonista della pièce che Thomas vuole portare in scena. Vanda Dunajew è una nobile vedova di fine Ottocento, donna ricca e bella, dal portamento raffinato quanto la sua eloquenza. È passionale ed è fragile, dominatrice solo apparente. E, ancora, Vanda è la trasfigurazione di Venere, potente dea della bellezza e dell’amore, assunta a simbolo della carnalità delle passioni vissute nel momento e dei rapporti di dominio.
Non è possibile tracciare alcuna linea di demarcazione netta tra tutti questi ruoli. Polanski ha magistralmente giocato con la soglia che separa, unisce, ingarbuglia i differenti personaggi e le loro sfere morali, non solo lasciando lo spettatore sospeso e stordito di fronte al continuo slittamento tra l’attore e il personaggio, ma anche costruendo i differenti personaggi per cui le caratteristiche che in un certo momento si sarebbero certamente attribuite a l’uno si scoprono nell’altra, e viceversa.
Un viaggio nel feticismo
Varcando il portone del teatro, magicamente avvolto dalla tempesta, e ancor più salendo – e scendendo – dal palcoscenico, è un po’ come avventurarsi nel mondo dell’assurdo e del non senso che però hanno assolutamente senso in quanto mondo. Nel film di Polanski realtà, rappresentazione teatrale e fantasia sono così inestricabilmente intrecciati che il passaggio dall’uno all’altro è crescente e inafferrabile. Attraverso un’operazione che riproduce pienamente le dinamiche masochistiche, laddove il masochismo è sospensione, fuga nel sogno, idealizzazione del reale, come già individuato da Deleuze in Présentation de Sacher-Masoch (1967), nel film di Polanski si è portati a sospendere la logica, e a vivere semplicemente questa incredibile esperienza liminare. Per esempio, i suoni di scena sono realistici, mentre i gesti che li accompagnano sono solo recitati sul palcoscenico da Vanda l’attrice e da Thomas durante il provino. Lei non ha davvero in mano un libro e non c’è nessuna tazzina con cucchiaino, eppure noi ascoltiamo il frusciare delle pagine girate e il cucchiaino battere contro il bordo della tazza; il personaggio di Severin si sovrappone progressivamente a quello di Thomas, l’uno diventa l’altro per poi trasformarsi ancora in Vanda, in una vertigine continua; c’è un momento in cui la certezza dello spettatore sul dove abbia inizio la messa in scena, quindi sul limite tra soggetto e oggetto, viene turbata. Succede quando in primo piano, e in controluce rispetto a dove si svolge l’azione, si vedono le sagome delle poltrone del teatro che, così riprese da Polanski, si confondono con i sedili del cinema dove è in corso la proiezione di Venere in Pelliccia, dando l’impressione che Vanda stia arrivando da noi spettatori con il suo passo di danza dionisiaco; tutto il film è intriso di eroticità – il libro di von Sacher-Masoch parla di una donna che accetta di diventare la padrona di un uomo in un rapporto erotico masochistico e Thomas e Vanda sono invischiati in una densa amalgama di attrazione e repulsione reciproca, dominazione e sottomissione continua – , eppure, sono molte di più le volte in cui i corpi “fanno finta di” piuttosto di quelle in cui “fanno esplicitamente”. Al di là del corpo in lingerie di Seigner – corpo felicemente bello e pieno, più simile a quello delle veneri dipinte e a quello delle donne realmente esistenti che a quelli reclamati oggi come modelli di femminilità – tutta la carica sessuale del film scorre sul filo ben manovrato del non detto, non mostrato, non toccato.
In questo senso, quella di Polanski è una pellicola che adopera e onora il feticcio masochistico, proprio avvalendosi della sua qualità di sospensione tanto del reale quanto dell’ideale per creare un climax di eccitazione e curiosità capace di rapire e trasportare chissà dove lo spettatore. È affascinante perdersi in questa indeterminatezza continuamente riproposta nei vari passaggi della trama e nelle scelte registiche. L’opera di Polanski pare creare uno spazio sfumato dove non è chiaro quale sia il copione e quale l’improvvisazione, quale il personaggio letterario e quale la persona in carne e ossa, quale il palcoscenico e quale lo spettatore, portando sullo schermo una pellicola che riproduce perfettamente la dialettica propria del masochismo, la quale, rinviando nuovamente a Deleuze “non sta a significare semplicemente una circolazione del discorso, ma dei transfert o spostamenti tali da fare che la stessa scena sia svolta simultaneamente a diversi livelli, seguendo capovolgimenti e sdoppiamenti nella distribuzione dei ruoli e del linguaggio ”. È dunque impossibile determinare quale sia la mera rappresentazione e quale l’autentico, ammesso che ce ne sia uno.
Venere in Pelliccia è una sorta di pura assertività o immediata esperienza, dove pur non essendoci inequivocabilità e analiticità, né assoluzione o condanna definitiva, c’è davvero qualcosa di reale e di vivente.
Testo puntuale e preciso
ne sono lieta, grazie
E uno degli aspetti più disturbanti del gioco di rifrazioni di Polanski (che non può non compiersi su un palcoscenico, in un’unitarietà della rappresentazione squisitamente aristotelica) è proprio la speciale qualità (strindberghiana? O inevitabile?) del masochismo di Thomas che, portato alla luce dalla maieutica attrice, presuppone l’accettazione di un “essere donna” morbosamente rimosso.
sono ruoli disponibili e forse potenzialmente da sempre presenti, ma solo nell’alchimia di quel palcoscenico e di quel temporale entrambe le parti hanno trovato il luogo e il tempo ideali per sollecitare nell’altro e vivere personalmente quel piccante erotico cui si fa così tanta fatica ad abbandoarsi